Così il governo italiano (al tempo di Monti e Profumo) ha definito i docenti precari della scuola e il personale precario Ata nel corso della procedura d’infrazione promossa dalla Commissione Europea contro l’Italia per il ricorso abusivo ai contratti a termine. Quasi che i lavoratori di ruolo continuino a raccogliere le patate o a potare le viti di Lambrusco anche a stagione finita.
Lo abbiamo scoperto leggendo attentamente un dossier del Servizio Studi-Dipartimento Cultura della Camera dei Deputati e dell’Ufficio Rapporti con l’Unione europea allegato alla presentazione in Parlamento del DDL sulla Buona scuola.
Finora si conosceva solo il dispositivo della relazione della Commissione Europea acclusa alla procedura d’infrazione. Adesso è possibile entrare più nel dettaglio delle argomentazioni usate dal governo per difendersi dalle accuse. Argomentazioni del tutto discutibili.
E tocca alla Commissione rimandarle al mittente “Non è (nemmeno) sostenibile – replica la Commissione Ue, come riportato nel dossier – l’argomentazione delle autorità italiane che si tratti di un tipo di lavoro stagionale, dal momento che lo stesso tipo di attività lavorativa ma a tempo indeterminato avrebbe lo stesso carattere di stagionalità. Inoltre, lo stesso ordinamento italiano (DPR n. 1525/1963) non include l’attività didattica tra le attività di lavoro stagionale. Il fatto poi che uno stesso docente possa lavorare per più di venti anni con contratti di lavoro a tempo determinato contraddice l’esistenza delle ragioni oggettive invocate dalle autorità italiane (sostituzione e stagionalità)”.
Ma tant’è. “C’è un lato comico nelle difese del Ministero”, ironizza l’avv. Walter Miceli, legale dell’Anief. “Cerco di immaginare che faccia abbiano potuto fare gli austeri membri della Commissione Europea quando hanno ascoltato la descrizione degli insegnanti precari come lavoratori stagionali, al pari dei raccoglitori di patate”.
Il brano descritto è parte integrante di un corposo e competente dossier con cui i consulenti parlamentari sembrano ribadire al Governo ciò che forse il Governo in questi mesi ha dimenticato. Il Servizio Studi ribadisce due elementi fondamentali dei quali non si può certo prescindere nella fase dell’attuazione del piano straordinario di assunzioni: la sentenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo e la procedura di infrazione iniziata dalla Commissione Europea e tuttora in corso.
Il precedente – Non è la prima volta che il Servizio Studi interviene in questa materia, mettendo sull’avviso il legislatore pronto legiferare in maniera sfavorevole nei confronti dei precari della scuola. Lo aveva fatto nel 2011 in occasione dell’emanazione della legge salvaprecari quando scrisse un parere poi girato al legislatore che faceva riferimento alla Nota della Direzione Generale per il personale scolastico del Miur del 25 settembre 2008 secondo la quale il rapporto di lavoro che s’instaura tra il docente supplente e l’amministrazione scolastica “ha caratteristiche del tutto peculiari, tali da giustificare e da rendere necessaria una diversità di trattamento”, poiché “il regime specifico delle supplenze nel settore della scuola si caratterizza quale disciplina separata e speciale, nell’ambito dei rapporti di lavoro a tempo determinato, in ragione della necessità di garantire, attraverso la continuità didattica, il diritto costituzionale all’educazione, all’istruzione e allo studio”.
Tale diversità di trattamento, prosegue preoccupato il Servizio Studi, “troverebbe fondamento nel fatto che le supplenze sono caratterizzate sia dalla precarietà del rapporto, legata all’assenza del titolare, sia dalla mancanza di continuità, in quanto i vari periodi di servizio di supplenza attengono a diversi contratti di lavoro”.
Il Servizio Studi ha proseguito consigliando al legislatore di soprassedere dall’inserire norme ammazzadiritti come quella che poi fu emessa e relativa all’esclusione dei precari della scuola dal novero dei docenti che avrebbero dovuto essere risarciti per l’abuso di contratti a termmine.
“La disposizione in oggetto – scrisse il Servizio Studi, tre anni prima della sentenza Mascolo – potrebbe venirsi a trovare in contrasto con le previsioni della direttiva 1999/70/CE”. Potrebbero infatti mancare “ragioni oggettive”, secondo la richiamata interpretazione che la Corte ha dato di questa nozione, tali da giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato comparabili”.
Inoltre, si spiega ancora, la disciplina prevista dalla norma “potrebbe sollevare questioni di incompatibilità” con alcune norme comunitarie che stabiliscono “un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ivi comprese le condizioni di retribuzione”.
E si tratta di norme comunitarie non campate per aria ma di norme comunitarie che secondo il Servizio Studi della Camera sono state recepite nell’ordinamento nazionale con il d. lgs. 9 luglio 2003, n. 216, recante disposizioni volte all’attuazione della parità di trattamento tra le persone per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale. Ma tant’è.
Nel frattempo quella norma fu introdotta, il contenzioso s’inasprì, si moltiplicarono le sentenze dei giudici italiani, si arrivò alla discutibile sentenza ammazzadiritti della Corte di Cassazione del 2012, alla procedura d’infrazione della Commissione Europea contro l’Italia per l’abuso dei contratti a termine nelle nostre scuole, poi alle due vertenze presso il Tribunale di Napoli e presso la Corte Costituzionale che sfociarono nelle cause riunite presso la Corte di Giustizia, culminate poi con la sentenza del 26 novembre 2014. Si arriva nell’estate 2014 alla prima stesura di valenza mediatica della Buona scuola di Renzi nella quale si annuncia un piano straordinario di assunzioni (150.000 fin dal 1 settembre 2015, altre decine di migliaia a seguire), piano indotto – si esplicita – dalla imminente sentenza della Corte di Lussemburgo.
A sentenza comunitaria emessa l’entusiasmo governativo si stempera. Alla stesura mediatica segue una consultazione nazionale e infine l’annuncio di un Decreto Legge trasformato in men che non si dica in un Disegno di Legge che sembra avere dimenticato, quanto alla obbligatorietà delle assunzioni, il dettato fornito dalla Corte Ue e i pericoli connessi alla procedura d’infrazione. Di più: il limite dei 36 mesi di lavoro oltre i quali sarebbe scattato il diritto alal conversione del rapporto, viene trasformato dall’art. 12 del DDL da diritto per i docenti in un ostacolo per i medesimi.
L’articolo 12, ricorda ora il Servizio Studi, dispone che i contratti a tempo determinato del personale della scuola per la copertura di posti vacanti e disponibili (supplenze annuali) non possono superare la durata complessiva di 36 mesi e istituisce un Fondo per il risarcimento dei danni conseguenti alla reiterazione di contratti su posti vacanti e disponibili per più di 36 mesi. In particolare, il comma 1 stabilisce il divieto, per i contratti a tempo determinato stipulati con personale docente, educativo, amministrativo, tecnico ed ausiliario per la copertura di posti vacanti e disponibili (supplenze annuali), di superare la durata complessiva di 36 mesi, anche non continuativi. Preliminarmente, si ricorda che – come già detto nella scheda di commento relativa all’art. 6 del testo in esame – in base all’art. 4 della L. 124/1999, per la copertura dei posti vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico, si ricorre alle supplenze annuali. Più in generale, si ricorda che, ai sensi dell’art. 5, co. 4-bis, del D.lgs. 368/2001 (attuativo della direttiva 1999/70/CE), qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore abbia complessivamente superato i 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato. Il successivo art. 10, co. 4-bis, inserito dall’art. 9, co. 18, del D.L. 70/2011 (L. 106/2011), tuttavia, esclude dalla richiamata previsione i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA, considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato. Peraltro, già prima dell’intervento normativo del 2011, l’art. 1, co. 1, del D.L. 134/2009 (L.167/2009), modificando l’art. 4 della L. 124/1999, aveva disposto che i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze (di cui ai co. 1, 2 e 3 del richiamato art. 4) possono trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo nel caso di immissione in ruolo. Si tratta di una tematica sulla quale è di recente intervenuta la Corte di giustizia dell’Unione europea.
La sentenza Mascolo – Ed ecco il punto. In particolare, la Corte di giustizia dell’Unione europea – adita dalla Corte costituzionale e dal Tribunale di Napoli con domanda di pronuncia pregiudiziale in merito alla conformità della normativa italiana all’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (Accordo quadro CES, UNICE e CEEP78 del 18 marzo 1999) – con sentenza del 26 novembre 2014 (cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13), si è pronunciata sull’applicazione al personale scolastico della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa al medesimo Accordo quadro.
I procedimenti principali delle cause riguardavano diversi lavoratori assunti in istituti pubblici come docenti e collaboratori amministrativi in base a contratti di lavoro a tempo determinato, stipulati in successione e protrattisi per periodi di tempo molto estesi. Sostenendo l’illegittimità di tali contratti, i lavoratori hanno chiesto giudizialmente la riqualificazione dei loro contratti in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e la loro immissione in ruolo (oltre al pagamento degli stipendi corrispondenti ai periodi di interruzione tra i contratti e al risarcimento del danno subito).
Nella sentenza, la Corte ha ricordato, innanzitutto, che il citato Accordo quadro si applica a tutti i lavoratori, senza che si debba distinguere in base alla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro o al settore di attività interessato. Inoltre, ha evidenziato che il medesimo Accordo quadro (clausola 5, punto 1) impone agli Stati membri, al fine di prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione di almeno una delle misure elencate alle lettere da a) a c), concernenti, rispettivamente, ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo dei contratti, durata massima totale dei contratti, numero dei loro rinnovi.
Poiché la normativa italiana non prevede alcuna misura che limiti la durata massima totale dei contratti o il numero dei loro rinnovi, né misure equivalenti, il rinnovo deve essere giustificato da una “ragione obiettiva”, quale la particolare natura delle funzioni, le loro caratteristiche o il perseguimento di una legittima finalità di politica sociale. Secondo la Corte, la sostituzione temporanea di lavoratori per motivi di politica sociale (congedi per malattia, parentali, per maternità o altri) costituisce una ragione obiettiva che giustifica la durata determinata del contratto.
La Corte ha rilevato, inoltre, insiste il Servizio Studi della Camera, che l’insegnamento è correlato a un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione che impone allo Stato di organizzare il servizio scolastico garantendo un adeguamento costante tra il numero di docenti e il numero di studenti, cosa che dipende da un insieme di fattori, taluni difficilmente controllabili o prevedibili. Tali fattori attestano una particolare esigenza di flessibilità, che può oggettivamente giustificare il ricorso a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
Allo stesso tempo, ribadisce il Servizio Studi, la Corte ha ammesso che può altresì oggettivamente giustificarsi che, in attesa dell’espletamento di concorsi per l’accesso ai posti permanenti, i posti da occupare siano coperti con una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Ciò premesso, la Corte ha evidenziato, tuttavia, che la normativa italiana viola, nella sua applicazione concreta, la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’Accordo quadro, in quanto conduce, nei fatti, a un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato: infatti, tali contratti sono utilizzati per soddisfare esigenze permanenti e durevoli delle scuole statali a causa della mancanza strutturale di posti di personale di ruolo.
Ha ricordato, infatti, insiste il Servizio Studi parlamentare, che il termine di immissione in ruolo dei docenti nell’ambito di tale sistema è variabile e incerto (non è previsto alcun termine preciso per l’organizzazione delle procedure concorsuali, l’immissione in ruolo per effetto dell’avanzamento dei docenti in graduatoria dipende da circostanze aleatorie e imprevedibili, come la durata complessiva dei contratti di lavoro a tempo determinato, o il numero di posti nel frattempo divenuti vacanti).
La Corte, dunque, è giunta alla conclusione che l’Accordo quadro non ammette una normativa, quale quella nazionale, che, fatte salve le verifiche da parte dei giudici del rinvio, non prevede alcuna misura di prevenzione del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato e, al contempo, esclude il risarcimento del danno subito a causa del medesimo ricorso abusivo nel settore dell’insegnamento, non consentendo neanche la trasformazione di tali contratti in contratti a tempo indeterminato.
L’Ufficio Studi va oltre. E ricorda che a seguito della pronuncia della Corte di giustizia, il Tribunale di Napoli ha emanato tre sentenze di analogo tenore (nn. 528, 529 e 530 del 2015), con le quali, tra l’altro, ha riqualificato il rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con decorrenza dalla data di superamento dei 36 mesi (di cui all’art. 5, co. 4-bis, del d.lgs. 368/2001), e ha condannato il MIUR al pagamento in favore dei ricorrenti delle retribuzioni contrattualmente dovute per i periodi di interruzione del rapporto di lavoro intercorsi tra la medesima data di decorrenza e la effettiva immissione in ruolo.
Il Tribunale di Sciacca, invece, ricorda il Servizio Studi, con sentenze nn. 252 e 253 del 3 dicembre 2014 ha dichiarato la illegittimità dei contratti a termine stipulati con il lavoratore e ha condannato il MIUR al pagamento in favore del ricorrente, a titolo di risarcimento, degli scatti di anzianità e degli emolumenti relativi in corrispondenza delle supplenze concretamente eseguite. Inoltre, la medesima Amministrazione è stata condannata al pagamento di una somma corrispondente alle retribuzioni di fatto per i periodi non lavorati intercorrenti tra i vari contratti, a partire dalla messa in mora della stessa e fino alla data della sentenza. Ai sensi del comma 2, nello stato di previsione del MIUR è iscritto il Fondo per i pagamenti in esecuzione di provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto il risarcimento dei danni conseguenti alla reiterazione di contratti a termine per una durata complessiva superiore a 36 mesi, anche non continuativi, su posti vacanti e disponibili, con la dotazione di euro 10 milioni per ciascuno degli anni 2015 e 2016.
La procedura d’infrazione – Da parte sua, l’Ufficio Rapporti con l’Unione europea segnala che il 25 ottobre 2012 la Commissione europea ha avviato nei confronti dell’Italia la procedura di infrazione n. 2010/2124 per la non corretta applicazione della direttiva 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato nel settore scolastico italiano. Finora, come detto, conoscevamo solo il dispositivo finale della presa di posizione della Commissione.
Ora possiamo entrare nel dettaglio grazie al dossier in questione. In particolare, nella fase precontenziosa EU Pilot – precisa l’Ufficio parlamentare Rapporti con l’Unione Europea – la Commissione ha accertato che nell’ordinamento scolastico italiano è estremamente diffuso il ricorso alla stipula di contratti a tempo determinato con la stessa persona (docente e personale ATA); che per tali soggetti non sono previsti dall’ordinamento italiano mezzi efficaci di riparazione in caso di abuso di contratti successivi a tempo determinato; che il trattamento riservato a tali soggetti è meno favorevole rispetto al corrispondente personale a tempo indeterminato (in termini di anzianità lavorativa e di valutazione dell’attività professionale ai fini del calcolo degli stipendi)
. Il primo rilievo sollevato dalla Commissione nel parere motivato, emesso il 20 novembre 2013, riguarda il trattamento meno favorevole del personale a tempo determinato rispetto al corrispondente personale con contratto a tempo indeterminato: sulla base delle informazioni inviate dalle autorità italiane, alla Commissione europea risulta che per tale personale non si tiene conto né dell’esperienza professionale maturata, né dei risultati ottenuti ai fini delle progressioni stipendiali (gli stipendi vengono pagati a livello di inizio carriera senza tenere conto degli anni di servizio analogo in forza di contratti precedenti).
Nella risposta alla lettera di costituzione in mora, le autorità italiane hanno avallato tale interpretazione sulla base del carattere di precarietà del rapporto, legata all’assenza del titolare, e della mancanza di continuità, in quanto i vari periodi di servizio di supplenza attengono a distinti contratti di lavoro e non danno luogo ad un vero e proprio sviluppo di carriera. Ad avviso della Commissione, tuttavia, la giustificazione della differenza di trattamento non è coerente con la direttiva 1999/70/CE.
Un altro rilievo – riporta sempre l’Ufficio Rapporti con l’Unione europea – riguarda l’insufficiente efficacia delle misure destinate a contrastare l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato nelle scuole pubbliche italiane.
La Commissione, a tale riguardo, precisa preliminarmente che non è in discussione la correttezza del ricorso ai contratti a tempo determinato, previsto dalla direttiva, ma piuttosto il ricorso continuo ed indebito a tale tipo di contratto. La coerenza di tale ricorso con la lettera a), della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro allegato alla direttiva, sostenuta dalle autorità italiane, è contestata dalla Commissione, in quanto, non sussisterebbero motivi oggettivi che giustificano il rinnovo dei contratti. In primo luogo, la direttiva 1999/70/CE non impedisce allo Stato membro di elaborare provvedimenti specifici per un settore altrettanto specifico, purché la soluzione elaborata sia efficace.
La Commissione contesta piuttosto il fatto che la soluzione non risulta abbastanza efficace da essere accettabile. Inoltre, la Commissione non condivide l’argomentazione italiana in base alla quale i contratti a tempo determinato sono conformi ad una caratteristica specifica del settore scolastico e garantiscono la continuità dell’insegnamento. Le critiche della Commissione si appuntano sul ricorso abusivo a tale contratto che, nella realtà dei fatti, serve a garantire la presenza di forza lavoro e non riguarda la sostituzione di personale assente. Non è condivisibile nemmeno l’argomentazione riguardante il ricorso residuale ma obbligatorio a tale tipo di contratto per la necessità di garantire la continuità dell’insegnamento.
I dati in possesso della Commissione attestano un ricorso massiccio al rinnovo dei contratti a tempo determinato (nell’anno scolastico 2007/2008, più del 15 per cento del personale docente e circa il 31 per cento del personale ATA era a tempo determinato), in contraddizione con il carattere di sussidiarietà delle situazioni, attestato dalle autorità italiane. L’asserita possibilità per i docenti reclutati con più contratti successivi a tempo determinato di arricchirsi con una più vasta gamma di esperienza, assimilando tali periodi al periodo di prova, non è sostenibile in quanto non è prevista l’automatica conversione del contratto in un contratto a tempo indeterminato.
Non è nemmeno sostenibile l’argomentazione delle autorità italiane che si tratti di un tipo di lavoro stagionale, dal momento che lo stesso tipo di attività lavorativa ma a tempo indeterminato avrebbe lo stesso carattere di stagionalità. Inoltre, lo stesso ordinamento italiano (DPR n. 1525/1963) non include l’attività didattica tra le attività di lavoro stagionale. Il fatto poi che uno stesso docente possa lavorare per più di venti anni con contratti di lavoro a tempo determinato contraddice l’esistenza delle ragioni oggettive invocate dalle autorità italiane (sostituzione e stagionalità).
Inoltre, pur avendo la Corte di cassazione (sentenza n. 10127/2012) validamente considerate ragioni oggettive la necessità di coprire posti di insegnamento vacanti e disponibili o non vacanti e disponibili entro il 31 dicembre e di sostituire personale in congedo (si tratta, infatti, di misure equivalenti a quelle di cui alla clausola 5 dell’accordo quadro), non risulta validamente considerata l’ulteriore giurisprudenza della Corte di giustizia europea che impone la verifica della situazione, al fine di escluderne il carattere di necessità fittizia.
Tale verifica consentirebbe, infatti, di accertare che, nel caso italiano, le assunzioni soddisfano un bisogno permanente di manodopera, non considerato tra le ragioni oggettive che giustificano il ricorso a più contratti a tempo determinato, sulla base della direttiva.
La Commissione non condivide nemmeno l’argomentazione italiana in base alla quale il nuovo contratto di lavoro a tempo determinato non costituisce la continuazione di quello precedente in quanto la stipula con il medesimo soggetto dipende dalla sua posizione nell’elenco di docenti non di ruolo.
Sulla base della giurisprudenza della Corte europea, la Commissione afferma che tale interpretazione consentirebbe di assumere lo stesso docente con il medesimo tipo di contratto escludendolo di fatto dalle tutele della direttiva 1999/70/CE e svuotando la direttiva medesima e l’accordo quadro allegato del suo significato.
La Commissione, inoltre, non contesta la possibilità di uno Stato membro di recepire una direttiva mediante norme specifiche, aggiunte a quelle di carattere generale ma piuttosto il fatto che tali norme non sono abbastanza efficaci da essere accettabili.
La Commissione – ribadisce l’Ufficio Rapporti con l’Unione europea – non condivide nemmeno l’argomentazione delle autorità italiane che hanno affermato di essersi avvalse della possibilità, prevista dalla direttiva, di creare deroghe o di escludere i contratti di lavoro nel settore della scuola dai requisiti stabiliti dalla direttiva, in ragione delle caratteristiche specifiche del settore. Infatti, la direttiva non prevede deroghe alla necessità di tutelare i lavoratori ma solo la possibilità di variare le modalità con cui garantire la tutela.
Infine, nessuna delle modifiche normative proposte nel tempo dalle autorità italiane costituiscono, ad avviso della Commissione, una misura efficace per risolvere il problema del ricorso abusivo a contratti di lavoro a tempo determinato successivi nelle scuole.
Da ultimo, ad avviso della Commissione, le norme italiane sul risarcimento del danno non costituiscono una misura efficace per impedire il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a tempo determinato nelle scuole. A parte il risarcimento, non esisterebbero né disposizioni alternative che assicurino in modo soddisfacente la tutela richiesta dalla direttiva né misure efficaci volte a prevenire e, nel caso, a sanzionare, l’abuso.
Inoltre, i tribunali nazionali hanno interpretato in modo restrittivo il tipo di risarcimento che può essere concesso, sollevando dubbi sull’efficacia e la deterrenza del risarcimento come forma di riparazione. Oltretutto, per il lavoratore sarebbe oltremodo difficile provare in sede giudiziale le lesioni subite (in termini, ad esempio, di perdita di altre occasioni di lavoro) ai fini di ottenere il ristoro del danno. Tali motivi, pertanto, dimostrano, ad avviso della Commissione, che le misure italiane non sono compatibili con la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE.
“Governo sconfessato!” – Caustico il giudizio dell’avvocato Vincenzo De Michele, studioso del precariato scolastico e patrocinatore assieme ad altri legali dei ricorsi presso la Corte di Giustizia. Che osserva: “Il Servizio Studi della Camera sconfessa il giudizio sulle motivazioni dell’art. 12 del Disegno di legge sulla Buona scuola e si chiede se sia compatibile con la sentenza Mascolo e con la procedura d’infrazione. E mi pare che sia incompatibile. Il Servizio ricostruisce la vicenda in maniera esaustiva rispetto al governo: stando a quest’ultimo, sembrerebbe quasi che se le sia inventate lui le immissioni. Questo parere ci dice che sostanzialmente il governo si è messo in contrasto con la normativa euuropea. Il governo non ha nessuna intenzione di sanare la situazione di inadempimento e di introdurre sanzioni effettive a carico dello Stato. La novità è che per la prima volta abbiamo da parte del Servizio la rappresentazione del contenuto integtrale della Commissione europea. Prima avevamo solo il dispositivo. Il governo ha assunto nelle difese una posizione indecente per uno stato di diritto per la dignità dei docenti e del personale Ata dipinti come lavoratori stagionali e la Commissione ha detto che non è così. Chiederemo il testo integrale del parere motivato. I cittadini devono sapere cosa questi signori hanno detto all’Europa: ne va della dignità dei lavoratori. Peraltro, chi lavora al Centro studi dimostra di meritare lo stipendio. Hanno dimostrato di conoscere il diritto comunitario meglio di questo sciagurato governo. Ora vogliamo conoscere il carteggio di come si è difeso il governo di fronte a docenti definiti stragionali”.
Fin qui tutto bene, ma è solo illusione. A dirlo è l’avv. Walter Miceli. “Io penso – conlude il legale dell’Anief – che il DDL sulla scuola abbia semplicemente riprodotto le medesime condizioni che hanno portato alla sentenza Mascolo della Corte di Giustizia: ossia la mancanza delle misure di prevenzione e di sanzione della abusiva reiterazione dei contratti a termine. Con un’unica differenza, per la verità: il serbatoio da cui attingere per stipulare i contratti a termine sui posti vacanti, nelle intenzioni del Governo, dovrebbe essere la seconda fascia delle graduatorie d’istituto, e quindi i precari sfruttati non avrebbero neppure la prospettiva di accumulare punteggio utile ai fini di una futura immissione in ruolo per scorrimento di tali graduatorie. Noi però siamo convinti che la Corte Costituzionale e i Giudici del Lavoro impediranno il perpetuarsi di questa condizione di flagrante violazione dello stato di diritto ai danni dei lavoratori della scuola. In definitiva, il Ministro Giannini, con la sua sottovalutazione degli effetti della sentenza Mascolo, mi ricorda la storia di quell’uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: ‘Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene’.
Fin qui tutto bene, caro Ministro, ma le migliaia di cause pendenti per abusiva reiterazione dei contratti dovranno essere decise, così come dovrà concludersi la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea contro lo Stato Italiano, e allora lo schianto sarà inevitabile. Il Parlamento, però, nei prossimi giorni potrà impedire questo disastro: basterà dare seguito agli impliciti suggerimenti provenienti dal Servizio Studi della Camera dei Deputati”.