I limiti temporali posti agli uffici per notificare rettifiche sono fissati nell’interesse del contribuente ed è quest’ultimo a doverli contestare nel caso non vengono rispettati.
Poiché il termine di decadenza per l’esercizio del potere impositivo ha natura sostanziale e non appartiene a materia sottratta alla disponibilità delle parti, è riservata alla valutazione del contribuente la scelta di avvalersi o meno della relativa eccezione.
Così, ha concluso la Cassazione, con l’ordinanza n. 171 del 9 gennaio 2015, in cui è stato altresì ribadito che, trattandosi di eccezione in senso proprio, la stessa non è rilevabile d’ufficio né proponibile per la prima volta in grado d’appello.
La vicenda di merito e il ricorso in Cassazione
Una società di persone e i suoi soci ricorrevano avverso gli avvisi di accertamento con i quali il competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate aveva rettificato il reddito societario per l’anno 2000 e i conseguenti redditi di partecipazione dei soci stessi.
In entrambi i gradi tributari di merito, le doglianze dei contribuenti venivano rigettate.
Per quanto d’interesse in questa sede, la Commissione tributaria regionale della Toscana dichiarava inammissibile – in quanto sollevata dalle parti private soltanto in appello – l’eccezione di decadenza dell’ufficio dall’azione accertatrice.
Tale statuizione veniva gravata con specifico motivo nel ricorso per cassazione proposto dagli interessati, i quali censuravano la pronuncia del giudice regionale per asserita violazione di diverse norme, tra le quali gli articoli 2946 (“Prescrizione ordinaria”) del codice civile, 43 (“Termine per l’accertamento”) del Dpr 600/1973 e 57 (“Domande ed eccezioni nuove” in appello) del Dlgs 546/1992.
La pronuncia della Corte suprema
La Corte ha rigettato il ricorso, condannando i contribuenti agli oneri del giudizio di legittimità, liquidati in 5mila euro, oltre le spese prenotate a debito.
Sul punto controverso, la Cassazione ha rilevato la conformità del decisum della Commissione regionale alla consolidata giurisprudenza che, si legge testualmente nella pronuncia in rassegna, “ha più volte ribadito come il termine di decadenza stabilito a carico dell’ufficio tributario ed in favore del contribuente per l’esercizio del potere impositivo abbia natura sostanziale e non appartenga a materia sottratta alla disponibilità delle parti”.
Pertanto, precisa la Corte, “è riservata alla valutazione del contribuente stesso la scelta di avvalersi o meno della relativa eccezione, da ritenersi, pertanto, eccezione in senso proprio, non rilevabile d’ufficio, né proponibile per la prima volta in grado d’appello (tra le tante, sent. 14028/11)”.
Osservazioni
L’istituto della decadenza, in ambito tributario, concerne l’esercizio del potere di imposizione che va esercitato entro i termini stabiliti dalla legge, a garanzia dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici e dell’interesse del contribuente alla predeterminazione del termine di soggezione del proprio patrimonio all’iniziativa dell’ufficio finanziario.
In base all’articolo 43 del Dpr 600/1973, ad esempio, gli avvisi di accertamento devono essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione; nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla, invece, l’accertamento può essere notificato fino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata.
Al riguardo, già in passato, con le sentenze 28530/2013 (segnalata in “Avviso ai litiganti” del 17 gennaio 2014) e 25500/2011 (con commento in FiscoOggi del 6 novembre 2011), la Cassazione ha avuto modo di osservare che la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dall’esercizio del potere nei confronti del contribuente, in quanto stabilita in favore e nell’interesse esclusivo di quest’ultimo in materia di diritti da esso disponibili, “non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma deve essere dedotta dal contribuente in sede giudiziale”.
Ciò diversamente, anzi all’opposto, dalla decadenza del contribuente dall’esercizio di un potere (ad esempio, il diritto al rimborso di imposte) nei confronti del fisco che, sempre secondo le citate pronunce, in quanto stabilita in favore dell’Amministrazione tributaria “ed attinente a situazioni indisponibili, perché disciplinata da un regime legale non derogabile, rinunciabile o modificabile dalle parti, è rilevabile anche d’ufficio salvo il limite del giudicato interno formatosi in conseguenza di una pronuncia esplicita o implicita assunta nel precedente grado di giudizio” (nei medesimi termini (vedi anche Cassazione, sentenza 29227/2008, con commento in FiscoOggi del 30 gennaio 2009).
L’ordinanza in esame, dunque, ribadisce un principio consolidato, sottolineando che, per far valere l’intervenuta consumazione del potere impositivo, la relativa eccezione – cosiddetta “in senso stretto” (o “proprio”) perché, a differenza delle eccezioni “in senso lato” (o “improprio”), può essere proposta soltanto dalle parti (le altre, invece, possono essere rilevate anche d’ufficio dal giudice) – va sollevata in primo grado, non essendo invece proponibile per la prima volta in appello.
Ancora più specificamente, è stato osservato che ogni eccezione riconducibile alla categoria delle eccezioni in senso stretto deve costituire specifico motivo del ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, mentre “non può essere eccepita dal contribuente mediante la presentazione di motivi aggiunti, in quanto l’integrazione dei motivi di ricorso è consentita dall’articolo 24 del D.Lgs. n. 546/1992 soltanto in relazione alla contestazione di documenti depositati dalla controparte e fino ad allora non conosciuti” (Cassazione, sentenza 12442/2011).
FONTE: Fisco Oggi – Rivista Telematica dell’Agenzia delle Entrate
AUTORE: Massimo Cancedda