La quarta sezione del Consiglio di Stato con sentenza del 12 febbraio 2025 n. 1168 ribadisce nuovamente che il bando di concorso indetto dalla Pubblica Amministrazione, costituendo lex specialis, non è soggetto ad alcuna attività ermeneutica integrativa da parte della Commissione di concorso ma va interpretato in termini strettamente letterali.


Il caso

La questione in argomento concerne la richiesta di riforma della sentenza di primo grado con la quale il T.A.R. del Lazio aveva respinto la richiesta di annullamento della graduatoria finale nonché di tutti gli atti ad essa presupposti, tra i quali la prova scritta d’esame, nella quale la ricorrente non aveva conseguito un punteggio sufficiente.

La prova in questione, consistente nella somministrazione di venti quiz a risposta multipla, per come disciplinata all’art.6 del bando di concorso, prevedeva che la stessa fosse articolata in “dieci quesiti di cultura generale e dieci quesiti volti a verificare le conoscenze rilevanti afferenti alle seguenti materie: […] elementi di diritto del patrimonio culturale; nozioni generali sul patrimonio culturale italiano; elementi di diritto amministrativo; conoscenza della lingua inglese”.

All’esito alla prova, la ricorrente aveva conseguito un punteggio di 20,4, a fronte della soglia di sufficienza stabilita in 21 punti.

La contestazione avanzata dall’istante concerneva, tra le altre, la presenza di alcuni quesiti vertenti il Diritto Costituzionale e, rispetto ai quali, ad uno di questi aveva fornito risposta errata.

Le motivazioni del Consiglio di Stato

Conviene con l’appellante il Consiglio di Stato affermando che, “sebbene la Commissione giudicatrice disponga di un’ampia discrezionalità tecnica nella formulazione delle domande da sottoporre ai candidati nell’espletamento delle prove di concorso, tale attività può essere sindacata sia per irrazionalità dei quesiti sia per estraneità degli stessi alle materie di esame”. Quanto stabilito nella lex spexialis, e più precisamente nel richiamato art.6 della medesima, infatti, pone in capo alla Commissione esaminatrice un insuperabile vincolo rispetto alla predisposizione dei quesiti da somministrare in sede d’esame, e la medesima, ancorché dotata dell’anzidetta ampia discrezionalità tecnica in ordine alla formulazione delle domande, non può certo formularne su materie che non siano previste nel bando di concorso.

Nel tentativo di rendere convincente la scelta operata dalla Commissione esaminatrice di somministrare quiz inerenti il diritto costituzionale ancorché non presente tra l’elenco delle materie oggetto d’esame, in primo grado di giudizio l’Amministrazione resistente aveva addotto che la conoscenza della Costituzione “rappresenta la prima e più importante tra le fonti (di rango primario) del diritto amministrativo queste ultime certamente dovendosi annoverare tra gli “elementi di diritto amministrativo”.

Tale tesi non è affatto condivisibile in quanto non solo la lex specialis richiedeva esclusivamente che i concorrenti conoscessero nozioni fondamentali del diritto amministrativo rappresentando, il diritto costituzionale, una branca specifica ed autonoma del diritto pubblico, ma, a maggior ragione, incalza il Consiglio di Stato, certo “non può pretendersi che rientri tra gli “elementi di cultura generale”, la conoscenza delle specifiche disposizioni costituzionali, quale quella che rileva in questa sede”.

A parere di chi scrive, essendo innegabile che l’attività amministrativa sia ispirata anche e soprattutto a principi costituzionali, nulla si sarebbe potuto obiettare laddove le domande inerenti alla Carta costituzionale si fossero limitate all’accertamento della conoscenza dei principali articoli concernenti, appunto, i principi dell’attività amministrativa i quali ben devono, nell’ambito di nozioni fondamentali del diritto amministrativo, costituire il sapere di ciascun individuo che aspiri a ricoprire un impiego pubblico. Un quesito quale quello contestato, concernente invece i soggetti legittimati a rivolgere petizioni alle Camere ai sensi dell’art.50 Cost., non solo rientra precipuamente tra gli argomenti propri del diritto costituzionale e non del diritto amministrativo ma, al contempo, pur aderendo alla lettura estensiva quale quella proposta, è ben lungi dal costituire quel ridetto bagaglio di sapere in ordine ai principi costituzionali del quale ciascun dipendente pubblico dovrebbe dotarsi.

Accanto alle predette considerazioni, ribadisce il Consiglio di Stato tra le motivazioni della sentenza che “Il bando, costituendo la lex specialis del concorso indetto per l’accesso al pubblico impiego, deve essere interpretato in termini strettamente letterali, con la conseguenza che le regole in esso contenute vincolano rigidamente l’operato dell’Amministrazione obbligata alla loro applicazione senza alcun margine di discrezionalità, in ragione sia dei richiamati principi dell’affidamento e di tutela della parità di trattamento tra i concorrenti, sia del più generale principio che vieta la disapplicazione del bando, quale atto con cui l’Amministrazione si è originariamente autovincolata nell’esercizio delle potestà connesse alla conduzione della procedura selettiva”.

I giudici di Palazzo Spada, citando quanto già asserito con sentenza n. 1148 del 2019, tornano nuovamente ad ammonire che “le clausole del bando di concorso per l’accesso al pubblico impiego non possono essere assoggettate a procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto ad evidenziare in esse pretesi significati impliciti o inespressi, ma vanno interpretate secondo il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole e dalla loro connessione

Considerazioni sul principio dell’autovincolo

E’ ormai riconosciuto come il principio dell’autovincolo, così come ulteriormente chiarito dalla quinta Sezione del Consiglio di Stato nella recente sentenza del 24 maggio 2024, n. 4659, costituisca un limite al successivo esercizio della discrezionalità, che l’Amministrazione pone a sé medesima in forza di una determinazione frutto dello stesso potere che si appresta ad esercitare, e che si traduce nell’individuazione anticipata di criteri e modalità, in guisa da evitare che la complessità e rilevanza degli interessi possa, in fase decisionale, complice l’ampia e impregiudicata discrezionalità, favorire in executivis l’utilizzo di criteri decisionali non imparziali”.

Lo scopo principale dell’autovincolo, tanto con riferimento alle procedure di selezione del personale, quanto nei bandi di gara, è proprio quello di garantire la par condicio; la conoscenza anticipata dei criteri valutativi e decisionali che saranno operati dalle Commissioni, in un contesto in cui le regole di partecipazione sono chiare e predefinite, “mette in condizione i concorrenti di competere lealmente su quei criteri, con relativa prevedibilità degli esiti” (Cons. Stato, n. 3180 del 2021).

Ne deriva che la Commissione non potrà che interpretare in termini strettamente letterali, scevra da ogni margine di discrezionalità, le relative clausole contenute nella lex specialis le quali, vincolando rigidamente l’operato della Pubblica Amministrazione a quanto in esse contenuto, rappresentano la piena attuazione del principio dell’affidamento e della parità di trattamento per effetto dell’impossibilità che l’Amministrazione stessa possa, in seguito, operare alcuna modifica alle regole per come già cristallizzate nel bando.

In conclusione, si può considerare ius receptum il principio dell’autovincolo per come definito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, V sezione, 17 luglio 2017, n. 3502, a mente della quale “la pacifica vigenza del principio per il quale quando l’Amministrazione, nell’esercizio del proprio potere discrezionale decide di autovincolarsi, stabilendo le regole poste a presidio del futuro espletamento di una determinata potestà, la stessa è tenuta all’osservanza di quelle prescrizioni, con la duplice conseguenza che: a) è impedita la successiva disapplicazione; b) la violazione dell’autovincolo determina l’illegittimità delle successive determinazioni “.