Approfondimento sulla centralità del Principio di Proporzionalità nell’azione amministrativa


La sesta sezione del Consiglio di Stato, richiamando numerose pronunce della consolidata giurisprudenza, con sentenza del 7 marzo 2025 n. 1920 torna a ribadire che il principio di proporzionalità nell’azione amministrativa, in particolare nell’ambito di provvedimenti sanzionatori, rappresenti uno dei principi cardine “ogni qual volta [l’Amministrazione] disponga di margini di appezzamento discrezionale riguardo all’adozione di provvedimenti precipuamente restrittivi della sfera giuridica del destinatario”.

Il caso

La questione affrontata dal Consiglio di Stato concerne la richiesta di riforma della sentenza di primo grado da parte del Ministero soccombente che, dopo aver revocato la concessione di un contributo in favore di un privato, ha subito l’annullamento del provvedimento in questione dal TAR Marche.

Nel 2018, per mezzo di un intermediario, Il privato aveva chiesto ed ottenuto un finanziamento quinquennale di 2 milioni di euro da impiegare in investimenti in tecnologie digitali per l’ampliamento del suo stabilimento industriale, chiedendo contestualmente un contributo commisurato al valore degli interessi sul finanziamento che, con decreto successivo, era stato concesso dal Ministero ricorrente. Tre anni dopo, nel 2021, l’Amministrazione comunicava all’impresa l’avvio del procedimento di revoca totale del contributo e, spirati i termini di interlocuzione procedimentale, disponeva la revoca delle agevolazioni concesse.

Le differenti motivazioni addotte nel preambolo del provvedimento di revoca si basavano, in particolare, sul contrasto tra quanto previsto dai decreti ministeriali di riferimento in merito ai termini da rispettare per taluni adempimenti e l’effettiva condotta posta in essere dal privato; secondo l’Amministrazione, infatti, il ricorrente aveva trasmesso la dichiarazione di ultimazione dell’investimento, la richiesta di erogazione e la comunicazione del saldo del bene ben oltre gli anzidetti termini e, per l’effetto, aveva disposto la conseguente revoca totale dell’agevolazione concessa.

A sostegno dell’impugnativa il privato formulava, tra gli altri motivi di ricorso, eccesso di potere per violazione del principio di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa, nonché del principio di affidamento e buona fede in relazione all’art. 1, comma 2-bis, legge n. 241 del 1990 unitamente alla domanda, in via subordinata, di risarcimento danni per responsabilità civile del Ministero per violazione delle regole generali di affidamento e di buona fede.

Il TAR Marche, nel ritenere fondati tutti i motivi di ricorso del privato, in via preliminare accoglie la doglianza di cui si discute poiché, la revoca in questione, di fatto era avvenuta ben oltre il termine dei 12 mesi previsto dall’art. 21-nonies l. 241/1990, ratione temporis applicabile, dal momento della notificazione del provvedimento caducante il contributo già concesso.

A mente del soprarichiamato articolo, infatti, fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, “il provvedimento amministrativo illegittimo […] può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, […] e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. […]”; al limite dei 12 mesi fanno eccezione i provvedimenti adottati sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci.

L’annullamento e le decadenze accertative

Avverso la sentenza del Tar per le Marche, l’Amministrazione ha dunque proposto l’appello in esame invocando, in via preliminare, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 21-nonies della l. 7 agosto 1990 n. 241 ritenendo che l’atto de qua sia da ricondurre alla categoria delle c.d. “decadenze accertative” e non all’alveo dell’art.21-nonies.

In merito alla differenza tra autotutela e decadenza, si richiama preliminarmente quanto precisato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n.18 del 2020 ossia che “la decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva, ex tunc (o in alcuni casi ex nunc), di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio), è istituto che, pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell’autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente:

  1. a) per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21 nonies della legge 241/90 che ne disciplini presupposti, condizioni ed effetti;
  2. b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto;
  3. c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti.

Rispetto al terzo punto, in particolare, il Ministero ricorrente rileva che la decadenza accertativa qui invocata, concerne la necessità che “l’Amministrazione verifichi i presupposti ed i requisiti della validità dell’atto e della sua perdurante idoneità a perseguire l’interesse pubblico originariamente perseguito”. A questa potestà, correlata all’accertamento della inosservanza di obblighi che il destinatario dell’agevolazione si era impegnato a osservare, corrisponde l’esercizio di un potere vincolato avente carattere sanzionatorio ovvero ripristinatorio, che ha il precipuo scopo di salvaguardare quello stesso interesse pubblico, connesso al settore protetto con la concessione dell’agevolazione. Sotto questo profilo, il ricorrente, per gli anzidetti motivi, asserisce che l’appellato, non adempiendo agli specifici obblighi assunti e nascenti dalla lex specialis, per effetto di tale inosservanza legittimava la pronuncia della revoca.

Sotto altro profilo, inoltre, l’appellante sostiene che il decreto di cui si discute, poiché fondato su profili distinti, autonomamente suscettibili di comportare la revoca, costituisce un provvedimento a motivazione plurima; l’illegittimità di una di queste, pertanto, non invalida le altre ragioni che, da sole, sono idonee a sorreggere il provvedimento.

Le motivazioni che assolvono a tale scopo, secondo il Ministero, sono quelle connesse al saldo dei beni avvenuto oltre i termini previsti dalla lex specialis, il quale costituisce ex se un vizio sostanziale che attiene alla fase successiva al decreto di concessione e il cui controllo può avvenire solo dopo aver ricevuto la relativa documentazione da parte dell’impresa. Di conseguenza, per il ricorrente, quanto argomentato dal Giudice di prime cure secondo cui il decreto in esame costituirebbe un annullamento d’ufficio del provvedimento amministrativo illegittimo “ab origine“, di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 e in relazione al quale sarebbe consentito discrezionalmente l’annullamento in autotutela dell’atto favorevole, appare illogico rispetto all’obbligatorietà delle azioni di controllo previste dal decreto di concessione e che possono esplicarsi solo in un momento successivo all’adozione del medesimo.

Il principio di proporzionalità nell’azione amministrativa

Nel dichiarare l’infondatezza del ricorso, le argomentazioni del Consiglio di Stato muovono dal richiamo espresso all’art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990 e s.m.i. a mente del quale «l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta … dai principi dell’ordinamento comunitario».

Tra questi vi è il principio di proporzionalità, considerato diretta specificazione di quello di ragionevolezza.

Nell’ordinamento europeo, il principio di proporzionalità nell’azione amministrativa sancisce che le Pubbliche Amministrazioni non possano imporre restrizioni ovvero obblighi in misura superiore a quelli strettamente necessari per il perseguimento del pubblico interesse. Questo, pertanto, rappresenta il criterio principe da porre alla base dell’attività discrezionale sottesa ad una valutazione comparativa di diversi interessi, imponendo che nell’esercizio di tale attività l’Amministrazione operi una gradazione e attribuisca un giusto peso a tutti i diversi interessi coinvolti.

L’ingresso più dirompente nell’ordinamento nazionale di questo principio avviene ad opera della Legge n. 15 del 2005 con la quale viene inserito nell’art. 1 comma 1 il soprarichiamato riferimento ai principi europei. A mezzo di questa previsione il legislatore intende confermare che il principio in questione non debba solo trovare applicazione in sede di giudizio rispetto al cattivo uso della discrezionalità amministrativa, ma anche che l’agire stesso della Pubblica Amministrazione debba costantemente essere proporzionato all’obiettivo perseguito dalla norma attributiva del potere.

La ricerca di questa proporzione rende necessario che tutti gli interessi in gioco vengano dapprima correttamente individuati e, successivamente alla loro identificazione, che i medesimi vengano messi a confronto e in relazione tra di loro.

In tal modo l’amministrazione ben dovrà ripercorrere ogni suo possibile intervento alla ricerca di quella soluzione che sarà non solo in grado di soddisfare l’interesse pubblico, ma che soddisfi anche quei criteri richiamati più volte dalla giustizia amministrativa (ex multis Tar Lazio, Sezione III, n. 11991/2016) che rispondono alla c.d. “tecnica dei tre gradini”.

E più in particolare che “il rispetto del principio di proporzionalità va in particolare verificato secondo la tecnica dei tre gradini: l’idoneità, la necessarietà e l’adeguatezza. L’idoneità è la capacità dell’atto a raggiungere gli obiettivi che lo stesso si propone. Il principio di necessarietà orienta la scelta tra più mezzi astrattamente idonei al raggiungimento dell’obiettivo prefissato e permette di individuare quello ugualmente efficace, ma che incida meno negativamente nella sfera del singolo. Una volta che l’atto è idoneo e necessario, se ne dovrà valutare la tollerabilità da parte del privato in funzione del fine perseguito (adeguatezza) [cfr. T.A.R. Salerno, sez. II, 29 giugno 2015, n. 1477]”.

La necessarietà, in particolare, è considerata un vero e proprio obbligo in capo all’amministrazione di scegliere il mezzo più mite, ossia quello meno invasivo per il soggetto inciso dal provvedimento finale. Peraltro, in caso di impugnazione del provvedimento amministrativo, sulla Pubblica Amministrazione grava l’onere di dimostrare di non avere alcun altro mezzo, parimenti efficace, in grado di incidere in misura meno negativa nella sfera giuridica del soggetto interessato.

Dopo aver scelto i mezzi ritenuti più miti e idonei, l’amministrazione deve individuare quello più “adeguato”, ossia quello che astrattamente comporta il minor sacrificio per il destinatario finale del provvedimento, valutandone la tollerabilità. L’accertamento di questo elemento si rivela piuttosto complicato, attesa l’alta discrezionalità di cui dispone l’amministrazione in ordine a siffatta valutazione.

Sulla scorta di quanto sin qui esaminato, il principio di proporzionalità deve necessariamente assurgere a imprescindibile canone ermeneutico da parte del funzionario chiamato ad applicare la norma generale e astratta al caso concreto, anche in relazione all’adozione di atti amministrativi generali e atti normativi e programmatici, finanche alle ordinanze contingibili e urgenti.

La decisione del Consiglio di Stato in merito al principio di proporzionalità nell’azione amministrativa

Come anzidetto, i giudici di Palazzo Spada dichiarano infondato il ricorso proposto dal Ministero ricorrente muovendo dalla novella dell’art.1 comma 1 della Legge n. 241 del 1990 e avendo cura di evidenziare la peculiare rilevanza del principio di proporzionalità nell’azione amministrativa in relazione alla questione posta, ribadendo che questo “[…]è una manifestazione del principio di ragionevolezza, in forza del quale ogni misura adottata dalla Pubblica Amministrazione, destinata ad incidere su posizioni private, deve essere proporzionale rispetto a quanto richiesto dagli obiettivi perseguiti.

L’osservanza di tale principio fa sì che le Pubbliche Amministrazioni non possano “comprimere la sfera giuridica dei destinatari della propria azione in misura diversa e ultronea, ossia sproporzionata, rispetto a quanto necessario per il raggiungimento dello scopo cui l’azione stessa è preordinata”.

A ribadire quanto detto in ordine all’estensione del principio in parola all’intera attività amministrativa e non solo a quella giurisdizionale, nella sentenza in esame il Consiglio di Stato torna a sottolineare come questo principio debba essere riferito a un vero e proprio senso di equità e di giustizia caratterizzante ogni soluzione del caso concreto, indipendentemente dalla sede in cui questa venga decisa.

Al contempo, ribadisce che quello della ragionevolezza rappresenta quel “criterio al cui interno convergono altri principi generali dell’azione amministrativa (imparzialità, uguaglianza, buon andamento) e la Pubblica amministrazione, in forza di tale principio, deve rispettare una direttiva di razionalità operativa al fine di evitare decisioni arbitrarie od irrazionali”.

Ne discende che nell’esercizio del potere attribuitole dalla legge, la Pubblica Amministrazione non possa limitarsi all’applicazione meccanica della norma, bensì che la applichi tenendo conto di parametri di proporzionalità, adeguatezza e logicità, unitamente all’applicazione del criterio di prevalenza della sostanza sulla forma ove si riscontrino vizi di natura meramente formale ovvero procedimentali, “soprattutto in relazione a quelle posizioni del privato che abbiano assunto una consistenza tale da ingenerare in questo un legittimo affidamento circa la loro regolarità”.

A maggior ragione se la questione coinvolge la possibile adozione di un provvedimento a carattere sanzionatorio, il principio di proporzionalità deve essere il parametro cardine sul quale fondare una decisione connotata da un apprezzamento discrezionale; è infatti necessario che l’amministrazione operi una valutazione complessiva di tutti gli elementi che caratterizzano la questione esaminata alla luce del fatto che, “ogni qualvolta il provvedimento sanzionatorio appaia ictu oculi sproporzionato, quanto a severità, in relazione ai fatti addebitati”, si configurerà il vizio di eccesso di potere di cui all’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990 e, conseguentemente, la relativa annullabilità del provvedimento.

E poiché per stessa ammissione del ricorrente il decreto oggetto del contendere è un provvedimento avente carattere sanzionatorio ovvero ripristinatorio, idoneo ad incidere negativamente nella sfera giuridica del destinatario, “il principio di proporzionalità deve essere considerato espressivo dei limiti dell’atto di ritiro – ed innegabilmente ci troviamo di fronte ad un atto (quello impugnato) palesemente sproporzionato rispetto alle condotte stigmatizzate e violativo del principio generale della buona fede”, anche in relazione alle stesse motivazioni addotte dal ricorrente nel decreto medesimo.

Non vi è infatti alcun dubbio in ordine alla legittimità dell’attribuzione originaria del beneficio in favore del soggetto appellato, bensì un mero vizio formale in ordine alla violazione di profili temporali di alcune norme della lex specialis per le quali, anche volendo ammettere la decadenza accertativa, questa dovrebbe essere dichiarata solo a seguito di tutte le circostanze di fatto che hanno connotato l’esecuzione del rapporto.

Il Consiglio di Stato, inoltre, stigmatizza come “l’unica preoccupazione che ha mosso l’Amministrazione sembra essere stata il ripristino delle legalità formale assunta come violata” precisando che, nell’ambito delle motivazioni addotte, non sia mai stata fatta menzione alcuna rispetto alle valutazioni effettuate dall’Amministrazione e alla ponderazione dell’interesse del privato che aveva pur sempre effettuato l’investimento oppure rispetto alla valutazione del contesto fattuale nel quale il ritardo contestato è maturato.

L’infondatezza del ricorso riposa sulla circostanza che Il ricorrere dei presupposti normativamente richiesti non fonda di per sé l’atto di ritiro, poiché i soli  ritardi da parte del privato non erano sufficienti a legittimare l’esercizio del potere; l’amministrazione avrebbe dovuto valutare l’esistenza di tali presupposti alla luce dei fatti occorsi in applicazione del principio di proporzionalità, ferma restando la corretta decisione del giudice di prime cure per il quale l’autotutela deve comunque essere esercitata entro quel termine ragionevole di cui all’art.21 nonies, alla luce dell’affidamento insorto nel privato sull’erogazione del contributo e al conseguente investimento.

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