Con una recente Sentenza la Corte Costituzionale dichiara illegittima la legge della Regione Veneto sul controllo di vicinato.
Con un ricorso notificato l’8-11 ottobre 2019 e depositato il 15 ottobre 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità), assumendone complessivamente il contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettere g) e h), e 118, terzo comma, della Costituzione.
La legge della Regione Veneto
L’art. 1 della legge impugnata impegna la Regione a stimolare la collaborazione fra amministrazioni statali, istituzioni locali e società civile
«al fine di sostenere processi di partecipazione alle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza urbana ed integrata, di incrementare i livelli di consapevolezza dei cittadini circa le problematiche del territorio e di favorire la coesione sociale e solidale».
Tali finalità vengono perseguite dalla legge regionale in questione mediante il riconoscimento e il sostegno del «controllo di vicinato», definito dal comma 2 dell’art. 2 come
«quella forma di cittadinanza attiva che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana ed integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto e monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio»,
precisandosi altresì che
«[n]on costituisce comunque oggetto dell’azione di controllo di vicinato l’assunzione di iniziative di intervento per la repressione di reati o di altre condotte a vario titolo sanzionabili, nonché la definizione di iniziative a qualsivoglia titolo incidenti sulla riservatezza delle persone».
Il successivo comma 3 dell’art. 2 precisa che
«[i]l controllo di vicinato si attua attraverso una collaborazione tra Enti locali, Forze dell’Ordine, Polizia Locale e con l’organizzazione di gruppi di soggetti residenti nello stesso quartiere o in zone contigue o ivi esercenti attività economiche, che, in conformità alla presente legge, integrano l’azione dell’amministrazione locale di appartenenza per il miglioramento della vivibilità del territorio e dei livelli di coesione ed inclusione sociale e territoriale»,
mentre il comma 4 attribuisce alla Giunta regionale il compito di promuovere
«la stipula di accordi o protocolli di intesa per il controllo di vicinato con gli Uffici Territoriali di Governo da parte degli enti locali in materia di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica, nei quali vengono definite e regolate le funzioni svolte da soggetti giuridici aventi quale propria finalità principale il controllo di vicinato, secondo la definizione di cui alla presente legge. Ove ricorrano le condizioni, viene sostenuto il coinvolgimento dei soggetti giuridici di cui al presente comma, nelle forme previste nei Patti per la Sicurezza Urbana»,
di cui al decreto-legge 20 febbraio 2017 n. 14, convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017 n. 48.
La Corte Costituzionale dichiara illegittimo il controllo di vicinato
I giudici della Corte, accogliendo il ricorso affermano che l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. sancisce l’esclusiva competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; mentre l’art. 118, terzo comma, Cost. riserva alla legge statale la disciplina delle forme di coordinamento fra Stato e Regioni in questa materia.
Il thema decidendum consiste dunque nel determinare se, come ritiene la difesa statale, la legge regionale impugnata incida effettivamente sulla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza; e se, in caso affermativo, essa sia riconducibile a forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza già contemplate da una disciplina statale adottata ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost.
La recente sentenza n. 285 del 2019 ha ricapitolato la giurisprudenza della stessa Corte relativa alla nozione di ordine pubblico e sicurezza, approdando a esiti che meritano in questa sede di essere integralmente confermati.
Tutelare integrità e sicurezza delle persone
L’endiadi contenuta nella lettera h) dell’art. 117, secondo comma, Cost. allude al complesso di
«funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali, quali l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume primaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento» (sentenza n. 290 del 2001).
Tali funzioni, ha osservato questa Corte nella sentenza n. 285 del 2019, costituiscono una «materia in senso proprio, e cioè […] una materia oggettivamente delimitata», rispetto alla quale la prevenzione e repressione dei reati costituisce uno dei nuclei essenziali; materia che, peraltro, «non esclude l’intervento regionale in settori ad essa liminari», dovendosi in proposito distinguere tra un «nucleo duro della sicurezza di esclusiva competenza statale», definibile quale «sicurezza in “senso stretto” (o sicurezza primaria)», e una «sicurezza “in senso lato” (o sicurezza secondaria), capace di ricomprendere un fascio di funzioni intrecciate, corrispondenti a plurime e diversificate competenze di spettanza anche regionale».
Conseguentemente,
«[a]lle Regioni è […] consentito realizzare una serie di azioni volte a migliorare le condizioni di vivibilità dei rispettivi territori, nell’ambito di competenze ad esse assegnate in via residuale o concorrente, come, ad esempio, le politiche (e i servizi) sociali, la polizia locale, l’assistenza sanitaria, il governo del territorio»
(ancora, sentenza n. 285 del 2019), rientranti per l’appunto nel genus della “sicurezza secondaria”.
Le recenti pronunce
In coerente applicazione di questi principi, recenti pronunce hanno ad esempio ritenuto costituzionalmente legittime normative regionali che promuovono
«azioni coordinate tra istituzioni, soggetti non profit, associazioni, istituzioni scolastiche e formative per favorire la cooperazione attiva tra la categoria professionale degli interpreti e traduttori e le forze di polizia locale ed altri organismi, allo scopo di intensificare l’attività di prevenzione nei confronti dei soggetti ritenuti vicini al mondo dell’estremismo e della radicalizzazione attribuibili a qualsiasi organizzazione terroristica»
(sentenza n. 208 del 2018), che mirano a contrastare il cyberbullismo attraverso programmi di promozione culturale e finanziamenti regionali nell’ambito dell’educazione scolastica (sentenza n. 116 del 2019), o ancora ad istituire osservatori sulla legalità, con compiti consultivi e funzioni di studio, ricerca e diffusione delle conoscenze sul territorio, nonché a promuovere e sostenere la stipula di “protocolli di legalità” tra prefetture e amministrazioni aggiudicatrici per potenziare gli strumenti di prevenzione e contrasto dei fenomeni corruttivi e delle infiltrazioni mafiose (sentenza n. 177 del 2020).
Normative regionali costituzionalmente illegittime
Sono state invece dichiarate costituzionalmente illegittime normative regionali suscettibili di produrre interferenze, anche solo potenziali, nell’azione di prevenzione e repressione dei reati in senso stretto, considerata attinente al nucleo della “sicurezza primaria” di esclusiva competenza statale (si vedano, ad esempio, la già citata sentenza n. 177 del 2020, che ha annullato una disposizione regionale istitutiva di una banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, in ragione della sua interferenza con i compiti della Banca dati nazionale unica per la documentazione antimafia; la sentenza n. 35 del 2012, relativa a una normativa regionale in materia di tracciabilità dei flussi finanziari per prevenire infiltrazioni criminali; la sentenza n. 325 del 2011, relativa a una legge regionale che istituiva un’agenzia avente compiti sostanzialmente sovrapponibili a quelli dell’Agenzia statale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata).
Deve essere infine segnalato che lo stesso legislatore statale – con il decreto-legge 20 febbraio 2017 n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48 – ha dettato, in attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., un’articolata disciplina volta a coordinare l’intervento dello Stato e delle Autonomie territoriali nella materia della “sicurezza integrata”, da intendersi come «l’insieme degli interventi assicurati dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali, nonché da altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali» (art. 1, comma 2, d.l. n. 14 del 2017).
«Nel disegno del legislatore statale» – come rileva ancora la più volte menzionata sentenza n. 285 del 2019 – «l’intervento regionale dovrebbe assicurare le precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico, per migliorare il contesto sociale e territoriale di riferimento, postulando l’intervento dello Stato in relazione a situazioni non altrimenti correggibili se non tramite l’esercizio dei tradizionali poteri coercitivi».
Le motivazioni finali dell’impugnazione della legge
La legge regionale impugnata mira essenzialmente a promuovere la «funzione sociale del controllo di vicinato come strumento di prevenzione finalizzato al miglioramento della qualità di vita dei cittadini» (art. 2, comma 1), favorendo altresì la stipula di accordi o protocolli di intesa in materia tra gli uffici territoriali di governo e le amministrazioni locali (art. 2, comma 4), sostenendone in vario modo l’attività (artt. 3 e 4), e istituendo una banca dati per il monitoraggio dei relativi risultati (art. 5).
Tutto questo complesso di interventi ruota attorno alla nozione di «controllo di vicinato», definita dall’art. 2, comma 2, come
«quella forma di cittadinanza attiva che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana ed integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto e monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio. Non costituisce comunque oggetto dell’azione di controllo di vicinato l’assunzione di iniziative di intervento per la repressione di reati o di altre condotte a vario titolo sanzionabili, nonché la definizione di iniziative a qualsivoglia titolo incidenti sulla riservatezza delle persone».
Conclusioni
Ritiene la Corte che – nonostante l’esplicita esclusione dai compiti del controllo di vicinato della possibilità di intraprendere iniziative per la «repressione di reati» o comunque incidenti sulla riservatezza delle persone – l’espressa menzione, nella disposizione appena citata, della «attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», lungi dall’alludere a mere «precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico» (sentenza n. 285 del 2019) riconducibili alla nozione di “sicurezza secondaria”, non possa che riferirsi alla specifica finalità di “prevenzione dei reati”, da attuarsi mediante il classico strumento del controllo del territorio.
Tale finalità costituisce il nucleo centrale della funzione di pubblica sicurezza, certamente riconducibile – assieme alla funzione di “repressione dei reati” – al concetto di “sicurezza in senso stretto” o “sicurezza primaria”, di esclusiva competenza statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.
Il testo della Sentenza
A questo link il testo completo della Sentenza.
Fonte: articolo di Santo Fabiano