Da quando è stato attivato il Domicilio Digitale per le persone fisiche (INAD) la comunicazione, anche istituzionale, ci ha spinto ad acquistare una PEC ed iscriverla al registro. “Non riceverete più raccomandate”, lo slogan più utilizzato.

Ma è davvero così? Ricevere comunicazioni attraverso il proprio Domicilio Digitale è veramente un diritto? Vale la pena attivarne uno?

La normativa vigente

La legge sembrerebbe parlar chiaro; il comma 4 dell’art. 3-bis del CAD (D.lgs. 82/2005), non lascia spazio ad interpretazioni:

A decorrere dal 1° gennaio 2013 [1], salvo i casi in cui è prevista dalla normativa vigente una diversa modalità di comunicazione o di pubblicazione in via telematica, le amministrazioni pubbliche e i gestori o esercenti di pubblici servizi comunicano con il cittadino esclusivamente tramite il domicilio digitale dallo stesso dichiarato. Per la violazione della presente disposizione si applica l’articolo 18-bis”.

Quindi, non solo mezzo esclusivo, ma, caso abbastanza raro nell’attuale legislazione, la violazione di tale norma prevede anche una sanzione. L’articolo 18-bis a cui si fa riferimento, prevede, infatti, sanzioni da 10.000 a 100.000 euro, fino addirittura al commissariamento delle funzioni dell’Ente inadempiente.

Wow!

Questo però non fa i conti con il sistema normativo italiano, che è quello dei “fatto salvo”. Il problema sta nel fatto che il CAD, in quanto norma generica, si applica solo nei casi in cui non esistano norme specifiche, anche pregresse, che regolino diversamente ambiti speciali. Per quanto riguarda le comunicazioni, ahimè, siamo in un terrendo assai “denso” di norme speciali, per non parlare poi delle notifiche a valore legale, un vero ginepraio di difficile lettura anche per i giuristi più esperti.

Così, se provate a chiedere ad un Ente pubblico, di comunicare attraverso il Domicilio Digitale, vi troverete di fronte ad un fuoco di sbarramento impressionante. Per ogni ambito in cui chiederete l’applicazione del vostro diritto a ricevere comunicazioni elettroniche, magari attraverso il Domicilio Digitale, molto probabilmente vi troverete di fronte uno zelante funzionario che vi spiegherà come, ai sensi del comma x dell’articolo y della legge z, in quel caso il diritto non sussiste. Purtroppo, quasi sempre ha ragione lui.

Nel caso poi, alquanto improbabile, che tale norma non esista, uno sconsolato impiegato vi informerà che “il sistema informatico ancora non lo consente”. Un evergreen questo che, ahimè, spesso più che una scusa rappresenta una triste realtà.

In sostanza, il diritto a comunicare attraverso il Domicilio Digitale è il classico esempio di “diritto sospeso” o “diritto fatto salvo…”. Per dirlo senza giri di parole, una presa in giro.

La mancata armonizzazione delle norme è la tomba dei diritti

Risulta più che evidente che avere un Codice dell’Amministrazione Digitale e mantenere poi una costellazione di norme speciali non armonizzate con esso, rende l’esistenza del Codice stesso, fondamentalmente inutile.

Il diritto sancito dal Codice si trasforma in una mera enunciazione di principio che, se non riportata nel complesso sistema di norme che regolano i diversi ambiti, tale rimane. Generando, fra l’altro, frustrazione nell’utenza e, ancor peggio, sfiducia nello strumento digitale.

È questa una questione anche culturale. Quando affermo che mi piacerebbe l’approccio usato in Germania, dove il loro Codice (“eGovGesetz”) altro non è che un grande novellato che va ad emendare le diverse norme specifiche adeguandole ai nuovi strumenti digitali e alla normativa europea, la reazione più benevola che ricevo è una pacca sulla spalla che mi identifica come sprovveduto sognatore. Un’operazione di questo genere è considerata inattuabile, in alcuni casi proprio mal vista, specie dai giuristi.

In effetti, se in 20 anni (il CAD è del 2005) non siamo riusciti ad armonizzare un granché e nemmeno a produrre una buona parte dei decreti attuativi, altro aspetto fondamentale per rendere concreti i diritti sanciti dal Codice, posso capire lo scetticismo. Ma non la rassegnazione.

C’è poi da osservare anche il malcostume, perché di questo si tratta, di promulgare nuove norme in deroga ai principi del CAD. È il caso, ad esempio, del recente D.lgs. 13/2024 che, intervenendo sulle modalità di notifica degli atti tributari, declassa l’obbligo dell’utilizzo del Domicilio Digitale sancito dal CAD a mera facoltà [2] per il notificante. Quindi potremo ricevere queste notifiche ancora con i metodi tradizionali, anche se in possesso di un Domicilio Digitale, senza che si possa eccepire alcunché.

Con buona pace del nostro diritto e delle campagne istituzionali di promozione di INAD.

Un esempio reale: la notifica di un verbale di violazione del Codice della Strada.

Riporto, a titolo di esempio, un fatto che mi è realmente accaduto, in grado di mostrare in modo molto chiaro quale sia la realtà dei fatti, ma anche la difficoltà, qualora si volesse insistere, nel farsi riconoscere i propri diritti sanciti dal Codice.

Ricevo, da un capoluogo di provincia, la classica “cartolina verde”, con cui mi si notifica una violazione al Codice della Strada con la relativa sanzione.

Rimango abbastanza stupito perché, avendo un Domicilio Digitale registrato in INAD (ma anche in INI-PEC), mi aspettavo di ricevere una PEC. Decido quindi di riguardarmi la normativa di settore per capire se si tratta di un errore della Polizia Municipale oppure se, anche in questo ambito, sia presente una qualche norma specifica che prevede diversa modalità di comunicazione.

Nello specifico scopro che esiste un decreto (il 18 dicembre 2017 del Ministero dell’Interno) emanato appositamente per armonizzare le disposizioni in materia di notificazione dei verbali per la violazione del Codice della Strada all’art. 3-bis del CAD. All’art. 3 del Decreto è esplicitamente previsto che la notifica, per chi possiede un Domicilio Digitale o che ne abbia dichiarato uno speciale, è da effettuarsi via PEC. In questo caso, quindi, il mio diritto è salvo. Ha sbagliato la Polizia Municipale.

Mi aspetto, a questo punto, che così come io sono sanzionato a fronte di una violazione, lo stesso accada alla Polizia Municipale. Mi vengono in mente due possibili alternative: che la notifica, effettuata difformemente a quanto prescritto dalla norma e in violazione di un mio diritto, sia non valida, oppure di poter segnalare ad Agid l’Ente affinché si avvii, come espressamente previsto dall’art. 3-bis del CAD, il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 18-bis.

Riguardo alla prima opzione, mi trovo di fronte ad un altro fenomeno tipico della normativa italiana e della tendenza “auto assolutoria” della PA. Scopro che in attuazione del succitato decreto, il Ministero dell’Interno ha successivamente emanato una Circolare (20/02/2018 – Prot. 1500) che, pur ribadendo l’obbligo di notificazione attraverso PEC, ritiene che se ciò non avvenisse, la validità della notifica non può comunque essere messa in dubbio [3]. Ciò in ossequio del machiavellico principio che il fine giustifica i mezzi, cioè se l’atto è comunque pervenuto al destinatario, la notifica è comunque avvenuta e quindi valida[4]. (Mi domando a che scopo normare le modalità di notifica se poi, vale tutto, “basta che il destinatario la riceva”).

Il cittadino potrà, continua la Circolare, richiedere il rimborso delle spese di notifica che, all’epoca, se effettuata via PEC, era gratuita. Richiedo quindi all’Ente la restituzione di tale importo il quale, sorprendentemente, mi risponde affermativamente (salvo poi mai versarmele; ma sono stato fortunato perché a quanto mi risulta sono stato l’unico ad ottenere, almeno in via teorica, una risposta positiva alla richiesta).

Più interessante è il secondo punto: in caso di inadempienza l’Ente è realmente soggetto alle sanzioni di cui all’art. 18-bis del Codice? Il tenore della norma sembra oltremodo chiaro. È esplicitamente previsto che la violazione del comma 4 dell’art. 3-bis sia motivo di attivazione della procedura sanzionatoria.

Decido quindi di segnalare il comportamento dell’Ente al Difensore Civico per il Digitale presso Agid per vedere che succede. Segnalazione del novembre 2023, risposta del marzo 2024.

In sostanza il Difensore mi informa che non sono l’unico ad aver segnalato la violazione dell’art. 3-bis, ma che le diverse segnalazioni sono state tutte accorpate e trasmesse all’ufficio legale in quanto, a causa della complessità della normativa, non ha senso, secondo lui, trattare il singolo procedimento. Tale accorpamento, continua il Difensore, non costituisce comunque attivazione delle procedure di cui all’art. 18-bis.

In poche parole, la (reale) complessità normativa “salva” l’Ente, anche nel caso in cui, normativa alla mano (che il Difensore conosce, se non altro perché io l’avevo espressamente citata nella segnalazione, ma che evidentemente non vuole valutare caso per caso) la violazione è palese e riconosciuta dall’Ente stesso.

Invertendo i fattori, il risultato non cambia: il diritto non esiste e il cittadino nulla può.

Concludendo

Iscriversi in INAD conviene?

Tutto sommato sì. Ma non aspettatevi i miracoli tanto decantati dalla comunicazione istituzionale.

Note

[1] Sì, avete letto bene, 2013 non è un refuso, la norma è applicabile da oltre 10 anni.

[2] Tutti gli atti, i provvedimenti, gli avvisi e le comunicazioni, compresi quelli che per legge devono essere notificati,possono essere inviati direttamente dal competente ufficio, anche in deroga a quanto è stabilito dall’art. 149-bis c.p.r. e alle modalità di notificazione previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta non compatibili con l’art. 60-ter del d.p.r. 29.9.1973, n. 600,  a mezzo posta elettronica certificata (PEC) osservando il d.p.r. 11.2.2005, n. 68.

[3] “Il decreto ed il CAD, pur sancendo un obbligo di notifica a mezzo PEC nei limiti e alle condizioni esaminate, non fanno cenno circa l’efficacia di una notifica effettuata tramite posta ordinaria o tramite messi senza aver prima esperito il tentativo con la PEC. In merito, secondo quanto può evincersi dalla lettura delle norme ed in ossequio ai principi generali in tema di notificazione e conoscibilità degli atti, si ritiene che la notifica nei modi ordinari debba considerarsi comunque idonea a produrre gli effetti di legge, ove si sia […] il destinatario conserva la facoltà di richiedere all’organo accertatore la restituzione delle spese di notifica addebitate con il verbale di contestazione […].”

[4] In casi come questi mi piacerebbe venisse invece applicato il principio enunciato nelle (ottime) Linee Guida per la stesura dei testi normativi della PdC in cui si legge “La forma imperativa, senza ausiliari, ha l’effetto di escludere che la norma tolleri comportamenti diversi da quello descritto, con la conseguenza che detti comportamenti incorrono in tutte le sanzioni tipiche dell’ordinamento, non solo in quelle che reprimono condotte contrarie alla norma, ma anche in quelle che colpiscono l’atto in se’ e la sua stessa capacità di produrre effetti (nullità, inefficacia, invalidità, ecc.)


Fonte: articolo a cura di Sergio Sette