È credito tributario non spettante, ai fini dell’integrazione del reato di indebita compensazione (articolo 10-quaterdel Dlgs 74/2000), quello che, come nel caso concreto, pur certo nella sua esistenza e ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario. È questo il principio espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 36393 del 9 settembre 2015.
Il caso
Il Tribunale di Genova confermava il sequestro preventivo emesso dal Gip sui beni di un contribuente, in relazione al reato che punisce “chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti.” (articolo 10-quater del Dlgs 74/2000).
Con il successivo ricorso in Cassazione, il contribuente denunciava violazione di legge, in relazione alla ritenuta erronea sussistenza del requisito del fumus commissi delicti.
Il provvedimento cautelare era stato emesso a causa della compensazione di ritenute effettivamente subite dal contribuente, ma eccedenti il limite massimo annuale ammesso dalla legge (articolo 34 della legge 388/2000).
Secondo il contribuente, la fattispecie concreta non integrerebbe un’ipotesi di credito “non spettante”, ma semplicemente non compensabile per superamento della soglia: del resto, la ratiodella norma sarebbe quella di punire condotte fraudolente che comportino omissioni di pagamento oltre una certa soglia. Nel caso in esame, invece, il credito era esistente, per cui il suo utilizzo in compensazione non avrebbe recato alcun danno economico all’Erario, con il conseguente venir meno dell’offensività della condotta.
La pronuncia e ulteriori osservazioni
La Cassazione, con la pronuncia in esame, ha rigettato il ricorso del contribuente, confermando la legittimità della misura cautelare del sequestro preventivo e, quindi, l’esistenza del fumus commissi delicti.
L’articolo 10-quater del Dlgs 74/2000 punisce la condotta di chi utilizzi in compensazione crediti non spettanti o inesistenti, per un ammontare superiore, per ogni periodo di imposta, a 50mila euro.
L’aspetto più controverso del reato in esame riguarda l’individuazione della condotta tipica, in particolare per quanto concerne la definizione di credito “non spettante”; secondo la sentenza in commento, che riprende alcuni importanti precedenti della giurisprudenza di legittimità (Cassazione n. 3367/2015 e n. 37350/2013), “mentre il concetto di credito inesistente è di facile ed intuibile identificazione (essendo chiaramente tale il credito del quale non sussistono gli elementi costituitivi e giustificativi), la nozione di credito non spettante, non può essere ricondotta al concetto di mera non spettanza soggettiva (essendo evidente che il portare, eventualmente, in detrazione un credito tributario, pur astrattamente esistente ma riferito ad altro soggetto, integra gli estremi della compensazione con un credito inesistente o, meglio, inesistente relativamente alla posizione del soggetto che operi la compensazione) ovvero alla pendenza di una condizione al cui avveramento sia subordinata l’esistenza del credito (infatti, anche in questo caso, laddove si tratti di condizione sospensiva, fintanto che essa sia pendente, il credito, trattandosi di fattispecie e formazione progressiva, ancora non è sorto – esso è, pertanto, inesistente -, mentre, se si trattasse di condizione risolutiva, una volta verificatasi quest’ultima, il credito stesso sarebbe definitivamente venuto meno)”.
In altri termini, la Cassazione fornisce un’interpretazione estensiva del concetto di “non spettanza” del credito che riguarda tutti quei crediti che, pur se esistenti, non sono esigibili e quindi utilizzabili in compensazione, ad esempio perché attengono a costi non inerenti (in materia di Iva) oppure, come nel caso in questione, perché è stata superata la soglia massima annua compensabile prevista per legge: da qui, il principio di diritto per cui costituisce credito non spettante quello che “pur certo nella sua esistenza ed ammontare sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario”.
Si ricorda, a tal proposito, che l’articolo 34 della legge 388/2000 prevede che “il limite massimo dei crediti di imposta e dei contributi compensabili ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241/1997, ovvero rimborsabili ai soggetti intestatari di conto fiscale, è fissato in lire 1 miliardo per ciascun anno solare. Tenendo conto delle esigenze di bilancio, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, il limite di cui al periodo precedente può essere elevato, a decorrere dal 1° gennaio 2010, fino a 700.000 euro”. Tale limite è stato poi innalzato a 700mila euro, a decorrere dal 2014, per effetto di una norma di rango primario, il Dl 35/2013.
Questi i termini indicati anche dalla sentenza 37350/2013, con cui è stata dichiarata la irrilevanza penale della condotta di chi, dopo avere portato in compensazione crediti ancora non esigibili, aveva provveduto, entro i termini previsti dalla legge, a sanare la irregolarità realizzata, versando l’imposta che, in prima battuta, era stata indebitamente compensata.
Anche tale pronuncia conferma indirettamente la rilevanza penale della compensazione di crediti esistenti, ma non ancora esigibili: con essa, infatti, non si è voluto affermare la legittimità dell’operazione di compensazione, ma rilevare che, per effetto del ravvedimento operoso, il contribuente aveva provveduto a versare le imposte da lui dovute, in tal modo elidendo, ancor prima dell’effettivo verificarsi dell’omissione tributaria che costituisce l’evento del reato in esame, la rilevanza penale della precedente condotta.
Nell’ambito dell’attuazione dei decreti delegati della Riforma fiscale (in attesa dell’approvazione definitiva), si è deciso di riscrivere completamente la norma sopra indicata come segue:
1. è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti non spettanti, per un importo anno superiore a 50mila euro
2. è punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione crediti inesistenti per un importo annuo superiore a 50mila euro.
Come si nota, si è deciso di differenziare in due differenti commi l’ipotesi del credito non spettante, rispetto a quella del credito inesistente; una sanzione più lieve è prevista per la prima ipotesi (che è diretta comunque a tutelare l’interesse dello Stato alla tempestiva ed efficace riscossione delle imposte), mentre si registra un aggravio per la seconda, vista la maggiore insidiosità della condotta.