La Cassazione, nell’esprimersi sul danno risarcibile nel caso di abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, ha affermato un principio di diritto, ossia il diritto al risarcimento.
Tale risarcimento è stato quantificato nella misura pari ad una indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 mensilità e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione.
Secondo la Cassazione rimane il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato.
Depositata ieri 15 marzo, la decisione delle sezioni unite della Corte di Cassazione in merito alla sanzione applicabile in caso di illegittima reiterazione dei contratti a termine nel pubblico impiego.
Con sentenza n.5072, le Sezioni unite hanno chiarito, componendo un contrasto giurisprudenziale sul punto, che “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato posto dall’art.36, comma 5, d.l.gs. 30 marzo 2001 n.165, al risarcimento del danno previsto alla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art.3, comma 5, legge 4 novembre 2010, n.183, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto avuto riguardo ai criteri indicati nell’art.8 legge 15 luglio 1966, n.604
Se è dimostrato l’utilizzo abusivo del contratto a termine da parte della pubblica amministrazione, il lavoratore ha sempre diritto al risarcimento del danno, senza la necessità di dover fornire una prova rigorosa del pregiudizio subito.
Ricordiamo che questo è anche il principio sancito dalla sezione lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1260 depositata il 23 gennaio 2015. La decisione ribalta l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale è il dipendente a dover fornire la prova puntuale dei danni subiti, anche quando sia accertata la violazione delle norme che limitano il ricorso al lavoro flessibile. Per la sentenza in commento, invece, al lavoratore spetta solo la prova (anche per presunzioni) dell’abuso, mentre il danno è in re ipsa.