La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 121/2016, ha stabilito l’obbligo di deposito di copia dell’appello presso la segreteria della Ctp che ha pronunciato la sentenza impugnata. La Corte Costituzionale, con la sentenza 30 maggio 2016, n. 121, ha infatti ha salvato la validità dell’art. 53, co. 2, secondo periodo del D.Lgs. n. 546/1992, oggi abrogato, e ha stabilito l’obbligo di deposito di copia dell’appello presso la segreteria della Ctp che ha pronunciato la sentenza impugnata.
La Commissione tributaria regionale del Lazio, con ordinanza iscritta al n. 172 del registro ordinanze 2015, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dell’art. 53, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – nel testo risultante dopo le modifiche apportate dall’art. 3-bis, comma 7, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 –, il quale prevede, nell’ipotesi in cui la notifica non avvenga a mezzo di ufficiale giudiziario, l’inammissibilità dell’appello nel caso di omesso deposito di copia dell’atto di impugnazione presso l’ufficio di segreteria della Commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata.
In via preliminare va segnalato che l’art. 36 del decreto legislativo 21 novembre 2014, n. 175 (Semplificazione fiscale e dichiarazione dei redditi precompilata) ha disposto la soppressione del secondo periodo del comma 2 dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, rendendo non più necessario, ai fini della ritualità della proposizione dell’appello dinanzi alla Commissione tributaria regionale, il deposito di copia dell’atto di impugnazione presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale. Come correttamente rilevato dal giudice rimettente, la norma sopravvenuta non trova applicazione nel giudizio a quo. E ciò in quanto, secondo quanto precisato anche dalla Agenzia delle entrate con la circolare n. 31/E del 30 dicembre 2014, in mancanza di specifica disposizione transitoria, opera il principio generale secondo cui l’atto processuale è soggetto alla disciplina vigente al momento in cui viene compiuto, sebbene successiva all’introduzione del giudizio. Conseguentemente, la nuova disposizione si applica agli appelli notificati dopo il 13 dicembre 2014, data di entrata in vigore del decreto legislativo. Per gli appelli proposti, come quello di specie, prima di tale termine deve quindi continuare ad applicarsi la disposizione che prevede l’inammissibilità nel caso di omesso deposito di copia dell’appello presso la Commissione tributaria provinciale.
Nel merito, la questione in esame va valutata alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte in materia di disciplina del processo e di conformazione degli istituti processuali, secondo cui in tale ambito il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2016, n. 23 del 2015 e n. 157 del 2014), che si ravvisa, con riferimento specifico all’art. 24 Cost., ogniqualvolta emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire (sentenze n. 44 del 2016 e n. 335 del 2004). In particolare, questa Corte ha costantemente sostenuto che tale precetto costituzionale «“non impone che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti […] purché non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale”» (da ultimo, sentenza n. 44 del 2016, e, analogamente, sentenze n. 23 del 2015, n. 243 e n. 157 del 2014).
Pronunciandosi proprio sul secondo periodo del comma 2 dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992 è stato chiarito che l’onere previsto dalla disciplina de qua non viola l’art. 24 Cost. (sentenza n. 17 del 2011; ordinanza n. 43 del 2010). Tale onere, di per sé non eccessivamente gravoso, è giustificato dalla ratio della norma, ravvisabile – per come delineata da questa Corte – nell’intento di «evitare il rischio di una erronea attestazione del passaggio in giudicato della sentenza di primo grado» (sentenza n. 321 del 2009 e ordinanza n. 43 del 2010): infatti qualora l’appellante abbia liberamente scelto di notificare il ricorso in appello non avvalendosi dell’ufficiale giudiziario, «l’unico deterrente per indurre l’appellante a fornire tempestivamente alla segreteria del giudice di primo grado la documentata notizia della proposizione dell’appello stesso è rappresentato dalla sanzione di inammissibilità prevista dalla norma denunciata» (sentenza n. 321 del 2009).
Tanto premesso, occorre verificare la presunta disarmonia costituzionale (con riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, Cost.) della disposizione censurata sotto la particolare prospettiva offerta dal giudice rimettente, incentrata sulla ingiustificata diversità della disciplina della notifica effettuata direttamente dalla parte rispetto a quella effettuata dall’Amministrazione tramite il messo notificatore speciale: pur essendo, quest’ultimo, organo della parte processuale, non viene, infatti, applicata la sanzione dell’inammissibilità in caso di inadempimento dell’obbligo di avviso al giudice di primo grado.
In allegato il testo completo della Sentenza.