fornitori sollecito pagamento fattureIn tema di reati tributari, la mancanza di una prova scritta della pattuizione (pur di ingente importo) relativa alla cessione dei diritti di sfruttamento di un marchio, la determinazione arbitraria del corrispettivo stabilito, tra l’altro, una tantum invece che attraverso il pagamento di periodiche royalties, nonché la commistione di ruoli del soggetto indagato, rappresentante legale sia dell’associazione emittente sia della società utilizzatrice della fattura, rappresentano seri indizi del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (articolo 8 del Dlgs 74/2000). Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 28700 dell’11 luglio 2016, che ha rigettato sul punto il ricorso proposto da un imputato.

 

La vicenda processuale

 

Con una sentenza del 2015, la Corte d’appello di Milano confermava la condanna disposta, in primo grado, nei confronti di un soggetto accusato, tra l’altro, del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti. L’operazione incriminata riguardava la cessione dei diritti di sfruttamento di un marchio relativo a una avviata manifestazione di arti marziali nella città di Milano. La cessione veniva effettuata da parte di un’associazione sportiva nei confronti di una Srl: in entrambi gli enti, l’imputato rivestiva la qualità di rappresentante legale (di qui anche la condanna per il reato di utilizzazione in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti).

 

Si ricorda che l’articolo 8 del Dlgs 74/2000 punisce chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. La condotta sanzionata è speculare a quella dell’articolo 2 (utilizzazione di fatture o documenti per operazioni inesistenti). In questo caso, però, la violazione concerne il cedente o il prestatore del servizio e, quindi, colui che emette il documento. Il reato è integrato anche se, successivamente alla ricezione della fattura, il contribuente che dovrebbe utilizzarla decide di non tenerne conto in sede di dichiarazione. Si tratta, infatti, di un reato istantaneo che si consuma al momento dell’emissione delle fatture.

 

Benché il rilascio o l’emissione di più fatture o documenti, nell’arco del periodo d’imposta, realizza un unico delitto, si ritiene che la consumazione del reato coincida con l’emissione o il rilascio del primo documento in ordine temporale; al contrario, il termine prescrizionale decorre dall’emissione dell’ultimo documento. Si tratta, a ben vedere, di un reato di pericolo astratto (istantaneo) dove la “pericolosità” (anziché il danno) risiede nel fatto che non è necessario che i documenti falsi vengano utilizzati, mentre “l’astrattezza” si sostanzia nella tutela anticipata del bene giuridico protetto. C’è quindi una dissonanza tra la ratio dell’articolo 8 e la logica degli altri reati tributari volti a punire il fatto dannoso.

 

L’inesistenza dell’operazione era stata desunta dai giudici di merito in base a una serie di circostanze, tra cui l’assenza di prova scritta del contratto sottostante, la determinazione unilaterale del valore del marchio, stabilito in rapporto al credito personale che l’imputato vantava nei confronti dell’associazione titolare del marchio (il cui pagamento era avvenuto dunque per compensazione) e il mancato sfruttamento del marchio.

 

Con il successivo ricorso per cassazione l’imputato denunciava, tra l’altro, violazione di legge e vizio di motivazione ritenendo irrilevante l’assenza di prova scritta del contratto ai fini dell’effettività dell’operazione. La natura reale della stessa sarebbe desumibile da una serie di elementi: 1) il corrispettivo era stato effettivamente pagato dalla società committente, sia pure mediante la compensazione del credito personale che, per pari importo, l’imputato vantava nei confronti dell’associazione sportiva per finanziamenti effettuati nel corso degli anni precedenti; 2) la sopravvenuta impossibilità di sfruttamento del marchio ceduto presentava i caratteri della assoluta imprevedibilità.

 

La pronuncia della Cassazione

 

La Corte suprema ha rigettato i motivi di ricorso fatti valere dall’imputato per dimostrare l’effettività delle operazioni di cessione. Secondo i giudici di legittimità, infatti, ostano alla tesi difensiva alcune considerazioni rilevate in sede di merito, quali ad esempio:

 

 

  • l’assenza di alcuna pattuizione scritta della cessione, pur se di importo rilevante
  • la fissazione del prezzo una tantum in luogo del più comune pagamento individualizzato e parcellizzato delle royalties
  • il mancato sfruttamento reale del marchio
  • la determinazione del tutto unilaterale del prezzo di cessione da parte dell’imputato, fissato in rapporto al suo personale credito nei confronti della titolare del marchio (e versato attraverso l’istituto della compensazione).

 

 

Quanto all’elemento soggettivo del dolo di evasione, la Cassazione ha confermato le motivazioni dei giudici di appello secondo i quali, in assenza di una reale corrispettività contrattuale sottostante alla operazione de qua, la cessionaria “ha potuto utilizzare a fini dichiarativi sia reddituali che Iva un costo fittizio ingente, che ha prodotto i relativi indebiti vantaggi fiscali derivanti dai rispettivi risparmi di imposta”, essendo a tal fine del tutto ininfluente la questione relativa alla effettività del credito dell’imputato nei confronti dell’associazione e della conseguente compensazione.