Pubblico Impiego e diritto al TFR: ecco cosa ha stabilito la Cassazione rigettando la tesi dell’INPS.
Pubblico Impiego, il diritto al TFR sorge anche se il rapporto di lavoro cessa senza soluzione di continuità.
Lo ha stabilito la Cassazione rigettando la tesi dell’INPS. Per i dipendenti pubblici il diritto all’erogazione del TFR spetta anche in caso di riassunzione in servizio presso la stessa PA a seguito delle dimissioni da un rapporto di lavoro a termine.
La lavoratrice aveva avanzato le proprie dimissioni dal servizio a tempo determinato, con effetto dal 29 dicembre 2008, sottoscrivendo un nuovo contratto a tempo indeterminato, avente efficacia dalla data del 29 dicembre 2008.
Il Tribunale di Trapani aveva affermato che trovavano applicazione l’art. 2120 cod. civ., nonché l’art. 1, comma 6, del d.P.C.m. 20 dicembre 1999, per cui spettava alla lavoratrice il TFR maturato alla data di cessazione del periodo di servizio a tempo determinato.
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Pubblico Impiego e diritto al TFR: la decisione della Cassazione
Il diritto all’erogazione del TFR per i dipendenti pubblici sorge in occasione della cessazione del rapporto di lavoro. E ciò anche se tra un lavoro e l’altro non c’è soluzione di continuità. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2829/2021 con la quale i giudici erano stati chiamati a pronunciarsi sulla richiesta di erogazione del TFR da parte di una lavoratrice a termine riassunta a tempo indeterminato in forza della stabilizzazione del contratto LSU.
Una lavoratrice dipendente del Ministero della Giustizia risultava assunta dal 2 dicembre 2000 con contratto a tempo determinato in relazione al collocamento dei lavoratori socialmente utili LSU (Legge n. 242/2000). Il contratto risultava poi prorogato più volte sino al 28 dicembre 2008 quando in virtù della L. 296 del 2006 l’interessata aveva rassegnato le dimissioni in vista della stabilizzazione rapporto di lavoro avvenuta con la sottoscrizione di un contratto a tempo indeterminato con decorrenza dal 29 dicembre 2008.
Il parere dei giudici
Secondo la Cassazione la vicenda si ricostruisce secondo l’orientamento già espresso dalle Sezioni Unite civili con la sentenza n. 24280 del 2014. In tale decisione è stata posta in evidenza l’opera di armonizzazione, avviata dalla legge n. 335/1995, dei molteplici trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici contrattualizzati, assoggettati da una certa data in poi tutti alla disciplina privatistica dettata dall’art. 2120 cod. civ.
Secondo l’impostazione privatistica il TFR spetta “in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato” e, pertanto, è venuta meno la tesi dell’infrazionabilità del trattamento di fine servizio pur in presenza di un’estinzione del rapporto di lavoro, quando ciò non implichi anche l’estinzione del rapporto previdenziale.
Nel solco di tale orientamento si è posta anche la recente sentenza n. 5895/2020 della Sezione lavoro della Cassazione in cui è stato affermato, tra l’altro, che “la esigibilità del TFR è ancorata ai medesimi presupposti previsti per il lavoro privato e, dunque, alla cessazione giuridica del rapporto di lavoro e non alla cessazione della iscrizione al fondo per il trattamento di fine rapporto, gestito dall’INPS”.
Secondo i giudici è dunque irrilevante, al pari di quanto previsto per il lavoro privato, la eventuale continuità temporale, in fatto, di più rapporti di lavoro, in forza della quale permanga la iscrizione al fondo.
Assume, invece, esclusivo rilievo ai fini della esigibilità del TFR la “cessazione dal servizio”. Vale a dire la cesura sotto il profilo giuridico tra due rapporti di lavoro, seppure in successione temporale tra loro ed alle dipendenze della medesima amministrazione statale.
Il testo della Sentenza
A questo link il testo completo della Sentenza.
Fonte: articolo di redazione lentepubblica.it