L’elezione di Donald Trump, da sempre scettico sul cambiamento climatico scettico, a presidente degli Stati Uniti d’America potrebbe consegnare la leadership della lotta internazionale contro il riscaldamento globale, assunta nell’ultimo anno da Barack Obama, a un nuovo improbabile campione climatico mondiale: la Cina, maggior inquinatore del pianeta insieme agli Usa e bestia nera economica di Trump.
Il governo comunista cinese, che ha lavorato a fianco di Obama per giungere all’Accordo di Parigi del 2015, ha prodotto con questa collaborazione la dinamica che ha portato all’entrata in vigore dello stesso Accordo il 4 novembre, ben prima di quanto previsto.
Ma Trump ha definito il riscaldamento globale una bufala creata inventata proprio dalla Cina per danneggiare l’economia statunitense e ha promesso che gli Usa usciranno dall’Accordo di Parigi e che non applicheranno le politiche, le leggi e i regolamenti approvati da Obama per combattere il cambiamento climatico. Per far capire che non scherza, il presidente eletto Usa ha detto che sarà Myron Ebell, un famigerato climate change skeptic, a gestire la transizione all’Environmental protection agency (Epa) l’agenzia federale odiata dai repubblicani e dalle multinazionali dei combustibili fossili per aver redatto le principali normative ambientali dell’amministrazione Obama, come quelle per il risparmio energetico, l’ energia pulita, le emissioni delle centrali elettriche e gli e standard di efficienza per auto e camion.
La Cina, che è proprietaria di un bel pezzo di debito statunitense, teme i dazi sulle sue merci annunciati dall’isolazionista Trump, ma è pronta a cogliere al balzo l’occasione e assumersi la leadership di una trattativa climatica che per Pechino e che per molti altri governi è una delle questioni più urgenti: decarbonizzare l’economia, disinquinare e salvare il pianeta da una catastrofe climatica.
Come ha detto alla Reuters uno dei maggiori negoziatori cinesi alla Cop22 Unfccc in corso a Marrakech, Zou Ji, vice direttore del Centro nazionale per la strategia sui cambiamenti climatici, «Agire proattivamente contro il cambiamento climatico migliorerà l’immagine internazionale della Cina e ci permette di assumere una superiorità morale. Se Trump abbandona gli sforzi per attuare l’Accordo di Parigi, l’influenza e la voce della Cina nella governance climatica globale rischiano di aumentare, per poi sconfinare in altre aree della governance globale ed aumentare la statura, il potere e la leadership globale della Cina»
Anche Chen Zhihua, un rappresentante della delegazione cinese a Marrakech e responsabile cambiamenti climatici nella potente della Commissione per lo sviluppo e la riforma, agenzia di pianificazione economica del governo cinese, ha detto alla Reuters che «Gli sforzi cinesi e di altri Paesi non cambieranno se gli Stati Uniti si ritireranno dall’Accordo. L’azione della comunità internazionale non si fermerà a causa del nuovo governo degli Stati Uniti. Abbiamo ancora che l fiducia che la comunità internazionale saprà stringersi le mani e continuare i nostri sforzi sui cambiamenti climatici».
Ma nonostante il confermato impegno cinese, in diversi a Marrakech sono preoccupati perché, senza il coinvolgimento e il sostegno finanziario degli Usa, economie emergenti come l’India potrebbero tornare indietro rispetto agli impegni climatici presi di recente. Secondo Anjali Jaiswal, direttrice dell’India Initiative del Natural resources defense council, una delle più grandi associazioni ambientaliste Usa, questo rischio non c’è: in Idia l’inquinamento atmosferico ha raggiunto il livello più alto, ma le fonti rinnovabili hanno superato il carbone e il premier della destra induista, Narendra Modi, «ha sottolineato l’impegno dell’India per una forte azione sui cambiamenti climatici, sottolineando che è la cosa giusta da fare per il popolo indiano e per la crescita economica globale».
Anche nella delegazione statunitense, scioccata dalla vittoria di Trump, si spera che la Cina tenga duro e riesca a mantenere in vita l’accordo globale sul clima nonostante quella che si annuncia come un continuo boicottaggio della prossima amministrazione statunitense. L’ex .inviato speciale Usa per il cambiamento climatico, Todd Stern, spera la Cina «continui a lavorare nello stesso spirito con il quale abbiamo lavorato insieme a Parigi e prima».
Si tratta di un ribaltamento di prospettiva epocale: se è vero le amministrazioni repubblicane di Geoge W. Bush avevano boicottato il Protocollo di Kyoto perché Paesi come la Cina e l’India non volevano assumersi impegni certi, la Cina si era sempre opposta si tentativi dei Paesi sviluppati di imporle di limitare le emissioni di CO2, sostenendo che i Paesi in via di sviluppo avevano il diritto di svilupparsi e inquinare che aveva permesso ai Paesi occidentali di diventare ricchi. Ma la rapidissima crescita cinese si è rivelata venefica e la popolazione, soffocata dallo smog e sempre più arrabbiata per un inquinamento sfrenato, ha costretto anche il regime cinese a cambiare opinione e passo, diventato uno dei maggiori sostenitori della lotta al riscaldamento globale e il leader mondiale delle energie rinnovabili.
Come ha detto ha detto Erik Solheim, direttore esecutivo dell’United Nations environment programme (Unep), «Sul clima la Cina sta agendo per il bene del suo popolo. Sono fiducioso: la Cina avrà un ruolo guida».
A differenza di Trump, la leadership comunista cinese sa bene che, se vuole scongiurare le cappe di smog che avvelenano le sue megalopoli, ondate di caldo, siccità, inondazioni e innalzamento del livello del mare, che hanno già causato centinaia di miliardi di dollari di danni e che entro il 2100 potrebbero arrivare a migliaia di miliardi di dollari di danni entro il 2100, se vuole salvare la sua economia, deve per forza assumere la leadership della transizione energetica, diventare una “superpotenza energetica pulita”, confermare e ampliare il suo predominio nelle tecnologie delle energie rinnovabili, come l’eolico e il solare. L’isolazionismo e l’ecoscetticismo di Trump potrebbero trasformare la Cina nella principale potenza geopolitica. I comunisti cinesi sembrano in grado di guardare molto più lontano dei repubblicani statunitensi.
Come spiega Andrew Steer, presidente del World resources institute: «Avere a che fare con le pressioni dell’urbanizzazione continua in alcune delle più grandi città del mondo, ha già portato la Cina in testa. Pechino innova per costruire città low-carbon. Guarda al carbonio come a un indicatore di inefficienza economica. Come businessman, il presidente eletto Trump deve capire che l’America ha numerose opportunità per creare una moderna economia, ad alta efficienza che sia adatta al XXI secolo, investendo nell’energia pulita». Infatti, puntando sulle energie rinnovabili, Trump potrebbe contribuire a mantenere la promessa elettorale di creare nuovi posti di lavoro e potrebbe aiutare i minatori e i disoccupati della Rust Belt. Durante la campagna elettorale, il vice presidente eletto Mike Pence ha detto che la nuova amministrazione metterà fini alla guerra contro il carbone: Ma riapre le miniere è economicamente insostenibile e sarebbe meglio puntare sulla formazione dei lavoratori per le energie rinnovabili. Uno studio pubblicato ad agosto ha di mostrato che con un investimento minore, tutti i lavoratori del carbone potrebbero essere riqualificati per lavorare nel solare.
Su ThinkProgress l’indo-americana Mythili Sampathkumar sottolinea che «Al mondo c’è l’obbligo di aiutare a prendersi cura del pianeta. E la responsabilità degli Usa per le loro emissioni è stata uno dei motivi per cui l’accordo di Parigi non è un trattato formale. Lo scorso dicembre, il linguaggio è stato faticosamente e attentamente studiato in modo che il presidente Obama potesse far in modo che gli Stati Uniti potessero aderire senza l’approvazione da parte di un Senato recalcitrante. Tecnicamente, questo lascia la porta aperta anche a Trump per recedere dall’Accordo senza l’approvazione del Senato. Però il ritiro non è un’iniziativa che nuovo presidente possa adottare immediatamente, nonostante abbia promesso di farlo durante la sua retorica campagna elettorale. Quando gli Stati Uniti hanno aderito all’accordo, è diventato bloccato per un periodo non inferiore a tre anni, fino al 20 gennaio 2018. Solo a quel punto gli Stati Uniti saranno in grado di informare l’organismo Onu per i cambiamenti climatici con una “comunicazione scritta” e il ritiro entrerebbe in vigore un anno dopo che la notifica verrà ricevuta, il che significa che ci vorrebbero almeno quattro anni prima che gli Usa possano uscire dall’Accordo . (Un’altra strada per Trump sarebbe quella di uscire dall’United Nations conference on climate change, che potrebbe essere effettiva in un anno)».
Ma mentre Trump potrebbe ritirarsi dall’Unfccc o semplicemente ignorare l’Accordo di Parigi, il cambiamento climatico continuerà. Come sottolinea Alden Meyer, policy director dell’Union of concerned scientists, «E ‘chiaro che Donald Trump sta per diventare una delle persone più potenti del mondo, ma neanche lui ha il potere di cambiare le leggi della fisica, per fermare l’impatto dei cambiamenti climatici, per fermare l’aumento dei livelli del mare: Se il presidente Trump si ritirasse dagli impegni finanziari e sulle emissioni alla base dell’Accordo di Parigi o dagli accordo bilaterale del nostro Paese con la Cina, questo avrà un impatto negativo la sua capacità di ottenere la collaborazione dei leader mondiali su altre questioni che lo preoccupano, come il commercio e il terrorismo».
Se Trump crede il cambiamento climatico sia una bufala cinese, come possono i Paesi in via di sviluppo aspettarsi di ottenere il denaro necessario per ricostruire le infrastrutture per far fronte ai danni causati al clima, fin dall’inizio della rivoluzione industriale, dalla crescita economica degli Usa e delle altre economie sviluppate? Tra i delegati della Cop22 Unfccc la delusione per la svolta negli Usa è evidente e per molti Paesi la Cina rappresenta già un esempio. Tosi Mpanu Mpanu, della Repubblica democratica del Congo, che guida il 48-nation group dei Paesi meno sviluppati al summit climatico di Marrakech ha detto alla Reuters: «La Cina ci è sorprendente tutti i giorni. Qualunque cosa hanno promesso, la stanno fornendo».
Se molti delegati a Marrakech la buttano sullo scherzo paragonando la vittoria di Trump negli Usa a quella di Silvio Berlusconi in Italia, Katherine Egland, responsabile giustizia ambientale e climatica della National association for the advancement of colored people, non ci vede niente da ridere e ha paragonato il movimento climatico nell’era di Trump al movimento dei diritti civili: «Quando è cresciuto nel profondo Sud nel corso degli anni ‘60, era normale per gli eletti cercare di fermare il movimento dei diritti civili. Ma, come per quella lotta, il nostro movimento contro il cambiamento climatico prevarrà. La mia comunità di minoranze ed economicamente svantaggiata del Golfo del Messico è una delle più colpite dai cambiamenti climatici negli Stati Uniti. Sono sopravvissuti ala fuoriuscita di petrolio della BP e all’uragano Katrina e il piano della nuova amministrazione Trump la lascia “completamente responsabile” di combattere il cambiamento climatico».
Lou del Bello, una giornalista italiana che vive a Nairobi, ha paragonato l’elezione di Trump a quello che ha passato come immigrata durante il referendum sulla Brexit: «Ho visto quel che questo tipo di narrazione politica instilla nelle persone. [La vittoria di Trump] è la diffusione dello stesso virus. L’odio, il fanatismo, la violenza, solo che questa volta abbiamo un assaggio di ciò che potrebbe essere il futuro degli Stati Uniti».