La sez. giurisdizionale del Veneto, della Corte dei conti, con la sentenza n. 119 del 24 ottobre 2023, definisce i contorni e la quantificazione del danno all’immagine, a seguito di condanna penale (caso di specie, peculato).


La procura erariale, conveniva in giudizio un dipendente pubblico per vederlo condannare al risarcimento del danno all’immagine cagionato alla propria Amministrazione, a seguito di una condanna penale (due anni di reclusione) passata in giudicato di appropriazione (peculato) di una recinzione metallica pregiata (che circondava un monumento ai caduti della prima guerra mondiale), poi istallata nell’abitazione del figlio, in piena assonanza giustificativa del gergo «tengo famiglia», da inserire nel tricolore (cit. LONGANESI).

Il parametro legale per la quantificazione del danno, «salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente» (ex art. 1, comma 1 sexies della legge n. 20/1994), legato alla rilevanza mediatica dei fatti (il c.d. impatto all’immagine pubblica) sia attraverso la stampa locale che all’interno della stessa PA, nonché al ruolo di responsabilità ricoperto di vigilanza sui beni, incidendo, dalla condotta dolosa (posto in essere pur rappresentandosi necessariamente l’illiceità del proprio agire, con il relativo discredito della propria Amministrazione determinato nell’azione, accettandone gli effetti negativi), il legame di servizio con l’istituzione.

Il convenuto, solo in sede di giudizio, chiedeva il pagamento del quantum risarcitorio nella misura indicata in sede di fissazione di udienza (avendo rinunciato alla proposta di definizione agevolata mediante il pagamento, operando la decadenza del beneficio) e la sua rateizzazione.

Il pronunciamento

Il Collegio, appura la presenza dei presupposti (i fatti) dell’azione erariale di danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, sin dalla notitia damni:

  • dalla raccolta di notizie stampa (lanci di agenzie e articoli di stampa), configurando il c.d. clamor fori e conseguente compromissione del prestigio e della reputazione dell’Amministrazione: il danno all’immagine è direttamente proporzionale alla eco della vicenda dai mass media e, di conseguenza, presso l’opinione pubblica, con inevitabile pregiudizio subìto dalla PA dall’ottenimento di utilità personali anziché al perseguimento dell’interesse pubblico da parte di colui/oro che esercita/no (in caso di concorso) una funzione pubblica, ex 54 Cost. [1];
  • dall’invio alle Procure regionali della Corte dei conti delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti delle PA per delitti commessi “a danno” delle stesse, anche per i reati di cui al capo I, titolo II, libro secondo, del codice penale (comma 7, dell’art. 51 del d.lgs. n. 174/2016) [2].

L’ordinamento ha subordinato la tutela risarcitoria del danno all’immagine alla conclusione del processo penale, segnando il relativo dies a quo che non potrà che coincidere con il passaggio in giudicato della sentenza di condanna [3], acclarando quale presupposto, da un lato, la condanna irrevocabile e, dall’altro, il clamore della vicenda, prescindendo, dunque, dall’origine di tale notizia, precisando che la disposizione va letta in combinato disposto con quella di cui all’art. 17, comma 30 ter del d.l. n. 78/2009, secondo la quale, nei casi di danno all’immagine, il decorso del termine di prescrizione è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale.

Pare giusto, rimarcare che nella struttura propria della responsabilità amministrativa, di cui il danno all’immagine costituisce una figura tipizzata, esso tende a risarcire l’Amministrazione del danno patito per aver visto lesa la propria immagine e prestigio di fronte all’opinione pubblica, minando il rapporto di fiducia e rispetto tra cittadini e amministrazione: sotto tale profilo (ossia le finalità perseguite dalla norma, il disvalore sociale incidente sulla produzione del danno è tendenzialmente lo stesso sia che si abbia reato consumato o tentato [4].

Il quantum risarcitorio

Ne segue la quantificazione del danno:

  • viene negata l’istanza di accedere alla determinazione del danno nella misura ridotta, in ragione della finalità meramente deflattiva del contenzioso, aspetto che logicamente viene meno nella fase di merito (rendendo incompatibile la richiesta), mancando peraltro di riscontri oggettivi sulla tardività dell’accettazione dell’addebito;
  • non viene accolto l’utilizzo del criterio equitativo di cumulo (ex 1226 c.c.), sia del danno patrimoniale che non patrimoniale nell’importo di euro, 3.000,00, rispetto a quello legale (presuntivo del duplum, invero, il criterio del c.d. “doppio tangentizio” era già utilizzato dalla giurisprudenza della Corte dei conti, in quanto da essa stessa creato, prima di essere espressamente codificato dal comma 62, dell’art. 1 della legge n. 190/2012), in relazione all’analisi del giudicato penale che definiva il valore dell’appropriazione in euro 2.500,00;
  • ne deriva un danno all’immagine determinato nella misura complessiva di euro 5.000,00, oltre interessi dalla data della sentenza;
  • la quantificazione non contrasta con l’avvenuta concomitante determinazione del danno non patrimoniale in sede penale (non vi è alcuna violazione del principio “ne bis in idem” sul presupposto che, per quanto i procedimenti possano essere accomunati da situazioni fattuali anche totalmente coincidenti, sono comunque diversi i beni della vita che si possono far valere e di cui se ne chiede tutela nell’una piuttosto che nell’altra giurisdizione), essendo autonoma la giurisdizione contabile, sia, a monte, quanto alla possibilità stessa di proporre l’azione erariale, sia, a valle, quanto alla diversa determinazione del suo ammontare rispetto a quanto ritenuto dal Giudice penale [5];
  • di contro, i limiti sono eventuali nell’improponibilità della domanda con riferimento al danno già completamente ristorato [6];
  • al termine il Collegio, rileva che l’equivalenza del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale nella valutazione effettuata dal Giudice penale, per l’operatività del criterio residuale di cui all’art. 1193 c.c., determina che i pagamenti medio termine intervenuti dovranno essere imputati per metà al danno patrimoniale e per la restante metà al danno non patrimoniale, dovendo, conseguentemente, essere detratti per l’ammontare corrispondente da quanto dovuto in forza della sentenza di condanna emessa davanti al Giudice contabile.

Aspetti del danno all’immagine

La sentenza annota che in tema di responsabilità erariale, la giurisdizione penale e la giurisdizione contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali anche quando investono un medesimo fatto materiale, ponendo l’eventuale interferenza tra i giudizi esclusivamente un problema di proponibilità dell’azione da far valere davanti alla Corte dei conti, senza dar luogo ad una questione di giurisdizione.

Ne consegue che non sussista alcuna incoerenza nei casi di avvenuto proscioglimento in sede penale e la sussistenza della responsabilità erariale in relazione alla medesima condotta, non integrando una questione esorbitante dai limiti interni alla giurisdizione del giudice contabile, coerente con il grado probatorio dell’elemento soggettivo doloso richiesto alla Procura erariale, retto dal canone del “più probabile che non” in ragione della natura prettamente patrimoniale a prevalente funzione risarcitoria – recuperatoria della responsabilità amministrativa, cui restano estranei i principi processualpenalistici.

A margine per radicare la giurisdizione contabile, non è necessario che il soggetto convenuto in giudizio, sia formalmente inserito nell’organizzazione dell’ente pubblico danneggiato [7], bensì che egli abbia con l’ente una relazione funzionale tale da consentirgli di partecipare, anche quale “extraneus”, allo sviamento delle risorse finanziarie dalle finalità di interesse pubblico, attraverso un comportamento di reiterata ingerenza, invasivo del processo decisionale amministrativo e della gestione dei fondi/beni pubblici, preordinato al perseguimento di un illecito lucro personale [8].

I fatti emersi esigono la massima attenzione nella “custodia” del patrimonio pubblico, avendo l’esigenza pratica di comprendere (il c.d. minimo etico) che la cura di vigilare sulla loro corretta manutenzione, non può estendersi sino all’appropriazione mediante dismissione, confondendo i termini della funzione esercitata dove la res publica va tutelata per lo scopo a cui è proiettata: un’utilità collettiva non privata, anche nell’ipotesi del venir meno della loro destinazione.

 

Note

[1] Vedi, LUCCA, L’infedeltà del pubblico dipendente: una perdita di valore pubblico e un danno erariale, LexItalia.it, 27 settembre 2023, ove si dibatte sulla spaventosa avidità che anima il cuore trafitto, dai classici ritenuto la sede dei sentimenti, un vulnus all’integrità pubblica (forza e tutela del whistleblower, ex comma 1, dell’art. 1 del d.lgs. n. 24/2023), una perdita certa dalle azioni virtuose, da altri definito valore pubblico.

[2] A seguito dell’intervenuta abrogazione ad opera del codice di giustizia contabile, il rinvio all’art. 7 della legge n. 97/2001 deve ora intendersi riferito all’art. 51, comma 7, c.g.c., che – in tema di notitia damni – richiama la comunicazione alle competenti Procure regionali della Corte dei conti delle sentenze irrevocabili di condanna pronunciate nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni per delitti commessi “a danno” delle stesse, ad avviso di un orientamento giurisprudenziale non è richiesta, come condizione imprescindibile per l’azione risarcitoria per danno all’immagine, la perpetrazione di uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, di cui al capo I, titolo II, libro secondo, c.p., essendo sufficiente la commissione di un delitto “a danno” della stessa amministrazione, così come indicato dall’art. 51, comma 7, c.g.c., ossia di qualsiasi reato, anche comune, purché foriero di procurare un danno per la P.A. (e non soltanto di quelli specificamente rubricati contro la PA), Corte conti, sez. giur. Veneto, 24 marzo 2023, n. 15.

[3] Corte conti, sez. III Appello, 30 dicembre 2020, n. 239.

[4] Corte conti, sez. giur. Calabria, 28 giugno 2023, n. 120.

[5] Cfr. Corte conti, sez. giur. Lombardia,9 novembre 2022, n. 254.

[6] Cfr. Cass. civ., SS.UU., 19 marzo 2020, n. 7457/2020; Corte conti, sez. I Sez. App., sentenza n. 466/2022.

[7] Cfr. Corte conti, sez. giur. Basilicata, 26 ottobre 2023, n. 64.

[8] Cass. civ., SS.UU., 24 gennaio 2023, n. 2189.

 


Fonte: articolo dell'Avv. Maurizio Lucca - Segretario Generale Enti Locali e Development Manager