reverse chargeCon la sentenza 7576/2015, la Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito a una particolare fattispecie in cui una società nazionale aveva acquistato, nell’anno 1997, taluni beni (frutta esotica) da un soggetto comunitario (azienda spagnola); detti beni erano stati precedentemente importati da Paesi terzi in Spagna e ivi immessi in libera pratica, assolvendo a tal fine in Spagna i dazi comunitari per il tramite della stessa azienda spagnola-successiva cedente intracomunitaria dei beni medesimi.

 

L’ufficio Iva italiano territorialmente competente, peraltro, aveva emesso nell’anno 1999 avviso di rettifica nei confronti della società nazionale-cessionaria comunitaria dei beni, con il quale era negata la legittimità della detrazione del tributo afferente l’acquisto in questione da essa operata nella propria dichiarazione annuale Iva relativa alla medesima annualità (1997), in quanto detta società aveva omesso di effettuare la doppia registrazione di tali operazioni nei registri Iva delle fatture emesse e degli acquisti (“reverse charge”), ai sensi di quanto in tal senso previsto dall’articolo 47, comma 1, del Dl n. 331/1993 in tema di scambi intracomunitari, provvedendo ad annotare detti acquisti solamente nel proprio libro giornale.

 

Sul punto, la Cassazione – dopo aver rilevato l’oggettiva irregolarità della procedura seguita dal contribuente rispetto agli adempimenti all’uopo prescritti dalla normativa nazionale (che in tali fattispecie prevede, appunto, l’obbligo di integrazione della fattura emessa dal cedente comunitario con l’imposta italiana, e la successiva doppia annotazione della medesima nei suddetti registri Iva) – ha tuttavia ribadito il proprio orientamento, ormai prevalente, secondo il quale detta irregolarità riveste natura meramente formale nei casi in cui (come in quello di specie) risultino adempiuti, sia pure in modo irregolare, gli obblighi sostanziali di assunzione del debito Iva (nella fattispecie dedotta in controversia, infatti, risultava di fatto acclarato che gli acquisti in questione erano stati compiuti da un soggetto passivo d’imposta nell’esercizio della propria attività d’impresa), derivando quindi da ciò che il diritto alla detrazione del tributo non può essere legittimamente disconosciuto (vedi in tal senso, tra le numerose decisioni espressamente richiamate, la sentenza n. 17588/2010).

 

Al riguardo, i giudici di legittimità hanno motivato il proprio convincimento richiamando “in toto” i princìpi espressi dalla Corte di giustizia europea nella sentenza n. C-590/13 dell’11 dicembre 2014. In tale decisione, infatti, la Corte europea – riprendendo le considerazioni già svolte nella precedente decisione cause riunite nn. C-95/07 e 96/07 dell’8 maggio 2008 – ha ricordato che, sebbene l’articolo 18, n. 1, lettera d), della sesta direttiva Iva n. 388 del 1977 (vedi, ora, l’articolo 178 della direttiva di rifusione n. 2006/112/Ce del 28 novembre 2006) consenta agli Stati membri di fissare le formalità concernenti l’esercizio del diritto di detrazione mediante il citato meccanismo del “reverse charge” (applicabile agli scambi intracomunitari di cui trattasi), l’inosservanza di tali formalità, da parte del soggetto passivo a esse obbligato (nella specie, l’acquirente intracomunitario), non può di per sé comportare a suo carico la perdita del diritto alla detrazione del tributo afferente le medesime operazioni.

 

Il rispetto del principio generale comunitario di neutralità dell’imposta, infatti, consente la detrazione del tributo in tutti i casi in cui i requisiti sostanziali delle sottostanti operazioni siano soddisfatti – circostanza, quest’ultima, che risultava di fatto essere stata acclarata dalla stessa Amministrazione finanziaria, nel caso di specie, trattandosi (come sopra detto) di acquisti di beni posti in essere da un soggetto Iva nello svolgimento della propria attività imprenditoriale – e ciò anche se taluni adempimenti di carattere formale (tra i quali, appunto, deve annoverarsi la registrazione degli acquisti intracomunitari ai sensi dei citati articoli 46 e 47 del Dl n. 331) non siano stati ritualmente effettuati (vedi anche, nello stesso senso, la sentenza n. C-146/05 del 27 settembre 2007).

 

Nella suddetta decisione, inoltre, i giudici comunitari avevano altresì osservato che – pur essendo pacifico che il soggetto passivo-acquirente intracomunitario dei beni avrebbe dovuto liquidare e registrare a debito e a credito la relativa imposta con il suddetto meccanismo d’inversione contabile – l’inosservanza di tale adempimento non avrebbe tuttavia potuto comportare la perdita della detrazione del relativo tributo in quanto, in assenza (come nella specie) di limiti soggettivi e/o oggettivi del diritto a detrazione in capo allo stesso acquirente, si sarebbe comunque trattato di operazioni da considerare finanziariamente “neutre”, per le quali, quindi, nulla risultava dovuto all’Erario.

 

Da parte nostra, è da rilevare che le conclusioni cui perviene la Cassazione, nella sentenza in commento, appaiono sostanzialmente in linea anche con la posizione assunta dall’Amministrazione finanziaria nella risoluzione n. 56/E del 6 marzo 2009 (parimenti richiamata dai giudici di legittimità), nella quale – sempre prendendo spunto dalla giurisprudenza comunitaria – è stato, infatti, affermato in linea generale, tra l’altro, che, nei casi in cui vengono accertate violazioni degli obblighi stabiliti dal regime del “reverse charge”, il diritto alla detrazione del tributo deve essere comunque riconosciuto, se l’imposta è detraibile da parte del contribuente (come, ad esempio, nei casi in cui il soggetto effettua “a valle” operazioni regolarmente imponibili al tributo).