Europa Europe 3DIl giudicato nazionale non può avere efficacia in tema di Iva ove ciò impedisca il contrasto all’abuso del diritto e alla piena applicazione del sistema armonizzato dell’imposta e qualora la condotta del contribuente configuri una fattispecie di elusione fiscale secondo il diritto della Corte di giustizia. È questo il principio chiarito dalla Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 11440 del 1° giugno 2016.

 

Vicenda processuale

 

La controversia ha avuto origine dall’impugnazione di un avviso di accertamento in materia di Iva per l’anno 2002, notificato a seguito del recupero a tassazione di costi correlati a fatture emesse per operazioni ritenute inesistenti. A seguito dell’impugnazione del provvedimento i giudici di prime cure, reputando corretto l’operato dell’ufficio, respingevano il ricorso.

 

La parte soccombente proponeva appello avverso la pronuncia sfavorevole e la Commissione tributaria regionale, nell’accogliere parzialmente il gravame della società contribuente, dichiarava l’illegittimità dell’atto impositivo in relazione al recupero a tassazione dell’Iva. Ciò sul presupposto che si era già pronunciata una diversa Ctr, con sentenza passata in giudicato, in merito ad altra controversia, intercorsa tra le stesse parti processuali, relativa all’anno successivo, riconoscendo la spettanza del credito Iva a favore della società.

 

L’Amministrazione finanziaria ricorreva per cassazione, lamentando la violazione e falsa applicazione, ex articolo 360, n. 3, cpc, dell’articolo 2909 del codice civile, in materia di “cosa giudicata”. In accoglimento del ricorso, la Corte suprema ha cassato la sentenza impugnata, con rinvio alla medesima Commissione tributaria regionale, in diversa composizione.

 

La pronuncia della Cassazione

 

In generale, l’efficacia preclusiva di nuovi accertamenti, propria del “giudicato esterno” tra le stesse parti, presuppone che si tratti di accertamenti di fatto effettuati all’interno del medesimo contesto normativo di riferimento. Difatti, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione, 20257/2015 e 6953/2015), ove il giudice tributario accerti in via definitiva il contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato periodo d’imposta, la pronuncia fa stato, quanto ai tributi dello stesso tipo dovuti per gli anni successivi, solo per gli elementi che abbiano un valore “condizionante” inderogabile rispetto alla disciplina del caso esaminato. Laddove quella fattispecie venga definita per uno specifico periodo d’imposta essa non potrà, dunque, estendere i suoi effetti automaticamente a un’altra annualità (ex plurimis, cfr Cassazione, 1837/2014 e 22941/2013).

 

Ebbene, come precisato dalla Corte, la sentenza alla quale, nella decisione impugnata, era stata attribuita efficacia di giudicato esterno vincolante, aveva in realtà a oggetto una cartella di pagamento derivante da un controllo automatizzato, emessa per l’anno 2003, ai sensi dell’articolo 54-bis del Dpr 633/1972. La pronuncia richiamata faceva, quindi, riferimento a un errore formale commesso nella compilazione della dichiarazione, posto che la contribuente non aveva indicato il credito Iva risultante dalla dichiarazione dell’esercizio precedente (ossia quello successivamente accertato). Si trattava, dunque, secondo i giudici di legittimità, di posizioni ben differenti, che non potevano reciprocamente vincolarsi l’una con l’altra.

 

Peraltro, la Corte di cassazione ha evidenziato ulteriori limiti alla portata vincolante del giudicato nazionale precisando che, vertendosi in materia di imposta sul valore aggiunto, e, quindi, di un tributo “armonizzato” a livello comunitario, l’applicazione delle stesse norme comunitarie (imperative) “non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall’articolo 2909 del codice civile, e dalla eventuale sua proiezione anche oltre il periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto, ove gli stessi impediscano – secondo quanto stabilito dalla sentenza della Corte di Giustizia CE 3 settembre 2009, in causa C-2/08 – la realizzazione del principio di contrasto dell’abuso del diritto, individuato dalla giurisprudenza comunitaria come strumento teso a garantire la piena applicazione del sistema armonizzato di imposta”, ribadendo, in tal modo, quanto già in precedenza statuito (cfr sentenze 16996/2012 e 12249/2010).

 

I giudici comunitari hanno evidenziato come l’applicazione, tout court, dell’articolo 2909 del codice civile, in tema di accertamento ed efficacia della cosa giudicata, incontri un preciso limite nell’ambito della disciplina in materia di Iva. Attraverso una ponderazione degli interessi in gioco, i giudici hanno ritenuto che la corretta e puntuale applicazione della disciplina in materia di Iva non possa essere impedita dalla formazione di un giudicato nazionale, peraltro, nel caso in esame, formatosi in relazione ad altro anno d’imposta e per fattispecie differenti.

 

Occorre, dunque, distinguere le controversie di diritto comunitario aventi esclusivamente a oggetto diritti disponibili delle parti, per le quali sono pienamente operanti gli strumenti processuali apprestati dall’ordinamento nazionale (con i soli limiti dei principi di equivalenza e di effettività), dalle controversie che coinvolgono il rispetto da parte dello Stato membro di norme comunitarie imperative, quali i principi e le disposizioni in materia di tributi armonizzati.

 

Il principio della cosa giudicata, pur trovando pieno riconoscimento nel diritto comunitario, non opera, pertanto, laddove si ponga in contrasto con il principio di effettività in materie di particolare rilevanza per l’ordinamento dell’Unione. Non ritenendo, dunque, la sentenza della Ctr in linea con i suddetti principi di diritto, la Corte suprema ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla medesima Commissione tributaria regionale, in diversa composizione.