Venerdì 7 febbraio è stata depositata la sentenza n. 10/2025, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità del referendum abrogativo sulla legge n. 86/2024.


L’esito della valutazione è stato che «l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari».

È interessante esaminare l’iter logico-argomentativo seguito dai giudici cominciando dalle questioni di carattere generale; sugli aspetti più specifici delle motivazioni tornerò con successivi approfondimenti.

Infondate le questioni finanziarie e della legge costituzionalmente necessaria

Ho sempre ritenuto infondate quelle tesi che sostenevano l’inammissibilità del referendum sulla Calderoli in quanto normativa collegata al bilancio o legge costituzionalmente necessaria. E neppure mi sembravano presenti i motivi generali d’inammissibilità dettati dall’art. 75 Cost.

Con la lettura della sentenza ne trovo piena conferma.

In premessa i giudici chiariscono subito «che non sussiste alcuna delle cause di inammissibilità indicate nell’art. 75, secondo comma, Cost., poiché l’oggetto del quesito non è riconducibile alle categorie di leggi ivi elencate, neppure in via di interpretazione logico-sistematica».

Poi, per quanto attiene alle questioni finanziarie, che «In particolare, non è ravvisabile il limite delle leggi tributarie» e che «La legge n. 86 del 2024 neppure può essere ricompresa nella categoria delle leggi di bilancio».

Medesimo diniego per la presunta necessarietà. Infatti, dopo aver ribadito la sua consolidata giurisprudenza con cui aveva precluso ai referendum l’abrogazione di leggi costituzionalmente necessarie od obbligatorie, la Corte afferma che «Nel caso in esame, va escluso che la legge n. 86 del 2024 sia costituzionalmente necessaria ai fini dell’attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost.».

La decisione scaturisce dalla sentenza n. 192 del 3 dicembre 2024

Per motivare la decisione, invece, i giudici ripartono proprio dagli effetti che la pronuncia n. 192/2024 ha determinato sulla norma Calderoli, dichiarando che «Infatti, l’impianto originario della legge n. 86 del 2024 è stato profondamente modificato dalla sentenza predetta, con interventi di tipo caducatorio, sostitutivo e additivo, nonché con decisioni interpretative di rigetto».

Tra l’altro, circostanza alquanto surreale, a rafforzare questa posizione è anche l’atto d’intervento ad opponendum depositato dalla Regione Veneto nel quale, per sostenere l’inammissibilità del referendum abrogativo, si «evidenzia che – in considerazione del “carattere profondamente demolitorio” della sentenza n. 192 del 2024 – il voto sul referendum in esame finirebbe per avere a oggetto disposizioni residue vigenti, ancorché inapplicabili, e “disposizioni non vigenti, che (eventualmente) verranno alla luce”, ma di cui allo stato sarebbe ignoto il contenuto».

Al netto della chiara strategia giudiziale, strappa qualche sorriso che ora persino i più convinti sostenitori del progetto autonomista debbano riconoscere quanto la sentenza dello scorso 3 dicembre ne abbia scardinato in sostanza il contenuto, lasciando sì la legge formalmente in vigore, ma rendendola assolutamente inapplicabile.

La Corte entra anche nello specifico di alcuni punti, citando come la suddetta pronuncia abbia inciso sul ridimensionamento dell’oggetto di qualsiasi possibile trasferimento (solo specifiche funzioni e non già materie), sull’attuale indeterminatezza per la definizione dei LEP, sulla questione delle materie non-lep, su quelle materie per cui il trasferimento di funzioni è stato ritenuto precluso o difficilmente giustificabile.

Sono parti importanti delle motivazioni, che chiariscono meglio l’iter logico-argomentativo seguito. Come anticipato, meriteranno un ulteriore approfondimento.

L’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari

Mi era già capitato di avvertire che il vero rischio per l’ammissibilità del quesito poteva stare nella disomogeneità, in quanto avrebbe potuto inficiare la chiarezza del testo sottoposto agli elettori. Un’incognita ulteriormente amplificata dal fatto che la chiamata alle urne si sarebbe dovuta svolgere non più sul testo originario che aveva determinato la raccolta delle firme per l’abrogazione, ma sulle spoglie di quello sopravvissuto alle censure della Corte.

Questo timore viene confermato nella parte del dispositivo in cui si afferma che «In definitiva, la sentenza n. 192 del 2024 ha eliminato gran parte del disposto normativo di cui alla legge n. 86 del 2024, incisa nella sua architettura essenziale, lasciando in vita un contenuto minimo. Tale contenuto è di difficile individuazione e ciò si riflette sulla comprensibilità del quesito da parte del corpo elettorale, oltreché sul fine ultimo, o ratio, della stessa richiesta referendaria».

Perciò, secondo i giudici, «risulta obiettivamente oscuro per l’elettore l’oggetto del quesito» e ribadendo la loro precedente giurisprudenza sul tema affermano che «L’elettore si verrebbe a trovare in una condizione di disorientamento, rispetto sia ai contenuti, sia agli effetti di quel che resta della legge n. 86 del 2024. Con la conseguenza che tale disorientamento impedirebbe l’espressione di un voto libero e consapevole, che la chiarezza e la semplicità del quesito mirano ad assicurare».

Si aggiunge, infine, che a causa delle predette censure già apportate dalla Corte sulla norma Calderoli, «Il quesito è inoltre privo di chiarezza quanto alla sua finalità», risultando quel che resta «obiettivamente oscuro per l’elettore».

Proprio da queste convinzioni i giudici della Consulta hanno ricavato i motivi d’inammissibilità del quesito, ritenendo che, nella situazione data, la consultazione popolare non sarebbe più stata sull’abrogazione della legge oggetto di richiesta referendaria, bensì trasferita idealmente su un pro o contra l’autonomia differenziata prevista dall’art. 116 Cost., terzo comma; che ovviamente non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo di revisione costituzionale.

Una conclusione che continuo a ritenere in parte discutibile, ma di cui non si può che prendere atto.