Del principio di buona fede e la sua rilevanza nel Codice dei contratti pubblici: anche la PA lo deve rispettare.


Con sentenza del 16 gennaio 2025, n. 333, la terza sezione del Consiglio di Stato, in relazione alla clausola generale di buona fede, torna nuovamente a ribadire “quanto chiarito dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. III, 11 luglio 2022, n. 5801), là dove, […], ha avuto modo di valorizzare il principio di buona fede, inteso quale concetto giuridico generale che si riempie di contenuto a seconda della fattispecie che viene in rilievo.

Nel ricondurre nuovamente ad unitarietà la nozione di buona fede mediante il richiamo ai doveri di correttezza e lealtà, nella sentenza viene sottolineato come il principio in argomento “sia oggi innalzato a clausola generale dell’ordinamento giuridico, in grado di permeare ogni ambito del diritto”.

Nel caso in esame il Giudice, chiamato a conoscere su una controversia connessa al mancato rilascio di un permesso di soggiorno, coinvolge negli ambiti di riflessione l’istituto del soccorso istruttorio quale espressione del principio de qua e “la cui attivazione si impone a fronte di mere irregolarità amministrative sanabili”.

Poiché l’art. 1 della l. n. 241/1990 rubricato “Principi generali dell’attività amministrativa”, al comma 2-bis, dispone che «i rapporti tra il cittadino e la Pubblica Amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede» e che l’art.6 della medesima Legge pone in capo al responsabile del procedimento il dovere di  “chiedere le integrazioni documentali utili alla più completa istruttoria procedimentale, non potendosi limitare ad addurre l’incompletezza dei documenti posti a supporto dell’istanza per concludere nel senso dell’adozione di un provvedimento negativo, senza aver prima posto il soggetto istante in condizione di completare l’istanza in questione”, ne discende a parere dei Giudici che, in maniera pienamente condivisibile, l’attuazione del principio di buona fede di cui al richiamato art.1, comporti il dovere per l’Amministrazione di “tenere in debita considerazione l’interesse del privato al rilascio del provvedimento”.

Il principio di buona fede sul piano civilistico

Sul piano civilistico, giova ricordare che il principio di buona fede si concretizza nel dovere di ciascuna delle parti, di realizzare l’interesse contrattuale dell’altra evitando di arrecarvi danno. In termini di esecuzione del contratto, la clausola de qua comporta l’obbligo di informare la controparte di ogni sopraggiunta circostanza cui questa non sia in grado di conoscere; la violazione della clausola in parola ben può, infatti, arrivare a configurarsi come abuso del diritto, ossia quella situazione nella quale un contraente esercita contro l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto, allo scopo di realizzarne uno diverso da quello cui i diritti sono preordinati.

Tutte queste elaborazioni della copiosa giurisprudenza civilistica vengono trasferite integralmente nel procedimento amministrativo, nell’articolo 10 bis della legge 241 del 1990 il quale sancisce l’obbligo in capo alla pubblica amministrazione di comunicare i motivi ostativi all’accoglimento della istanza. Proprio nella sentenza di cui si discute, infatti, il Giudice censura l’argomentazione dell’Amministrazione poiché, ancorché in mancanza della comunicazione del cambio di residenza da parte dell’istante, ritenendo erroneamente regolarmente notificati gli atti prodromici per effetto della compiuta giacenza, in tal modo non ha consentito all’interessato di interloquire nel procedimento, consentendogli eventualmente di sanare le contestate irregolarità, in ossequio al preavviso di rigetto di cui all’art. 10 bis L. 241/90.

Conclude il Giudice che i doveri di correttezza e buona fede risultano ancor più pregnanti se si considera la rilevanza costituzionale e internazionale dei diritti fondamentali della persona coinvolti nella vicenda di cui si discute, a riprova di come l’attività ermeneutica del Giudice debba essere sempre assiologicamente e costituzionalmente orientata.

La buona fede nel nuovo Codice dei contratti

Giocando di sponda con quanto ribadito dalla terza sezione del Consiglio di Stato, appare ragionevole avviare una riflessione sulla circostanza che, la clausola generale di buona fede, attesa la sua rilevanza, è stata posta dal legislatore del D.lgs. n.36 del 2023 quale primo dei principi complementari posti alla base del nuovo Codice dei contratti pubblici.

La formulazione dell’art.5 del Decreto legislativo in argomento rubricato, appunto, “principi di buona fede e di tutela dell’affidamento”, come noto, riposa sul recepimento di una triade epocale di sentenze dell’Adunanza Plenaria, in particolare sulle due sentenze gemelle n. 19 e 20 del 2021, e la n. 21 in pari anno. La legittimazione di questa scelta del legislatore, si trova nell’art.1 comma 1 della Legge delega n. 78 del 2022, nella parte in cui sancisce che il Governo è delegato ad adottare […] uno o più decreti legislativi recanti la disciplina dei contratti pubblici, […] anche al fine di adeguarla […] ai princìpi espressi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, interne e sovranazionali. Nelle prime due sentenze, il Consiglio di Stato in Plenaria si è pronunciato su questioni di diritto afferenti sia i profili di giurisdizione, sia quelli di merito. Nello specifico, le pronunce sono rese rispetto alla sussistenza o meno della giurisdizione del Giudice Amministrativo a conoscere una domanda del privato volta ad ottenere la condanna della Pubblica Amministrazione, e il conseguente risarcimento dei danni subiti a seguito dell’annullamento in sede giurisdizionale, di un provvedimento amministrativo favorevole all’interessato dalla stessa emanato e, nel merito, se e in quale misura il privato possa astrattamente vantare un legittimo affidamento sul provvedimento amministrativo poi annullato.

In esito alle pronunce, la giurisprudenza ha consolidato l’orientamento secondo il quale, sussisterebbe un comportamento amministrativo della Pubblica Amministrazione, «non meramente materiale, bensì strettamente collegato all’esercizio del potere». Si opera così una ripartizione in due livelli, tra loro distinti e autonomi, sui quali agisce l’attività autoritativa: quello della validità del provvedimento e quello della buona fede.

In altre parole, se l’amministrazione viola le regole di correttezza e buona fede nell’esercizio dei poteri autoritativi, «pone comunque in essere un comportamento amministrativo, indirettamente collegato all’esercizio del potere», con la conseguenza di attribuire la devoluzione delle relative controversie in materia alla competenza del Giudice amministrativo.

Il comportamento amministrativo per la Pubblica Amministrazione

Sulla scorta delle celebri sentenze sinteticamente esaminate, l’articolo in esame al comma 1 sancisce che: «nella procedura di gara le stazioni appaltanti, gli enti concedenti e gli operatori economici si comportano reciprocamente nel rispetto dei principi di buona fede e di tutela dell’affidamento». In tal modo, viene ribadito lo specifico e reciproco obbligo di correttezza sia da parte della stazione appaltante che dell’operatore economico e, riferendosi in modo particolare alla tutela dell’affidamento, pone uno speciale focus sulla parte di natura precontrattuale.

Senza nulla innovare, al comma 2 si stabilisce che «nell’ambito del procedimento di gara, anche prima dell’aggiudicazione, sussiste un affidamento dell’operatore economico sul legittimo esercizio del potere e sulla conformità del comportamento amministrativo al principio di buona fede», recependo i principi sulla tutela dell’affidamento incolpevole, giuste sentenze di cui sopra. Si ribadisce ad ogni modo e nuovamente come l’affidamento rappresenti un vero e proprio limite all’esercizio del potere amministrativo, il quale dovrà in ogni caso essere conforme alla suddetta clausola generale.

Al comma 3 è sancito che «in caso di aggiudicazione annullata su ricorso di terzi o in autotutela, l’affidamento non si considera incolpevole se l’illegittimità è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti. Nei casi in cui non spetta l’aggiudicazione, il danno da lesione dell’affidamento è limitato ai pregiudizi economici effettivamente subiti e provati, derivanti dall’interferenza del comportamento scorretto sulle scelte contrattuali dell’operatore economico». Vengono qui poste le condizioni di risarcibilità del danno scaturente da provvedimento favorevole poi annullato, in pieno recepimento delle sentenze gemelle nella parte in cui la norma, esclude il carattere incolpevole dell’affidamento in caso di illegittimità agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti.

Detto danno risarcibile, è quello scaturente dalle conseguenze negative cagionate dalla scorrettezza della pubblica amministrazione sulle scelte contrattuali fatte dall’operatore economico. In termini di quantum la risarcibilità si riferisce ai costi inutilmente sostenuti per partecipare alla gara, la c.d. chance contrattuale alternativa e, di conseguenza, al c.d. interesse negativo. Tali danni devono essere effettivi e provati.

Il comma 4 prende spunto da un’altra sentenza dell’Adunanza Plenaria, la n. 2 del 2017, e scaturisce dall’esigenza di esplicitare un rimedio, ossia l’azione di rivalsa, che consenta, appunto, di ritrasferire in tutto o almeno in parte il danno risarcito dall’amministrazione sull’aggiudicatario dichiarato illegittimo che, a ben vedere, in assenza tale meccanismo di rivalsa beneficia di un arricchimento ingiusto. Il comma 4 infatti recita: «ai fini dell’azione di rivalsa della stazione appaltante o dell’ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso, resta ferma la concorrente responsabilità dell’operatore economico che ha conseguito l’aggiudicazione illegittima con un comportamento illecito».

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