A un anno dall’avvio dei massicci acquisti di titoli da parte della Banca Centrale Europea (60 miliardi al mese), non trovano soluzioni i problemi nell’Eurozona della bassa inflazione e della stretta dei prestiti alle imprese.
È l’Ufficio Studi della CGIA a stilare un primo bilancio del Quantitative Easing (QE), l’operazione avviata dalla Bce il 9 marzo del 2015 con l’intento di riportare il tasso di inflazione al 2% e dare fiato all’economia. Nell’ultimo anno nell’area dell’euro la Bce ha comprato titoli per oltre 713 miliardi di euro, in particolare del settore pubblico (quasi 600 miliardi di euro). Questo piano di acquisto titoli è stato in linea con quanto previsto inizialmente, tant’è che tra il 9 marzo 2015 e il 26 febbraio 2016 (ultimo dato disponibile) Francoforte ha acquistato titoli e obbligazioni per 59,5 miliardi di euro al mese.
Cosa è successo nell’Eurozona?
I risultati del QE sono stati deludenti specie se si considera che, nell’ultimo anno, il livello medio dei prezzi nell’Area dell’euro è cresciuto di appena lo 0,1 per cento mentre i prestiti alle società non finanziarie europee sono scesi di 0,7 punti percentuali. Anche in Germania e in Francia, dove le previsioni di crescita economica per il biennio 2016-2017 sono più favorevoli che in Italia e dove i prestiti alle società non finanziarie sono aumentati negli ultimi 12 mesi, l’inflazione è prossima allo zero (+0,2 per cento per i consumatori tedeschi e +0,1 per cento per quelli francesi).
Vi sono poi alcuni paesi in piena deflazione: valutando l’andamento dell’indice medio dei prezzi al consumo HICP negli ultimi 12 mesi (febbraio 2015-gennaio 2016) si evince come, rispetto allo stesso periodo di un anno prima, i prezzi siano scesi dello 0,5 per cento in Spagna e in Lituania, dello 0,8 per cento in Slovenia, dello 0,4 per cento in Slovacchia e dello 0,1 per cento in Finlandia. Nessun paese dell’Area Euro presenta un’inflazione superiore all’1 per cento (il tasso di crescita dei prezzi più elevato si trova in Austria, +0,9 per cento) e l’obiettivo del 2 per cento rimane un miraggio.
E in Italia ?
Sebbene la Bce abbia acquistato più di 87 miliardi di titoli di stato italiani (dati al 31 gennaio 2016, pari al 16 per cento del totale), con riferimento agli ultimi 12 mesi, l’inflazione è salita di appena lo 0,2 per cento, mentre i prestiti alle società non finanziarie (cioè alle imprese) sono scesi del 2,3 per cento (pari a una contrazione di 15 miliardi di euro).
“L’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi dell’Euro – precisa il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – ha contribuito a garantire una certa stabilità finanziaria ma è evidente come questa grossa iniezione di liquidità non stia raggiungendo i risultati sperati tant’è che l’inflazione è ferma, i prestiti alle imprese non ripartono e la crescita economica non trova lo slancio che servirebbe, creando preoccupazione negli operatori e riducendo la fiducia delle imprese. Insomma, il bazooka di Draghi non ha sortito gli effetti sperati. Una quota rilevante di questi 87 miliardi di euro sono finiti alle nostre banche che, però, hanno preferito trattenerseli, aumentando così il livello di patrimonializzazione come richiesto dalla Bce, anziché impiegarli nell’economia reale”.
Sui risultati del QE e sulla situazione di difficoltà in cui versano le banche venete il Segretario della CGIA, Renato Mason, dichiara: “Le regole si stanno assestando sempre più in alto. Prima l’Europa chiedeva un patrimonio dell’8 per cento degli impieghi; ora bisogna avere il 10,25. In altre parole, la banca per prestare 100 milioni deve avere un patrimonio di oltre 10. L’asticella che varia nel tempo per gli istituti di credito è un problema. Infatti, dura da un anno la corsa per adeguarsi alle nuove regole europee, applicate con rigidità e nel periodo peggiore, ovvero nel bel mezzo di una crisi. Adesso, ad esempio, il Governo Renzi ha deciso che le popolari si debbano trasformare in società per azioni. Per far ciò, Veneto Banca deve trovare un miliardo di euro sul mercato per ricapitalizzare e la Popolare di Vicenza un miliardo e mezzo.
Tutto ciò mentre la raccolta dei risparmi accusa una flessione dell’8 per cento per l’istituto di Montebelluna e del 23 per cento per quello di Vicenza e il credito deteriorato tocca il 20 per cento per la prima e il 21 per la seconda. Insomma, tra l’innalzamento del livello patrimoniale, l’aumento di capitale e la quotazione in borsa, il valore delle due banche si è ridotto a tal punto che con uno sforzo economico contenuto si potranno acquistare entrambe”.
Il credito alle imprese, quindi, stenta a ripartire nonostante la domanda di finanziamenti da parte delle aziende registrata nel 2015 risulti in aumento (+4,5 per cento rispetto al 2014). Come dicevamo più sopra, i dati relativi agli impieghi totali alle imprese (società non finanziarie e famiglie produttrici) indicano come, dalla fine del 2014 alla fine del 2015, le consistenze siano scese ancora di quasi 15 miliardi di euro (-1,6%) con saggi più negativi in Lazio (-4,6%), in Veneto (-3,4%), in Calabria (-3,3%) e in Basilicata (-3,0%). Le imprese italiane sono ancora nella morsa del credit crunch anche se cominciano ad intravedersi alcuni cambi di tendenza: in Campania (+0,2%), Abruzzo (0,5%), Trentino Alto Adige (+2,1%), Sardegna (+2,9%) e Friuli Venezia Giulia (+3,5%) gli impieghi alle imprese sono cresciuti tra il 2014 e il 2015.