Da Furla ad Artsana, da Tonno Asdomar a Beghelli: sono alcune della aziende che hanno deciso di rilocalizzare nel nostro Paese. Per vari motivi: aumento del costo dei trasporti e della manodopera estera, ma anche forza del marchio made in Italy, sempre più sinonimo di qualità e di garanzia.
Il nostro Paese diventa sempre più allettante per le aziende che decidono di rimpatriare dopo aver tentato di delocalizzare le loro produzioni all’estero, abbandonando quelli che fino a poco fa erano considerati come “paradisi”, quali Cina, Corea, Romania, Repubblica Ceca. Da una parte l’aumento del costo dei trasporti e della manodopera estera, dall’altra esigenze di “time to market” e flessibilità produttiva, incentivano un esodo al contrario di molte imprese italiane. Il volume non è ancora significativo come quello statunitense – meno di 100 aziende – ma si registra una tendenza destinata a crescere. Il fattore determinante sembra essere la forza del marchio “made in Italy”, sempre più sinonimo di qualità e di garanzia, non soltanto nel nostro Paese ma anche nei mercati internazionali.
“Ecco perché le aziende tornano a produrre in Italia”
Per questo motivo in tanti aspettano con ansia l’approvazione in sede europea dell’articolo 7 del regolamento comunitario sulla sicurezza dei prodotti destinati ai consumatori, che introdurrebbe l’obbligo d’indicare l’origine per tutte le merci commercializzate in Unione europea, non soltanto per il food. Dopo il via libera del Parlamento europeo, lo scorso aprile, da mesi il provvedimento è fermo al Consiglio per la contrarietà dei paesi del Nord, guidati da Berlino. Sarebbe un’ulteriore garanzia per il made in Italy e per tutti i prodotti realizzati interamente nel nostro Paese.
Del back reshoring (come si chiama in gergo la rilocalizzazione) ci siamo occupati tempo fa, individuando 10 aziende campione che hanno deciso di riportare in Italia le loro produzioni. Negli ultimi giorni, anche l’Espresso è tornato sull’argomento, titolando “Torna a casa azienda: ecco chi riporta la produzione in Italia”. Aggiungiamo alla lista un’altra decina di imprese che hanno delocalizzato al contrario.
“Non solo moda, anche l’industria elettronica torna a produrre in Italia”
Tonno Asdomar. La società produttrice di tonno in scatola, parte della genovese Generale Conserve che detiene anche il marchio di Manzotin e De Rica, ha trasferito tutta la produzione a Olbia, in Sardegna, nell’ex stabilimento del Tonno Palmera. Nel 2008, ha acquisito impianti e macchinari di Palmera, chiusa per cessata attività, ha assunto parte del personale in cassa integrazione, ha investito 25 milioni di euro per costruire un nuovo stabilimento accanto a quello rilevato. In Portogallo è rimasta la produzione di sgombri, salmone ed altre specialità ittiche.
Argo Tractors. Uno dei leader europei di macchine agricole, con un fatturato di 500 milioni di euro, ha deciso di concentrare tutte le lavorazioni a Fabbrico, Reggio Emilia. In passato le trasmissioni dei trattori a marchio McCormick venivano realizzate in Francia, mentre l’assemblaggio era fatto in Inghilterra. La scelta di ritornare in patria ha pagato, dato che i dipendenti sono passati da 1600 a 1650.
GPP (Global Garden Products). L’azienda che produce tosaerba, di Castelfranco Veneto (Treviso), con un fatturato di 450 milioni di euro, aveva puntato sulla delocalizzazione, aprendo impianti prima in Slovacchia e in Cina, e poi spostandosi in Svezia, dopo l’acquisizione della svedese Stiga. Negli ultimi due anni, c’è stata la marcia indietro, concentrando ricerca e progettazione in Italia. Negli ultimi 18 mesi di ristrutturazione aziendale, sono state assunte una trentina di persone, tra ingegneri, tecnici ed esperti di marketing.
Felm. L’azienda della famiglia Colombo, produttrice di motori elettrici, con un fatturato di circa 20 milioni di euro, ha sede a Inveruno (Milano). È stata tra le prime a scommettere sulla produzione cinese, trent’anni fa, e tra le prime a decidere di tornare in Italia e concentrarsi sulla qualità made in Italy. La personalizzazione di motori speciali ad alta potenza, core business di Felm, richiede progettazione e controlli di alta qualità. “Abbiamo riportato in Italia la produzione di macchine speciali – spiega all’Espresso Alessandro Alberti, capo della produzione – che sono difficili da far fare all’estero. Gestire tutto dai nostri uffici, con un controllo di qualità interno ci permette di essere puntuali con i nostri clienti, di non avere tempi di attesa legati ai trasporti”.
Seventy. L’azienda di moda fondata nel 1974 da Sergio Tegon, che ancora oggi è al timone insieme con i suoi tre figli, ha concentrato gran parte della produzione di abbigliamento vicino Venezia.
GTA Moda. Da oltre 50 anni produttrice di pantaloni classici e sportivi, l’azienda è stata acquisita dalla leadership collettiva di Venetwork, il cui socio di maggioranza è Alberto Baban. Tra gli azionisti anche Pierangelo Bressan (calzature da montagna Garmont), Tiziano Busin (Zhermack, attrezzature odontotecniche), Massimo De Nardo (presidente Venetronic) e l’ex presidente Eni, Paolo Scaroni, mentre il 30 per cento della società è ancora dei fratelli Renzo e Giorgio Tognolo, fondatori della Gta. Nella ridefinizione del futuro dell’azienda, il primo passo è stato il trasferimento della manifattura dalla Romania all’Italia della manifattura. «Il made in Italy è globalmente riconosciuto proprio per la grande capacità manifatturiera – ha detto in un’intervista Baban – noi ci concentreremo sul prodotto, la sua artigianalità e lanceremo un progetto eticamente valido».
Artsana. È l’azienda che sta dietro molti prodotti per bambini e non, come gli accessori Chicco, l’abbigliamento Prénatal, le siringhe Pic, i preservativi Control e i deodoranti Lycia, fondata nel 1946 dal Cavaliere del lavoro, Pietro Catelli. Nonostante i ricavi pari a 1,2 miliardi di euro, il passaggio generazionale è gravato sui bilanci. Per l’amministratore delegato, Claudio De Conto, la ricetta per superare la crisi è intensificare la produzione italiana, tralasciando quella indiana, cinese e coreana, e puntare su ricerca e qualità.
Beghelli. Società con 32 anni di esperienza nel campo dell’illuminazione di emergenza, a risparmio energetico e in quello dei sistemi elettronici per la sicurezza domestica e industriale, ha concentrato a Bologna la sua produzione. Nel 2013, per far fronte alla crisi economica il management ha deciso di ritornare in Emilia Romagna, disinvestendo in Cina e Repubblica Ceca. «La nostra è un’azienda italiana, io sono italiano e sono orgoglioso di esserlo — spiega il fondatore della società Gian Pietro Beghelli al Corriere di Bologna —. Faremo tutto il possibile e anche l’impossibile per aiutare i dipendenti che in questi anni ci hanno consentito di crescere”.
Furla. Il marchio di pelletteria made in Bologna è stato fondato nel lontano 1927 da Aldo e Margherita Furlanetto. Rispetto al 2011, l’amministratore delegato, Eraldo Poletto, ha dichiarato di produrre 300 mila borse in più in Italia. «L’Italia non è mai sparita – aggiunge – parlare di reshoring oggi è forse un fatto di modernità».
Borile Moto. Caso atipico di back reshoring per l’azienda produttrice di motociclette che ha spostato il suo quartier generale soltanto da una regione all’altra, ovvero da Padova a Cinisello Balsamo (Milano). Fautrice di questa riorganizzazione aziendale è la famiglia Bassi, entrata nel 2012 nella società. “Le moto di questa azienda sono uniche, tutte di altissima qualità – spiega Alberto Bassi, amministratore delegato della Umberto Borile & Co. – e la decisione di spostare la produzione a Cinisello finalmente ci darà quella spinta produttiva che restando a Padova non avremmo avuto per ragioni logistiche: dobbiamo essere vicini a Milano per esportare con più facilità”. Anziché puntare sulla manodopera a basso costo per traghettare la crescita, hanno preferito valorizzare la genialità e la creatività degli artigiani italiani.
FONTE: Economy UP (www.economyup.it)
AUTORE: Annalisa Lospinuso