Ecco una riflessione completa curata da Francesca Orefice, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, su questo fenomeno culturale e criminale fortemente strutturato all’interno della nostra quotidianità.
Il 15% degli italiani crede che se una donna subisce uno stupro quando è ubriaca o drogata sia in parte responsabile.
Per il 6,2% degli italiani le donne serie non vengono violentate.
Per il 7% degli italiani, davanti a una proposta sessuale, le donne spesso dicono no, ma in realtà intendono sì.
Parlare di violenza contro le donne in modo efficace, attuale, complesso, significa riflettere sulle ragioni culturali e sociopolitiche alla base del problema, quelle che stanno nei nostri pensieri, nei discorsi quotidiani, nei convincimenti che radicano il nostro agire.
- Violenza contro le donne: un fenomeno criminale estesto e strutturato
- Narrazione processuale dei fatti violenza
- Stereotipi e vittimizzazione secondaria: fonti sovranazionali
- Normativa interna e Codice rosso: accelerazione processuale e nuove fattispecie di reato
- Nuova semantica culturale della violenza sulle donne
- Note
Violenza contro le donne: un fenomeno criminale estesto e strutturato
La violenza di genere è un fenomeno criminale esteso e strutturato: «il femminicidio, inteso in senso ampio, arriva ad ammazzare, nel disinteresse assoluto, più della mafia, uccide la vita e la dignità di intere generazioni, rendendole succubi e incapaci di reagire» [1].
La violenza contro le donne è una delle più diffuse e persistenti violazioni dei diritti umani al mondo.
E non soltanto la violenza fisica, ma anche quella morale, economica e soprattutto simbolica [2], quella che riguarda il modo in cui rappresentiamo la realtà e selezioniamo parti di essa che servono a una narrazione piuttosto che a un’altra.
Il problema della violenza di genere trova origine in questioni culturali, deriva dagli insegnamenti familiari, da quello che ci viene detto a scuola sulla storia del genere maschile e femminile, dalla pubblicità, dalle espressioni utilizzate nel sentire comune, dalla descrizione che viene comunemente fornita degli eventi e dei fenomeni umani e sociali [3].
Il linguaggio usato dagli attori istituzionali coinvolti, peraltro, non sempre è adatto a capire le vere cause all’origine di questo fenomeno. [4]
Riconoscere che la violenza di genere costituisce un fenomeno criminale specifico, fondato su ragioni culturali potentissime, serve a comprendere che i fatti che accadono e diventano o devono diventare giuridicamente rilevanti, sono connotati da motivazioni di genere, costituiscono fenomeni specifici dentro un contesto specifico, da conoscere, disciplinare e sanzionare tenendo in considerazione l’ambito culturale, storico e sociologico da cui derivano e di cui il diritto deve farsi carico per regolamentarlo e sanzionarlo efficacemente [5].
In questo senso, quindi, anche il diritto incide sulla realtà: dal momento in cui la recepisce per interpretarla e disciplinarla, introduce dettati linguistici di un certo valore sociale, etico e culturale piuttosto che di un altro. “il confine tra lingua e mondo non è così netto come vorremmo credere: il linguaggio assimila e restituisce”. [6]
Narrazione processuale dei fatti violenza
È proprio in tema di violenza contro le donne che il problema criminale evidenzia in modo eclatante i punti di contatto con la questione sociale, culturale ed emerge incombente l’esigenza di un linguaggio tecnico appropriato all’urgenza di tutela delle vittime. “La narrazione che viene fatta dai mezzi di comunicazione è talvolta fuorviante, perché si assumono solo le ragioni dell’assassino e non il punto di vista della vittima”. [7]
Il processo è poco conosciuto e studiato come evento linguistico fondante l’attività giudiziaria: «per ricostruire il fatto e confrontarlo con la norma giuridica, il giudice deve saper leggere e interpretare una miriade di discorsi di ogni genere, provenienza e scopo per poi sintetizzare tutto questo variegato sistema nella sentenza, paragonandola con le parole del legislatore»[8].
È inevitabile, tuttavia, che all’interno del processo la narrazione degli eventi compia un complesso itinerario e generi complicate interazioni linguistiche tra i diversi sistemi valoriali di ciascun operatore coinvolto, compresi gli stereotipi di cui sono portatori, sin dalla fase della presa in carico della denuncia.
Le parole che descrivono e rievocano gli accadimenti attraversano le varie fasi del processo e confluiscono nella sentenza che è chiamata a statuire, in nome dello Stato, la verità sul fatto.
È per questo motivo che la materia necessita di figure professionali esperte e formate in tema di violenza di genere.
«Solo l’interprete che conosce i “meccanismi di genere” e la discriminazione sessuale, che non pongono sullo stesso piano uomo e donna, è in grado di leggere i comportamenti descritti come violenza, altrimenti li tratterà come episodi isolati e privati persino irrilevanti penalmente o con una matrice affettiva e psicologica […] Adottando una prospettiva di genere nell’analisi giuridica per comprendere a pieno la struttura sulla quale nasce e cresce la violenza nei confronti delle donne» (Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, il nuovo Codice Rosso).
Stereotipi e vittimizzazione secondaria: fonti sovranazionali
Più volte si è ragionato sulla vittimizzazione secondaria della vittima di violenza e su come le parole di tutte le professionalità coinvolte nel processo possano arrecarle una seconda offesa, sin dalla fase della denuncia del fatto.
In materia, è necessario tenere in considerazione l’incidenza delle fonti sovranazionali che disciplinano e integrano il quadro giuridico dentro il quale si innestano le normative nazionali e alla cui stregua devono essere interpretate: «solo la conoscenza delle fonti sovranazionali in materia di contrasto alla violenza di genere, domestica e contro le donne e l’opera attuativa di tutti i soggetti dell’apparato giudiziario, a partire dalle forze dell’ordine, consente la corretta applicazione delle norme interne così cogliendo il valore delle novità introdotte dalle leggi nn. 69/2019 e 168/2023. Per intraprendere questa delicata operazione, che modifica meccanismi atavici, è necessario affrontare il tema del pregiudizio e dello stereotipo di genere, che secondo le fonti sovranazionali precludono l’accesso alla giustizia delle donne vittime di violenza» (Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, il Nuovo Codice Rosso, p. 28).
Ricordiamo che, in materia, l’Italia ha ratificato la Convenzione per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul).
Inoltre, la Direttiva 25 ottobre 2012/29/EU obbliga gli Stati a mettere le vittime al riparo dal rischio di intimidazione o da ulteriori vittimizzazioni per permettere loro di esporre la loro versione dei fatti e di manifestare i loro bisogni. In particolare, la Direttiva 2012729/UE stabilisce norme minime in materia di diritti, sostegno e protezione della vittima, con particolare riguardo alle violenze fondate sul genere avendo particolare riguardo alle relazioni strette.
«Le norme della Convenzione di Istanbul e della Direttiva 2012/29/UE non hanno valenza programmatica, ma assumono carattere precettivo nel nostro ordinamento tanto da imporre all’autorità giudiziaria di interpretare i singoli istituti, processuali e sostanziali, non in modo parcellizzato, ma in un’ottica globale, che pone al centro la tutela delle vittime dei reati di violenza di genere domestica e contro le donne, senza distinguere il settore civile e minorile da quello penale, ma armonizzandoli al fine di evitare contraddittorietà tra i giudicati ed offrire uno spazio di tutela effettiva e sostanziale alle persone offese» (Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto, il Nuovo Codice Rosso, p. 432).
Di recente si è occupata dell’argomento la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con riguardo ad una sentenza della Corte d’Appello di Firenze (il caso J.L. c. Italia 27 maggio 2021).
Nel caso evidenziato, la Corte EDU ha censurato diversi passaggi nella motivazione della Corte d’Appello di Firenze che hanno comportato una violazione dell’art. 8 della Convenzione di Instabul.
Tra tutte, il riferimento alle mutandine rosse esibite dalla ricorrente nel corso della serata, i commenti sulla bisessualità della ragazza, le relazioni sentimentali e i rapporti sessuali occasionali precedenti ai fatti, l’attitudine ambivalente della stessa nei confronti del sesso dedotta dalle sue scelte artistiche, la scelta della giovane di accettare di prendere parte ad un cortometraggio realizzato da uno degli accusati.
Le valutazioni espresse dalla Corte d’Appello sono state considerate “deplorevoli”, fuori luogo, non utili alla valutazione della credibilità né determinanti per l’accertamento dei fatti.
La Corte ha ritenuto, inoltre, che «gli obblighi positivi di proteggere le presunte vittime di violenze sessuali impongono comunque un dovere di proteggere la loro immagine, dignità e vita privata, anche con la non divulgazione d’informazioni e di dati personali privi di relazione con i fatti. Questo obbligo è d’altra parte inerente alla funzione giudiziaria e deriva dal diritto nazionale nonché da diversi testi internazionali. In questo senso la facoltà del giudice di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione del potere discrezionale dei magistrati e del principio d’indipendenza della giustizia, si trova limitato dall’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata delle persone coinvolte in un procedimento giudiziario da qualsiasi violazione ingiustificata».
La Corte ha anche evidenziato come il VII rapporto periodico (2017) sull’Italia del Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW) e il rapporto (2020) del GREVIO (Gruppo Esperte sulla Violenza del Consiglio d’Europa) per il monitoraggio dell’applicazione della Convenzione di Istanbul, abbiano verificato la persistenza di stereotipi concernenti il ruolo delle donne e la resistenza della società italiana verso una reale eguaglianza tra i sessi, sottolineando la scarsa percentuale di processi e di condanne per violenze nei confronti delle donne.
L’Italia ha un sistema normativo tra i più potenti ed efficaci in materia di violenza di genere eppure, come sottolinea la Corte Europea, nel caso della sentenza citata: «Il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’Appello di Firenze veicolano il pregiudizio sul ruolo della donna come si presenta nella società italiana e che è idoneo ad ostacolare una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere a dispetto di un quadro legislativo soddisfacente». Ritenendosi, pertanto, essenziale che: «le autorità giudiziarie evitino di riprodurre gli stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare le violenze contro il genere e di esporre le donne ad una vittimizzazione secondaria utilizzando delle affermazioni colpevolizzanti e moralizzanti idonee a scoraggiare la fiducia delle vittime nella giustizia». [9]
A proposito di normativa internazionale, ancora, merita di essere segnalata la direttiva (UE) 2024/1385 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 maggio 2024, sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica.
La direttiva trova la propria collocazione nell’ambito della Strategia europea per la parità di genere per il 2020/2025, elaborata dalla Commissione, che si propone di realizzare «un’Europa garante della parità di genere» in tutti i settori di competenza dell’Unione, e che individua, nel quadro delle azioni proposte, anche un rafforzamento degli strumenti dei Paesi membri per l’eliminazione delle disuguaglianze tra uomini e donne, nonché per un efficace contrasto alla violenza di genere e alle discriminazioni sessuali in danno alle donne.
La direttiva mira alla prevenzione e al contrasto della violenza contro le donne e alla violenza domestica in tutta l’Unione; introduce nuove disposizioni per la definizione dei reati e delle pene, la protezione delle vittime e l’accesso alla giustizia e l’assistenza alle vittime.
Normativa interna e Codice rosso: accelerazione processuale e nuove fattispecie di reato
Entrando nel vivo della regolamentazione propriamente giuridica dei fatti penalmente rilevanti, bisogna evidenziare come le fonti interne al nostro ordinamento, sostanziali e processuali, sono ricche e particolareggiate.
Lo scorso anno, anche in conseguenza dell’importante dibattito accesosi in seguito al caso Cecchettin, è stata approvata la legge 24 novembre 2023, n. 168, recante nuove disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica.
Il provvedimento, composto da 19 articoli, è diretto soprattutto a evitare che i cosiddetti reati spia possano degenerare in fatti più gravi e mira a:
- rendere più veloci le valutazioni preventive sui rischi che corrono le potenziali vittime di femminicidio o di reati di violenza;
- rendere più efficaci le azioni di protezione preventiva (viene ad esempio rafforzata la misura di prevenzione dell’ammonimento del questore e di informazione alle vittime);
- rafforzare le misure contro la reiterazione dei reati a danno delle donne e la recidiva;
- migliorare la tutela complessiva delle vittime di violenza.
Il codice rosso, l. 69/2019, aveva già previsto una serie di interventi incisivi in materia di violenza sulle donne, all’interno di un apparato normativo che già regolamentava diverse fattispecie criminali, prevedendo accelerazioni per l’avvio del procedimento penale per alcuni reati (tra gli altri maltrattamenti in famiglia, stalking, violenza sessuale), con l’effetto dell’adozione più celere di eventuali provvedimenti di protezione delle vittime, e l’inasprimento delle sanzioni già previste dal codice penale.
Composto da ventuno articoli, che prevedono anche un catalogo dei reati perseguibili, il Codice Rosso dispone altresì in ambito procedurale introducendo la già citata “accelerazione” per l’avvio del procedimento in virtù di alcuni particolari reati notificati.
Inoltre prevede che:
- La Polizia Giudiziaria abbia il dovere di riferire immediatamente al Pubblico Ministero la notizia di reati di cui si è acquisita notizia;
- laddove il Pubblico Ministero proceda per delitti di violenza di genere o domestica, lo stesso abbia l’obbligo di assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha dato notizia dei fatti entro tre giorni (prorogabili solo per ragioni imprescindibili): in caso contrario, qualora cioè il termine non venga rispettato, il Procuratore della Repubblica può disporre la revoca dell’assegnazione al magistrato designato per le indagini, procedendo senza indugi ulteriori all’acquisizione delle informazioni;
- gli atti d’indagine delegati dal Pubblico Ministero alla Polizia Giudiziaria devono avvenire senza ritardo.
È altresì prevista una maggiore specializzazione delle forze dell’ordine in virtù del ruolo ricoperto nella prima fase di denuncia: i reati previsti dal Codice Rosso sono infatti soggetti a denuncia della persona offesa, o di un qualsiasi cittadino, procedibile d’ufficio. Ciò significa che, nonostante la possibilità di un ripensamento di chi denuncia, il procedimento penale proseguirà ugualmente.
E’ stata modificata la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, anche per il tramite di procedure di controllo attraverso mezzi elettronici o ulteriori strumenti tecnici.
Il cosiddetto codice rosso ha introdotto ben 4 nuove fattispecie, e quindi nuove forme di tutela:
- il reato di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso
- il reato di costrizione o induzione al matrimonio;
- violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
- il revenge porn.
Si accrescono le sanzioni già previste dal codice penale. In particolare:
- il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, da un intervallo compreso tra un minimo di due e un massimo di sei anni, passa a un minimo di tre e un massimo di sette;
- lo stalking passa da un minimo di sei mesi e un massimo di cinque anni a un minimo di un anno e un massimo di sei anni e sei mesi;
- la violenza sessuale passa da sei a dieci anni (in precedenza dal minimo di cinque e il massimo di dieci);
- la violenza sessuale di gruppo passa a un minimo di otto e un massimo di quattordici (mentre prima era punita col minimo di sei e il massimo di dodici).
In relazione alla violenza sessuale viene esteso il termine concesso alla persona offesa per sporgere querela, dai sei mesi a dodici mesi. Vengono inoltre ridisegnate ed inasprite le aggravanti per l’ipotesi ove la violenza sessuale sia commessa in danno di minore di età.
Infine, è stata inserita un’ulteriore circostanza aggravante per il delitto di atti sessuali con minorenne: la pena è aumentata fino a un terzo quando gli atti sono posti in essere con individui minori di 14 anni, in cambio di denaro o di qualsiasi altra utilità, anche solo promessa.
Nel femminicidio, invece, viene estesa l’applicazione delle circostanze aggravanti, facendovi rientrare finanche le relazioni personali.
Nuova semantica culturale della violenza sulle donne
Quanto brevemente rappresentato conferma come gli episodi di violenza contro le donne vadano inquadrati in un’ottica complessiva e con una visione di genere, facendo attenzione ai fatti o reati spia che prendono spunto dalle più elementari condotte – ad esempio gli insulti sessisti – passando per i maltrattamenti nelle famiglie e all’interno dei contesti lavorativi, alle molestie, ai ricatti economici, fino al vero e proprio femminicidio od annientamento morale della donna.
È il momento di assumerci le responsabilità e per farlo dobbiamo comprendere i fenomeni.
C’è un passaggio conoscitivo ed etico tra quello che pensiamo di essere, quello che accade e che sembra non riguardarci: già dall’infanzia veniamo educati a logiche di potere e prevaricazione, a un concetto di diseguaglianza in cui vince sempre chi è più forte, un contesto culturale in cui le molestie vengono ridotte ad apprezzamenti senza valore e dove la resistenza a tali contegni viene considerato un atto di isteria o esagerazione, un contesto in cui il cameratismo maschile giustifica ogni comportamento e in cui le notizie di violenza vengono raccontate dal punto di vista dell’uomo, delle sue pulsioni e il sesso viene descritto come un momento di perdita totale delle capacità di autoregolamentazione.
È ovvio che sussiste una distanza tra catcalling, una frase sessista, un apprezzamento non richiesto e le violenze fisiche, gli stupri, i femminicidi, ma la prevaricazione culturale che definisce la donna in relazione all’uomo in posizione subalterna, costituisce l’humus comportamentale, il nutrimento millenario di una storia raccontata male, e peggio vissuta.
La parola femminicidio non indica il genere della persona morte, ma indica il motivo per cui è stata uccisa (Michela Murgia).
Note
[1] Paola Di Nicola, Consigliera di Cassazione, specializzata sulla violenza contro le donne, autrice del libro “la mia parola contro la sua”, in www.repubblica.it, 11/1/2023; “perché è più facile sconfiggere la mafia che fermare i femminicidi”, in www.unimondo.org.
[2] Paola Di Nicola, Consigliera di Cassazione, specializzata sulla violenza contro le donne, autrice del libro “la mia parola contro la sua”, in www.repubblica.it, 11/1/2023; “perché è più facile sconfiggere la mafia che fermare i femminicidi”, in www.unimondo.org. E ancora: <<Non c’è ancora una coscienza culturale, sociale e politica. La donna vittima di violenze si trova in un contesto di omertà, rifiuto, negazione identico a quello di mafia, ma è sostanzialmente sola>>.
[3] Per riflettere sul peso delle parole e del modo con il quale la lingua concorre a creare e modificare l’esperienza è utile rinviare agli studi di Wittgenstein, Austin, Searle e Grice, “scienze e filosofia del linguaggio hanno acquisito il pieno riconoscimento del carattere pragmatico della lingua, ossia del fatto che parlare, usare parole, è un modo per fare le cose. Austin distingue gli enunciati che mettono in essere uno specifico stato di cose, dotati di valore “illocutivo”, dagli enunciati “perlocutivi”, che hanno conseguenze concrete sul piano extralinguistico: a quest’ultima categoria appartengono le sentenze e altri testi propri del linguaggio giuridico (Fabrizia Giuliani, docente di Filosofia del linguaggio e Studi di genere alla Sapienza di Roma, in Stereotipo e pregiudizio, “La rappresentazione giuridica e mediatica della violenza di genere” a cura di Flaminia Saccà).
[4] Elisabetta Tarquini, “violenze sulle donne: il dominio e linguaggio”, www.magistraturademocratica.it
[5] «È auspicabile che “il femminicidio”, inteso come uccisione di una donna per ragioni legate alla sua appartenenza di sesso, diventi un delitto a sé perché, come accaduto con l’approvazione dell’art. 416-bis c.p. (associazione di tipo mafioso), a seguito dell’uccisione di Pio La Torre e del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lo Stato, in tutte le sue articolazioni, decise di definire quel complesso fenomeno, con le sue peculiarità, opponendovisi, innanzitutto, attraverso l’attribuzione di un nome.
Nel misurarsi sulla definizione di cosa fosse la mafia (oggi il delitto è costituito da ben 8 commi, pari a 54 righe) l’intero Paese è riuscito a crescere acquisendo la necessaria consapevolezza per contrastarla, soprattutto sotto il profilo culturale, e così il legislatore, la società civile, i luoghi di formazione e la stessa magistratura, con le forze di polizia, si sono confrontati con una categoria, divenuta anche giuridica, che delinea le sue multiformi radici (politiche, economiche, culturali, antropologiche, criminologiche, sociali, ecc.). L’assenza del delitto di femminicidio nel codice penale non consente di pensarlo in quanto tale e, dunque, non offre strumenti utili per decrittarlo, a partire dalla rappresentazione della sua stessa matrice, per prevenirlo e punirlo» (p. 254), il nuovo Codice Rosso, Paola Di Nicola Travaglini e Francesco Menditto.
[6] Fabrizia Giuliani, cit.
[7] Elisabetta Tarquini, “violenze sulle donne: il dominio e linguaggio”, www.magistraturademocratica.it
[8] “A onor del vero. Fondamenti di linguistica giudiziaria”, Patrizia Bellucci, Utet.
[9] Marco Bouchard, su DPU.
E’ facile rendersi simpatici, ben altra cosa è dir come stan davvero le cose. Quest’ultimo è compito non per marionette che si fingono intelligenti bensì per umani che abbian sviluppato ampiamente se stessi. LA VIOLENZA È UN CLIMA CHE AFFLIGGE TUTTI http://violenza.hyperlinker.org