Abolire la TASI e l’IMU sulla prima casa rappresenta un segnale molto forte. Intanto perché riporta la questione della fiscalità sugli immobili al centro del dibattito politico italiano.
Le motivazioni di tale scelta sono innumerevoli. La proposta del premier sembra partire in primo luogo da una considerazione di natura numerica e sociale: il gettito dei 3,4 miliardi di euro della TASI proviene da quasi 20 milioni di abitazioni principali e da poco meno di 13 milioni di pertinenze con autonomo accatastamento. Dunque, una porzione limitata delle entrate statali derivanti dal mattone, che sommano in totale a circa 43 miliardi, considerando anche le imposte di registro, coinvolge una vastissima fascia della popolazione italiana, dal momento che circa 50 milioni di italiani trarrebbero un beneficio dall’eliminazione dei due tributi sulla prima casa.
A questi dati meramente quantitativi, si aggiungono valutazioni che hanno a che fare con le aspettative degli italiani: detassare la componente essenziale del loro patrimonio può indurli a liberare risorse per i consumi e a rimettere in moto un settore in piena crisi come quello dell’edilizia. È evidente -quindi- che l’intento di Matteo Renzi è quello di porre in essere una misura destinata a coinvolgere la stragrande maggioranza del Paese e a produrre un effetto annuncio molto forte, per ottenere il quale si è ritenuto opportuno includere nel taglio persino le 44 mila abitazioni di lusso, adibite a prima casa, che fino ad oggi erano sottoposte ad imposizione fiscale.
In altre parole, per poter dichiarare la scomparsa, senza se e senza ma, della tassazione sulla prima casa, il governo sembra intenzionato a cancellare IMU e TASI su abitazioni che qualsiasi idea di equità fiscale vorrebbe sottomesse ad un prelievo, proprio per la loro natura di beni di lusso.
Mettere mano a una simile manovra deve fare i conti però con alcune criticità. La prima, notissima, è quella delle coperture che rappresenta una grande sfida, data l’estrema difficoltà di reperire i circa 4,4 miliardi di euro necessari per eliminare IMU, TASI, oltre all’IMU agricola e a quella sui macchinari imbullonati al terreno.
Una sfida resa ancora più insidiosa dalla necessità imprescindibile di non ripetere l’esperienza del passato, quando il buco nei bilanci pubblici -generato anche dall’eliminazione dell’ICI sulla prima casa e pagato a caro prezzo in termini di costo degli interessi sul debito- costrinse ad un dietro front con la reintroduzione dell’imposta.
La seconda criticità si lega intimamente alla prima, perché la copertura dell’abolizione di IMU e TASI non può essere rintracciata nel mancato trasferimento ai Comuni del gettito di tali imposte. Una simile scelta, peraltro apertamente esclusa dal governo, sarebbe impensabile in quanto, laddove le aliquote esistenti ancora lo permettessero, il taglio sulle abitazioni principali si tradurrebbe in forte incremento del carico sulle seconde case, sugli “altri fabbricati”, sulle aree fabbricabili e sui terreni, con effetti inevitabilmente depressivi, a cominciare dai settori produttivi interessati dal provvedimento.
Non bisogna dimenticare infatti che le “persone non fisiche” sono titolari di poco meno del 38% dei 5,1 milioni di unità immobiliari non residenziali e pagano il 71% del valore fiscale; un inasprimento in tale direzione avrebbe così conseguenze assai negative per il sistema economico nazionale. Nel caso specifico delle seconde abitazioni, poi, è molto probabile che per coprire il minor gettito della cancellazione della TASI i Comuni dovrebbero “operare” sulle abitazioni affittate, in cui risiedono circa 10 milioni di italiani, portando le aliquote al massimo, dove già si trovano in moltissimi Comuni quelle sui 5 milioni di case non affittate. Altrettanto incongruo sarebbe mettere mano alle attuali aliquote massime, consentendo ai Comuni, con modifica normativa, di alzarle ulteriormente, e scaricando così su di loro la responsabilità dell’inasprimento fiscale.
La conseguenza di tutto ciò sarebbe un aumento del gettito derivante dal prelievo dell’IMU, che nel 2014 è stato pari a 19,2 miliardi e, molto probabilmente, degli affitti. Pertanto, se l’eliminazione di IMU e TASI non venisse compensata da analoghi trasferimenti agli enti locali molto difficilmente la pressione fiscale scenderebbe, e la sua redistribuzione su soggetti passivi appartenenti a gruppi sociali diversi non basterebbe a produrre l’effetto leva auspicato da Matteo Renzi.