Il sistema di neutralità dell’Iva non consente al soggetto passivo – quand’anche in buona fede – di portare in detrazione un’imposta in tutto o in parte non dovuta, e ciò in base al principio, ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia, secondo cui la neutralità dell’imposta opera sul piano effettivo e non meramente formale, dovendo essere versate ovvero detratte soltanto quelle imposte che risultino realmente dovute, non potendo ritenersi tali le imposte erroneamente e indebitamente corrisposte in rivalsa o all’Erario.
È questo l’interessante principio con cui la Cassazione, con sentenza n. 17173 del 26 agosto 2015, ha rigettato il ricorso di una società.
Il caso
La Ctr della Campania, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle Entrate, dichiarava la legittimità dell’avviso di accertamento con cui l’ufficio aveva negato la detrazione dell’Iva versata dalla contribuente per prestazioni di lavori eseguite in subappalto, in quanto era stata applicata l’aliquota ordinaria del 20%, anziché quella ridotta del 4% prevista per lavori di costruzione di fabbricati non di lusso aventi i requisiti di cui alla legge 408/1949.
Attraverso la produzione di alcuni contratti di vendita stipulati nel 2000 dalla società contribuente, i giudici ritenevano, infatti, raggiunta la prova dei presupposti per l’applicazione, al caso concreto (esecuzione dei lavori di appalto aventi a oggetto la costruzione – per la successiva rivendita – di immobili non di lusso) dell’aliquota del 4 per cento. Di conseguenza, veniva disconosciuto il credito esposto dalla società in quanto determinato in base a erronea liquidazione dell’Iva.
Inoltre, sostenevano che la ricorrente non avesse titolo a richiedere all’Amministrazione finanziaria la restituzione dell’imposta versata in rivalsa al subappaltatore in misura maggiore rispetto al dovuto: infatti, soltanto quest’ultimo, in qualità di soggetto passivo tenuto al riversamento dell’imposta all’Erario, era legittimato ad agire per la ripetizione dell’indebito.
Con successivo ricorso per cassazione, la società denuncia il vizio di violazione di legge in relazione all’articolo 2697 cc, perché la Ctr aveva fatto applicazione dell’aliquota agevolata in difetto di alcuna prova da parte dell’Amministrazione finanziaria. L’altra censura riguarda il mancato riconoscimento della detraibilità dell’Iva corrisposta in rivalsa sulle fatture passive emesse con aliquota d’imposta superiore a quella prevista.
La pronuncia
La Cassazione ha rigettato il ricorso della contribuente, confermando definitivamente la legittimità dell’impugnato avviso di accertamento.
In merito al riparto dell’onere della prova, i giudici di legittimità sottolineano la correttezza dell’operato della Ctr che, nell’esaminare il materiale probatorio, ha accertato l’applicazione dell’aliquota ridotta sulla base di argomentazioni presuntive fornite dall’Amministrazione finanziaria ovvero alla luce di alcuni contratti di vendita dai quali risultava espressamente che gli appartamenti rispondevano ai requisiti non di lusso, di cui alla legge 408/1949.
Prima di decidere sull’altro motivo di ricorso, la Cassazione ripercorre la questione con il fine di darle il corretto inquadramento: nel caso in esame, infatti, la materia del contendere era il diritto alla detrazione dell’Iva assolta dalla contribuente, contestato con l’impugnato avviso di accertamento (essendo stata applicata nella fattispecie concreta, da parte del prestatore del servizio, un’aliquota maggiore a quella che avrebbe dovuto essere applicata in relazione alla specifica operazione compiuta) e non, invece, il diritto al rimborso della maggiore imposta versata in via di rivalsa (in quanto l’imposta liquidata in fattura era parzialmente non dovuta a causa dell’errata applicazione di un’aliquota maggiore) fatto valere nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, anziché del prestatore di servizi, con azione di ripetizione dell’indebito.
Sulla questione, infatti, una corretta lettura del Dpr 633/1972, articoli 17 e 18, consente di identificare nel cedente del bene (o nel prestatore del servizio) il soggetto, da un lato, legittimato a pretendere il rimborso dall’Amministrazione finanziaria e, dall’altro, obbligato a restituire al cessionario (o al committente) la somma pagata a titolo di rivalsa. Dal compimento dell’operazione imponibile derivano tre rapporti, che non interferiscono tra loro: due di diritto tributario, tra il cedente e l’Amministrazione finanziaria, in ordine al pagamento dell’imposta, e tra il cessionario e l’Amministrazione finanziaria in ordine alla detrazione dell’imposta assolta in via di rivalsa; l’altro di diritto privato, tra il cedente e il cessionario, in ordine alla rivalsa.
Ne consegue che, secondo consolidata giurisprudenza (cfr Cassazione 6419/2003, 3304/2004, 21214/2008 e 4020/2012) “il cedente non può opporre al cessionario, che agisca in restituzione, l’avvenuto versamento dell’imposta, che il cessionario non può opporre all’Amministrazione finanziaria, che escluda la detrazione, che l’imposta è stata assolta in via di rivalsa e versata all’Amministrazione medesima; che infine il solo cedente abbia titolo ad agire per il rimborso nei confronti dell’Amministrazione”.
Tale impostazione è stata accolta dalla Corte di giustizia con la sentenza 5 marzo 2007, causa C – 35/05, nella quale è stato affermato che i principi di neutralità, effettività e non discriminazione non ostano a una legislazione nazionale, quale quella italiana, secondo cui “soltanto il prestatore di servizi è legittimato a chiedere il rimborso delle somme indebitamente versate alle autorità tributarie a titolo di I.V.A., mentre il destinatario dei servizi può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore”.
La Corte di giustizia ha, quindi, ritenuto pienamente compatibile con la sesta direttiva 77/388/Cee e con i principi di neutralità, effettività e non discriminazione, una normativa nazionale “in cui, da un lato, il prestatore che ha versato erroneamente l’IVA alle autorità tributarie è legittimato a chiederne il rimborso e, dall’altro, il destinatario dei servizi può esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito nei confronti del prestatore”: lo Stato membro non può dunque impedire al destinatario del servizio (o al cessionario) “di conseguire la restituzione dell’importo della imposta indebitamente fatturata, direttamente dall’Amministrazione finanziaria nel caso in cui l’azione civilistica nei confronti del prestatore di servizi (o del cedente) risulti impossibile od eccessivamente difficile, segnatamente in caso di insolvenza del prestatore”.
La controversia, secondo la Cassazione, ha un diverso thema decidendum, ovvero il diritto del soggetto passivo alla detrazione dell’Iva versata “a monte” per l’acquisto di beni e servizi destinati alla propria attività economica, sebbene liquidata in misura superiore a quella effettivamente dovuta: diritto che la società ricorrente “vanta, e non può che vantare, nel rapporto tributario che viene ad instaurare, quale contribuente, nei confronti della Amministrazione finanziaria, la quale pertanto – diversamente da quanto affermato dalla CTR – è la sola destinataria della pretesa fatta valere dalla società contribuente in conseguenza della contestazione di tale diritto formulata con l’avviso di accertamento opposto”.
Correttamente, allora, è stata chiamata in causa l’Amministrazione finanziaria, anche se la censura della contribuente è stata ugualmente rigettata, non in virtù del difetto di titolarità, in capo all’Amministrazione finanziaria, della situazione giuridica passiva, ma per la prevalenza del principio di effettività della prestazione su quello di cartolarità.
Infatti, il principio di neutralità dell’Iva “non consente al soggetto passivo – quando anche in buona fede – di portare in detrazione una imposta in tutto od in parte non dovuta, e ciò in base al principio ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia secondo cui la neutralità della imposta opera sul piano effettivo e non meramente formale, dovendo essere versate ovvero detratte – o potendo integrare crediti per eccedenza chiesti a rimborso -, soltanto quelle imposte che risultino realmente dovute, tali non potendo ritenersi le imposte erroneamente ed indebitamente corrisposte in rivalsa od all’Erario, che possono dare luogo esclusivamente a pretese restitutorie da indebito da parte del cedente/prestatore, ovvero anche da parte del cessionario/destinatario del servizio, ma nella peculiare ipotesi di impossibilità od estrema difficoltà di recupero dall’emittente la fattura dell’importo indebitamente versato in rivalsa”.
È stata quindi confermata, sul punto, la decisione della Ctr e ribadito il principio di derivazione comunitaria secondo cui l’erronea liquidazione in fattura dell’Iva (nella fattispecie concreta era stata applicata l’aliquota ordinaria del 20% anziché quella agevolata del 4% prevista per le operazioni riguardanti immobili “non di lusso” a uso abitativo, ex legge 408/1949) non autorizza ex se il soggetto che l’abbia assolta in via di rivalsa a portarla in detrazione, essendo quest’ultima consentita solo nei limiti dell’Iva effettivamente dovuta, in base all’operazione conclusa tra le parti.
Nel caso in esame, i giudici d’appello hanno correttamente accertato che le fatture emesse dal prestatore di servizi contenevano un’imposta più alta rispetto a quella effettivamente dovuta, per cui è stata confermata la legittimità dell’avviso di accertamento con cui è stata (in parte) disconosciuta la detrazione e recuperata la maggiore Iva non versata.