Trust 3La disamina della disciplina fiscale del trust deve essere preceduta dall’analisi di un tema particolarmente rilevante e sul quale l’Amministrazione finanziaria ha avuto modo di soffermarsi più volte: ci si riferisce alla problematica del riconoscimento del trust ai fini fiscali. La sua natura di strumento giuridico estremamente flessibile e versatile rende il trust suscettibile di applicazioni concrete molto variegate e potenzialmente in grado di essere utilizzato per fini impropri, in particolare per eludere la tassazione in capo al disponente (settlor). Ciò ha indotto l’Amministrazione finanziaria ad assumere un approccio di estrema cautela e attenzione rispetto altrust, anche e soprattutto alla luce della perdurante mancanza di una specifica disciplina civilistica interna. In particolare, è stata più volte ribadita la necessità che la “riconoscibilità” di un trust ai fini fiscali sia effettuata non in astratto, bensì in concreto, con valutazione caso per caso.

 

Fin dalla risposta a un’istanza di interpello del 24 settembre 2002, poi ribadita nella risoluzione 8/E del 17 gennaio 2003 e, quindi, ben prima dell’introduzione della normativa in materia di imposizione del reddito prodotto dai trust, l’Agenzia delle Entrate, facendo espresso riferimento al modello ditrust delineato dalla Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985, resa esecutiva nel nostro ordinamento mediante la ratifica avvenuta con la legge 364/1989, ha sottolineato che requisito essenziale deltrust è l’effettivo potere-dovere del trustee di amministrare e disporre dei beni, a lui effettivamente affidati dal disponente. L’articolo 2, comma 2, della Convenzione, infatti, individua quali elementi essenziali del trust la distinzione dei beni del trust dal patrimonio del trustee, l’intestazione degli stessi al trustee, il fatto che “il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee”.

 

Ne consegue che i diritti e le facoltà che il settlor può riservare a se stesso devono essere tali da non precludere al trustee il pieno esercizio del potere di controllo sui beni. Ciò, del resto, trova conferma nell’articolo 2, comma 3, della medesima Convenzione, secondo cui “il fatto che il disponente conservi alcuni diritti e facoltà (…) non è necessariamente incompatibile con l’esistenza del trust”. A riprova di ciò, non è infrequente nella pratica l’utilizzo da parte del disponente delle letters of wishes, con cui comunica al trustee il proprio parere (non vincolante) in ordine a specifiche questioni (che, di regola, eccedono l’ordinaria amministrazione), al fine di consentirgli una scelta più consapevole e coerente con gli obiettivi del trust.

 

In altri termini, un trust può essere riconosciuto ai fini fiscali solo se ha tutte le caratteristiche elencate nella Convenzione dell’Aja e se, quindi, il disponente ha effettivamente ceduto il controllo sui beni trasferiti in trust al trustee. Diversamente, il negozio, lungi dal potere essere qualificato come trust, assume le caratteristiche di un mero soggetto interposto che scherma il disponente o i beneficiari (a seconda di chi effettivamente esercita il controllo sui beni). Ne consegue che, in tali casi, i beni in trust si considerano posseduti dal disponente (o dai beneficiari) e devono essere tassati di conseguenza.

 

Ulteriori precisazioni sul riconoscimento del trust ai fini fiscali sono state fornite dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 43/E del 10 ottobre 2009, in cui è stato ribadito il principio secondo cui, qualora il potere e il controllo sui beni in trust siano riservati al disponente (settlor), il trust deve essere considerato come non operante, in quanto fittiziamente interposto nel possesso dei beni. A tal proposito, quindi, vengono in rilievo tutte quelle ipotesi in cui le attività facenti parte del patrimonio del trust continuano a essere a disposizione del settlor oppure rientrano nella disponibilità dei beneficiari.

 

Nella medesima circolare, l’Agenzia delle Entrate ha fornito un elenco esemplificativo di ipotesi in cui un trust è da considerare soggetto fittiziamente interposto:

 

 

  • trust che il disponente (o il beneficiario) può far cessare liberamente in ogni momento, generalmente a proprio vantaggio o anche a vantaggio di terzi
  • trust in cui il disponente è titolare del potere di designare in qualsiasi momento se stesso come beneficiario
  • trust in cui il disponente (o il beneficiario) è titolare di significativi poteri in forza dell’atto istitutivo, in conseguenza dei quali il trustee, pur dotato di poteri discrezionali nella gestione e amministrazione del trust, non può esercitarli senza il suo consenso
  • trust in cui il disponente è titolare del potere di porre termine anticipatamente al trust, designando se stesso e/o altri come beneficiari (“trust a termine”)
  • trust in cui il beneficiario ha diritto di ricevere attribuzioni di patrimonio dal trustee.
    Nella successiva circolare n. 61/E del 27 dicembre 2010, l’Agenzia delle Entrate ha ulteriormente precisato quanto in precedenza affermato, ribadendo in particolare che “non possono essere considerati validamente operanti, sotto il profilo fiscale, i trust, che sono istituiti e gestiti per realizzare una mera interposizione nel possesso dei beni dei redditi. E’ il caso, ad esempio, dei trust nei quali l’attività del trustee risulti eterodiretta dalle istruzioni vincolanti riconducibili al disponente o ai beneficiari. (…) Di essenziale importanza è l’effettivo potere deltrustee di amministrare e disporre dei beni a lui effettivamente affidati dal disponente. Ne consegue che quest’ultimo non può riservare a sé stesso il potere né il controllo sui beni deltrust in modo da precludere al trustee il pieno esercizio dei poteri dispositivi a lui spettanti in base al regolamento del trust o alla legge. Se, pertanto, il potere di gestire e disporre dei beni permane in tutto o in parte in capo al disponente e ciò emerge non soltanto dall’atto istitutivo del trust, ma anche da elementi di mero fatto e non si verifica, quindi, il reale spossessamento di quest’ultimo, il trust deve considerarsi inesistente dal punto di vista dell’imposizione dei redditi da esso prodotti. In altri termini, in tali casi il trust viene a configurarsi come struttura meramente interposta rispetto al disponente, al quale devono continuare ad essere attribuiti i redditi solo formalmente prodotti dal trust. Ciò comporta che tali redditi saranno assoggettati a tassazione in capo al disponente secondo i principi generali previsti per ciascuna della categorie reddituali di appartenenza”.

 

 

A conferma di quanto appena ricordato, l’Agenzia ha indicato, in aggiunta a quelle già descritte nella circolare 43/2009, ulteriori tipologie di trust da ritenere inesistenti in quanto interposte:

 

 

  • trust in cui è previsto che il trustee debba tener conto delle indicazioni fornite dal disponente in relazione alla gestione del patrimonio e del reddito da questo generato
  • trust in cui il disponente può modificare nel corso della vita del trust i beneficiari
  • trust in cui il disponente ha la facoltà di attribuire redditi e beni del trust o concedere prestiti a soggetti dallo stesso individuati
  • ogni altra ipotesi in cui il potere gestionale e dispositivo del trustee, così come individuato dal regolamento del trust o dalla legge, risulti in qualche modo limitato o anche semplicemente condizionato dalla volontà del disponente e/o dei beneficiari.

 

 

Inoltre, è opportuno ricordare che, nella circolare 48/E del 6 agosto 2007, la stessa Agenzia aveva precisato che il “trust revocabile” (grantor trust), vale a dire quello con cui il disponente si riserva la facoltà di revocare l’attribuzione dei diritti ceduti al trustee o vincolati nel trust (nel caso in cui il disponente sia anche trustee), diritti che, con l’esercizio della revoca, rientrano nella sua sfera patrimoniale, non determinando un trasferimento irreversibile degli stessi e, soprattutto, una permanente diminuzione patrimoniale in capo al disponente, non dà luogo, ai fini delle imposte sui redditi, a un autonomo soggetto passivo d’imposta, cosicché i redditi derivanti dal trust sono tassati in capo al disponente.

 

Dalle indicazioni fornite dall’Agenzia nei citati documenti di prassi è possibile dedurre il principio generale secondo cui, se il disponente riserva a se stesso dei poteri tali da consentirgli di gestire o usufruire dei beni in trust ovvero di limitare i poteri e le facoltà del trustee, il trust deve essere considerato alla stregua di un soggetto interposto ai fini fiscali. In tal caso, infatti, non si determina una vera e propria segregazione dei beni, avendo il disponente (o il beneficiario) mantenuto nella sostanza il controllo su di essi. Di conseguenza, ogni reddito prodotto dal trustdeve essere considerato come reddito del disponente e tassato in capo a tale soggetto.

 

Tale orientamento, del resto, appare pienamente in linea con le indicazioni fornite dall’Ocse in tema di utilizzo di veicoli societari (inclusi i trust) per scopi illeciti. Nel rapporto Ocse Behind the Corporate Veil. Using corporate entites for illicit purposes, del 2001, si legge che “to create a valid trust, the settlor is required to give up control of the assets he has transferred to the trustee. In turn, the trustee is obligated to observe the terms of the trust deed and has a fiduciary duty to act honestly and in good faith in the best interest of the beneficiaries or, in the event there are no named beneficiaries, in the best interest of the trust. Traditionally, trusts are subject to limitations on duration, the terms of the trust are fixed, and trustees cannot be removed without a legal challenge”.