Dopo che la scorsa settimana è stata pubblicata la sentenza della Corte costituzionale n. 192/2024 sulla legge Calderoli, tutta l’attenzione si è spostata sulla fattibilità o meno del Referendum abrogativo precedentemente proposto su di essa.


I commenti rilasciati da autorevoli costituzionalisti lasciano intendere quanto sia difficile tracciare un quadro di certezze, poiché ci si muove entro limiti molto labili e con una giurisprudenza che negli anni è approdata a conclusioni differenti. Infatti, affiorano opinioni diametralmente opposte, tra chi ritiene che la pronuncia dei giudici abbia di fatto superato le motivazioni della consultazione popolare e chi, al contrario, che la maggior parte di queste siano rimaste attuali.

Per dirimere tali dubbi, la richiesta referendaria sarà sottoposta a un doppio controllo, della Corte di cassazione e poi ancora della Corte costituzionale.

La Corte di cassazione valuta la legittimità del quesito

Il primo passaggio si compirà presso la Cassazione, che dovrà verificare alcuni aspetti formali (come la validità delle firme), ma soprattutto vagliare la legittimità del quesito sottoposto a referendum, ossia se alla luce della sentenza della Consulta questo si possa ritenere superato o ancora valido sulla normativa residua.

Il riferimento è dato dalla sentenza n. 68/1978, dove la Corte costituzionale stabilisce che per tale determinazione vada innanzitutto valutato se vengano meno «i contenuti normativi essenziali» e «i princìpi ispiratori» della legge.

Il verdetto della Cassazione è atteso entro il 15 dicembre.

In coerenza con quanto sostenuto in precedenti articoli, continuo a ritenere indubbio che i giudici hanno demolito alcuni pilastri della legge Calderoli, rendendola nei fatti inattuabile per come era stata concepita.

Ricostruzione del corretto assetto costituzionale del regionalismo italiano, 14 censure di incostituzionalità, interpretazione complessiva del testo in maniera costituzionalmente orientata, fanno sì che siano stati scardinati i punti nodali di un testo che, pur restando formalmente in vigore, così come rimaneggiato risulta assolutamente inapplicabile.

Detto ciò, però, si prende atto che la Consulta non ha dichiarato l’incostituzionalità dell’intera legge. Essa, pertanto, rimane in vita e, se modificata, potrebbe tornare a produrre degli effetti.

Non solo, a testimonianza del fatto che si voglia proseguire al conseguimento di determinati obiettivi politici, il ministro Calderoli sta portando avanti i tavoli di concertazione con le Regioni interessate all’attribuzione delle 9 materie non-lep. Inoltre, rappresenta notizia di ieri che nel decreto Milleproroghe approvato dal Consiglio dei ministri è stato inserito un articolo diretto a sanare il lavoro del Comitato LEP presieduto da Cassese, uscito piuttosto depotenziato dalla sentenza della Corte.

Proprio alla luce di ciò, pur ribadita l’impossibilità di avanzare certezze sull’esito delle decisioni, non credo che il referendum possa aver perso il suo oggetto principale, cioè l’abrogazione totale della legge.

Tra l’altro, ho sempre ritenuto che la consultazione popolare prevista dall’art. 75 Cost. risponda a un interesse politico, espressione diretta di quella sovranità popolare sancita dall’art. 1 della Costituzione.

Con i referendum, i cittadini sono chiamati a pronunciarsi «sul disegno complessivo» di una legge, che è una prerogativa del tutto distinta dal giudizio sui profili di legittimità costituzionale che spettano alla Corte.

Al popolo è affidato una sorta di contropotere legislativo rispetto alla funzione esercitata dal Parlamento ai sensi dell’art. 70 Cost.

E non trovo motivazioni così forti da dover indurre i giudici a limitare questo diritto fondamentale garantito dalla nostra Carta.

La Corte costituzionale valuta l’ammissibilità del quesito

Se la Cassazione desse semaforo verde alla legittimità del quesito, la palla passerebbe di nuovo alla Corte costituzionale che, invece, dovrà valutare se i quesiti proposti siano ammissibili ai sensi dell’art. 75 Cost., ovvero se rientrino tra i casi per cui il referendum è esplicitamente escluso.

Le principali obiezioni che risultano avanzate dai sostenitori dell’inammissibilità sono due:

  • necessarietà della legge
  • e normativa collegata al bilancio.

Premessa anche qui la difficoltà di enunciare certezze, data la diversa e articolata giurisprudenza in casi simili, considero entrambe le obiezioni alquanto deboli. Ne ho parlato in maniera più approfondita in uno specifico articolo; pertanto, qui rimane sufficiente riassumerne gli aspetti principali.

La legge n. 86 del 26 giugno 2024 è una regolamentazione procedurale voluta dal legislatore, non obbligatoria e non richiesta dalla Costituzione per l’attuazione dell’art. 116 terzo comma, che è auto-applicativo. Rappresenta solo una delle molteplici modalità con cui si sarebbe potuto procedere (come dimostrano il tentativo delle pre-intese del 2018 e quelli di governi successivi, fatti senza alcuna norma attuativa).

Tantomeno la sua abrogazione produrrebbe un grave vuoto legislativo per l’assetto costituzionale dei poteri dello Stato. Dalla Riforma del Titolo V del 2001 risultano passati 23 anni e non pare che la mancata realizzazione dell’autonomia differenziata abbia causato nulla di ciò.

Ancora più improbabile la pretesa immunità all’abrogazione in quanto legge di bilancio.

Di fatto non lo è in senso stretto, e neppure gli astuti collegamenti alla Finanziaria 2023 predisposti nel testo approvato potrebbero farla configurare come tale, dal momento che nello stesso articolato più volte si ribadisce l’invarianza finanziaria, nonché l’assenza di nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Una consolidata giurisprudenza della Corte ha sempre tenuto ad evidenziare come questa connessione debba rispondere a determinati requisiti oggettivi e operare al di là della qualificazione formale.

Altrimenti basterebbe includere un qualunque testo di legge tra i collegati alla finanziaria per impedire il Referendum su di esso.

Semmai un altro profilo risulta più problematico, la cosiddetta disomogeneità del quesito.

La normativa, infatti, contiene argomenti così diversi tra loro (iter parlamentari, rapporti tra organi dello Stato, provvedimenti finanziari, istituzione di organismi di controllo, ecc.) che potrebbero indurre i giudici della Consulta a ravvisare una disomogeneità della stessa, tale da ledere l’effettiva espressione della libertà di voto in quanto non sia distinguibile una matrice razionalmente unitaria delle norme sottoposte alla richiesta di abrogazione.

Ma qui il problema sarebbe il contenuto della legge, perché all’opposto il quesito risulta chiaro, univoco ed omogeneo, come richiede la giurisprudenza costituzionale: «Volete Voi che sia abrogata la legge 26 giugno 2024, n. 86, “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”?».

Il verdetto della Corte costituzionale sull’ammissibilità del quesito è atteso entro il 20 gennaio.