terzo-mandato-consecutivo-sindaciNell’approfondimento odierno Fabio Ascenzi ci guida all’interno di un argomento molto attuale: l’evoluzione storica delle leggi per l’elezione dei sindaci e dei consigli comunali.


Tra pochi giorni si svolgeranno le elezioni amministrative in molti comuni; centinaia di sindaci e migliaia di consiglieri comunali verranno scelti attraverso il cosiddetto voto diretto. Ai più potrebbe sembrare scontato, ma è bene ricordare che non è stato sempre così.

Non fosse altro che per ragioni anagrafiche, gli appartenenti alle generazioni Baby boomers, Generazione X e una parte dei Millennials qualche vago ricordo del precedente metodo elettorale lo potrebbero conservare; mentre i giovani elettori della Generazione Z probabilmente no, considerato che anche chi di loro abbia già votato lo ha sicuramente fatto con il sistema in vigore dal 1993.

Evoluzione storica delle leggi per l’elezione dei sindaci e dei consigli comunali

Ma quale è stata, allora, l’evoluzione storica del metodo elettorale nei comuni? Limitando la ricostruzione alla sola epoca repubblicana, va innanzitutto ricordato come dopo la caduta del fascismo, che aveva soppresso gli organi democraticamente eletti, l’amministrazione dei comuni fu temporaneamente affidata a un sindaco ed a una giunta nominati dai Prefetti (Regio decreto legge 4 aprile 1944, n. 111).

Dal dopoguerra fino agli anni ’90

Le libere elezioni per gli enti locali vennero ripristinate con il Disegno di legge 7 gennaio 1946, n. 1: il consiglio comunale veniva riconosciuto come organo di rappresentanza diretta di tutti i cittadini, e ad esso spettava di eleggere tra i suoi componenti il sindaco e la giunta comunale. Pertanto, al netto di crisi, il consiglio rimaneva in carica cinque anni, ma durante questo periodo potevano essere eletti anche diversi sindaci, senza che questo ne comportasse lo scioglimento.

Negli anni seguenti ci sono state diverse normative che hanno modificato alcuni aspetti relativi alle modalità di elezione nei comuni, mentre è sempre rimasta invariata la modalità individuata per l’elezione del sindaco, scelto comunque dal consiglio.

La crisi e la rivoluzione degli anni ’90

Si arrivò così fino al 1993, quando con la legge n. 81 del 25 marzo venne introdotta l’Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale. Per comprendere le ragioni di questa rivoluzione epocale non si può prescindere da un inquadramento del contesto storico-politico in cui avvenne.

Già agli inizi degli anni ‘90 del Novecento, infatti, il sistema politico e i partiti che avevano gestito ininterrottamente la nascita e lo sviluppo della Repubblica si trovavano a fare i conti con le prime avvisaglie di una crisi profonda, che si rivelò poi inarrestabile.

Nell’ambito delle forze di governo la lotta intestina tra le varie correnti, con i processi degenerativi in atto al loro interno, non riusciva più a garantire quella stabilità che nei precedenti decenni ne aveva fatto la fortuna elettorale. Il Partito Comunista Italiano, maggiore forza di opposizione, si trovava invece a fare i conti con una crisi identitaria causata dalla disintegrazione della galassia ideologica di riferimento agganciata all’Unione Sovietica, simbolicamente rappresentabile dal crollo del Muro di Berlino (1989), ma con ragioni ben più profonde e conseguenze esiziali per un intero sistema, sino ad allora regolato sulla divisione dei blocchi costituiti da U.S.A. e U.R.S.S., scompaginato dai nuovi equilibri internazionali che si andavano delineando.

A dare il colpo di grazia definitivo arrivò la stagione delle inchieste giudiziarie di Tangentopoli, che iniziate nel 1992 in pochi mesi spazzarono via un’intera classe dirigente, soprattutto dei partiti di governo. Dalla somma di queste situazioni, e di altre collaterali, si andò generando una crisi di rappresentanza politica che aprì un solco tra cittadini e gruppi dirigenti, accomunati indistintamente da un unico giudizio negativo. Il quadro politico che aveva determinato, nel bene e nel male, le sorti della cosiddetta Prima Repubblica non esisteva più. Era entrata in crisi la stessa concezione del partito di massa, che sino ad allora aveva rappresentato il principale modello di riferimento. Una siffatta palingenesi totale del sistema partitico italiano generò una rinascita basata sulla compresenza di una pluralità di modelli, che avevano comunque il denominatore comune nell’essere caratterizzati come partiti del leader o partiti fortemente personalizzati.

La stagione dei referendum

In questo clima si aprì la stagione dei referendum che, tra il 1991 e il 1993, spinse il popolo italiano a riversare in essi tutto l’astio maturato nei confronti del sistema politico agonizzante, ma nello stesso tempo pure la speranza che dagli stessi potesse scaturire un cambiamento totale nel rapporto politica-cittadini.

La causa della degenerazione subita dai partiti storici veniva attribuita anche al sistema elettorale proporzionale puro che, rimasto immutato dalle leggi del 1948, era oramai mortificato e identificato come responsabile principale dei fenomeni corruttivi e della cosiddetta partitocrazia.

I diversi quesiti, pertanto, riguardarono innanzitutto un ridisegno complessivo dei metodi elettorali utilizzati in Italia. Il primo referendum si svolse il 9 giugno 1991 e con la vittoria dei venne introdotta la preferenza unica per l’elezione dei membri della Camera dei deputati. In ultimo si celebrò quello per la modifica della legge elettorale del Senato, che con la vittoria del decretò l’abolizione del sistema elettorale proporzionale a vantaggio di uno prevalentemente maggioritario.

Degli effetti di quelle decisioni è rimasto ben poco, essendo negli anni le diverse leggi elettorali cambiate più volte e in modo alterno. Ma è importante ricordarle perché rimane emblematico sottolineare come attraverso quei processi si stava aprendo una nuova epoca, dove il tentativo di ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e politica, indebolito il ruolo dei partiti, veniva affidato a un sistema teso a valorizzare un rapporto fiduciario diretto, attraverso cui, appunto, i cittadini potevano scegliere direttamente i propri rappresentanti.

Il sistema maggioritario

Con lo svolgersi di quella stagione referendaria la strada intrapresa era oramai chiara. Il sistema elettorale maggioritario fu assunto quale modello di stabilità e il mito del rapporto diretto elettori-eletti venne cristallizzato proprio nella legge n. 81 del 1993, con l’elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia.

Visto l’innegabile consenso che questa rivoluzione ebbe soprattutto nella fase iniziale, ebbe una forte influenza anche nell’approccio alle riforme successive. Si pensi ad esempio all’elezione diretta del Presidente delle Regioni introdotta con la legge costituzionale n. 1 del 1999, oramai nel linguaggio comune, ma inappropriato, appellato nientemeno che come Governatore, quasi a volerne enfatizzare l’adesione al mito dell’efficienza conseguibile solo attraverso la concentrazione monocratica del potere nel rappresentante eletto direttamente dal popolo.

Insomma, sembrava quasi che nella ricerca della formula idonea a ricucire lo strappo politica-cittadini non si potesse fare a meno di mescolare i due elementi dell’investitura popolare diretta e del maggioritario, considerato in quel momento l’unico sistema elettorale che riuscisse a garantire efficienza e stabilità.

La storia dei successivi decenni ci dirà che non fu proprio così, ma intanto il sindaco eletto direttamente dai cittadini divenne la figura centrale dell’ente comunale, chiamato a svolgere una pluralità di funzioni come vertice dell’amministrazione locale e ufficiale di governo; attribuzioni sempre più numerose, fino alle attuali previsioni del Testo Unico degli Enti Locali (T.U.E.L.), approvato con Decreto legislativo n. 267 del 2000.

Uno sbilanciamento dei rapporti?

È opinione diffusa che a seguito della riforma del 1993 vi sia stato uno sbilanciamento nei rapporti tra i diversi organi comunali, determinato principalmente da un evidente eccesso di concentrazione di potere sulla figura monocratica posta al vertice dell’Amministrazione. Il Primo cittadino, ad esempio, non è più sostituibile dal consiglio al suo interno, vigendo la cosiddetta clausola del simul stabunt aut simul cadent (ovvero insieme staranno o insieme cadranno). Quindi in caso di sfiducia o dimissioni del sindaco decade anche l’intero consiglio comunale. Per non parlare poi del suo potere decisionale, senza dubbio aumentato rispetto a quello dell’assemblea.

Nei comuni, e ancor più nelle Regioni, si è infatti adottato un sistema che sembrerebbe sostanzialmente presidenziale, ma dove risulta evidente l’assenza dei diversi contrappesi che in sistemi similari sono sempre previsti. Le formule elettorali adottate, con la previsione dell’elezione contestuale del sindaco (o del Presidente) e del Consiglio fanno venire meno anche un altro degli importanti presupposti su cui si basa il riequilibrio tra poteri e organi in questi sistemi, e cioè il disallineamento delle rispettive elezioni (si pensi alle elezioni midterm statunitensi).

In ogni modo, questa enfasi alimentò il fascino dell’autorità monocratica eletta direttamente dal popolo. Fu l’inizio di un nuovo approccio alle riforme dello Stato che, partendo dal sistema elettorale adottato per i comuni, si spinse fino a ipotizzare l’idea del Sindaco d’Italia nella ricerca di formule elettorali che potessero funzionare anche a livello nazionale. Suggestioni simili a quelle che oggi, seppure con presupposti e soluzioni molto diverse, avanzano ancora oltre, proponendo un progetto di riforma costituzionale per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri.

Una riflessione conclusiva sulla riforma del 1993 a più di 30 anni di distanza

Dopo 30 anni di esercizio, non v’è dubbio che la riforma del 1993 possa ricevere un giudizio positivo rispetto all’obiettivo di una maggiore stabilità delle amministrazioni; ma nello stesso tempo non può essere sottaciuto come essa stessa abbia favorito la tendenza verso la verticalizzazione del potere, con l’affermazione di un modello che ha visto un’assoluta prevalenza della figura monocratica posta al vertice dell’amministrazione a forte discapito delle assemblee, riducendo spesso questi organi di rappresentanza popolare a meri soggetti ratificatori.

Una conseguenza che seppure si volesse ritenere sopportabile a fronte dei vantaggi per quanto successo nelle amministrazioni locali (sic!), ha già mostrato di produrre ben più gravi storture nelle Regioni, enti con potere legislativo e gestori di ingenti risorse. Da qui sorgono dubbi e preoccupazioni sul tentativo di esportarla come modello per l’elezione diretta del vertice di Governo nazionale, imprimendo così non solo un’ulteriore torsione monocratica della rappresentanza, ma (considerato il livello) potendo produrre anche forti rischi per la tenuta dell’equilibrio tra poteri dettato dalla nostra Costituzione.


Fonte: articolo di Fabio Ascenzi