Una riflessione a cura di Fabio Ascenzi a seguito della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale che definisce i confini invalicabili della Legge Calderoli sull’autonomia differenziata.


Dopo alcune settimane di febbrile attesa, il 3 dicembre è stata depositata la sentenza n. 192/2024, con cui la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità avanzate dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania nei confronti della legge sull’autonomia differenziata.

Qui trovate il testo della sentenza e le motivazioni.

Così come dopo le anticipazioni del comunicato diffuso nei giorni scorsi, anche in questo caso i commenti sono stati agli antipodi, con i sostenitori della norma a evidenziare i punti di ricorso non accolti e gli oppositori quelli che hanno risposto positivamente alle obiezioni avanzate.

I confini invalicabili per l’autonomia differenziata

Da una prima lettura trovo confermate alcune riflessioni già pubblicate in precedenti articoli; pertanto, al di là delle legittime opinioni di parte, ritengo più esiziale la qualità delle censure che la Corte ha segnato sul testo del ministro Calderoli, piuttosto che la quantità dei punti dichiarati non fondati o inammissibili.

Le principali censure della Corte

In massima sintesi, la pronuncia ha ribadito: il principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni; le risorse destinate alle funzioni trasferite non possono essere individuate sulla base della spesa storica, bensì su costi, fabbisogni standard e criteri di efficienza; la definizione dei LEP spetta al Parlamento e non al Governo; non possono essere trasferite intere materie, ma solo funzioni specifiche, che dovranno essere motivate e sottoposte a un controllo rigoroso della Corte; non sono trasferibili alcune materie che richiedono una gestione unitaria per assicurare gli stessi standard a tutti i cittadini o sottoposte a regolamentazione dell’UE (scuola, energia, ambiente, commercio estero, comunicazioni e grandi reti di trasporto, ecc.); la legge contenente l’Intesa è emendabile dal Parlamento.

A questi si debbono aggiungere ulteriori articoli o commi dichiarati incostituzionali, direttamente o in via conseguenziale; oltre a tutte quelle riserve di interpretazione con cui la Corte ha salvato alcune parti della norma, ma a condizione che si  interpretino nelle modalità indicate dalla sentenza.

Ci sarà tempo per entrare nello specifico, ma nell’immediato preferisco analizzare quegli aspetti che da studioso attendevo con maggiore interesse, avendo inteso dai contenuti anticipati nel comunicato che la Corte, attraverso interpretazioni costituzionalmente orientate, poteva aver definito anche delle modalità univoche di applicazione per l’art. 116 Cost., terzo comma; svolgendo così anche per questo articolo quell’attività che nei decenni precedenti aveva portato i giudici della Consulta ad effettuare, di sentenza in sentenza, una vera e propria riscrittura del Titolo V riformato nel 2001 (ex multis, la pietra miliare rappresentata dalla sent. n. 303/2003).

Definite le modalità univoche per l’applicazione dell’art. 116 Cost., terzo comma

E così è stato! La Corte, infatti, ha dedicato tutta la prima parte delle motivazioni a una vera e propria ricostruzione del corretto assetto costituzionale del regionalismo italiano. In particolare, si è fornita una sorta di interpretazione autentica della nozione di differenziazione, affermando innanzitutto che la disposizione dettata dall’art. 116 Cost., terzo comma, introdotto dalla riforma del 2001, «non può essere considerata come una monade isolata, ma deve essere collocata nel quadro complessivo della forma di Stato italiana, con cui va armonizzata».

Ho sempre sostenuto che né l’autonomia né il regionalismo differenziato possono essere considerati di per sé contro la Costituzione, essendo previsti proprio dalla nostra Carta; ma anche che mai potrebbero attuarsi mettendo in discussione i princìpi dell’unità (art. 5 Cost.), dell’uguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) e della perequazione finanziaria quale strumento di superamento dei divari territoriali (art. 119 Cost.).

Ora, citando la sua consolidata giurisprudenza, i giudici hanno cristallizzato concetti chiave, come che «una componente fondamentale della forma di Stato delineata dalla Costituzione è il regionalismo, connotato dall’attribuzione alle regioni di autonomia politica», ma ricordando che questa è concepibile solo dentro un sistema che ha come presupposto la Repubblica «una e indivisibile», che «il popolo e la nazione rappresentano unità non frammentabili», che «l’unità del popolo e della nazione postula l’unicità della rappresentanza politica nazionale. Sul piano istituzionale, questa stessa rappresentanza e la conseguenziale cura delle esigenze unitarie sono affidate esclusivamente al Parlamento e in nessun caso possono essere riferite ai consigli regionali», e che quindi spetta «solo al Parlamento il compito di comporre la complessità del pluralismo».

L’autonomia non può minare la solidarietà nazionale

Proseguendo nella lettura, a rafforzare il concetto, si afferma che qualsiasi forma di autonomia «non potrà spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica (art. 120 Cost.), l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti (art. 3 Cost.), l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale – che sono tratti caratterizzanti la forma di Stato –, il cui indebolimento può sfociare nella stessa crisi della democrazia».

Sono parole scolpite nella pietra, che non solo affossano alcune pretese esplicite o implicite nella legge n. 86/2024, ma restano vincolanti per qualsiasi legislatore voglia attuare quelle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia previste nel dettato dell’art. 116 Cost., terzo comma. Così asserendo, infatti, i giudici hanno

definitivamente fissato che il modello di regionalismo cooperativo e solidale, posto alla base della nostra Costituzione, è assolutamente incompatibile con un disegno che avrebbe potuto deviare verso un sistema spiccatamente competitivo.

Lo si capisce ancora meglio in un altro passaggio molto significativo della sentenza dove, dopo aver ribadito che eventuali trasferimenti possono riguardare solo specifiche funzioni e non la generalità delle materie, si legge che «in definitiva, secondo la prospettiva costituzionale, incentrata sul principio di sussidiarietà, la scelta sulla ripartizione delle funzioni legislative e amministrative tra lo Stato e le regioni o la singola regione, nel caso della differenziazione ex art. 116, terzo comma, Cost., non può essere ricondotta ad una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche. Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi».

La legge Calderoli è stata scardinata

Fissati in questa lunga premessa i paletti per l’attuazione dell’autonomia, la Corte ha poi illustrato le motivazioni che hanno determinato la pronuncia di incostituzionalità per ben 14 punti della legge. Da alcuni sostenitori della norma si vorrebbe far finta di niente, come se tra cancellazione di interi commi e parti da riscrivere obbligatoriamente secondo il dettato della Corte non risultassero scardinati i punti nodali di un testo che, pur rimanendo formalmente in vigore, così come rimaneggiato si considera assolutamente inapplicabile.

C’è poco da arrampicarsi sugli specchi: l’impianto istituzionale e politico posto alla base della norma Calderoli non esiste più. E qualsiasi attività il Parlamento voglia intraprendere per rimettere in moto il processo del regionalismo differenziato non potrà prescindere dai limiti fissati.

Il monito dei giudici

Gli stessi giudici lasciano come ammonimento un’affermazione destinata a rimanere nella storia delle pronunce:

«Spetta alla discrezionalità del legislatore trovare le soluzioni che attuino la devoluzione ritenuta più adeguata, ma nella ricerca – invero non semplice – di tali soluzioni non potrà spingersi oltre le “colonne d’Ercole” rappresentate dall’art. 116, terzo comma, Cost., come precedentemente interpretato, a garanzia della permanenza dei caratteri indefettibili della nostra forma di Stato».

E se non fosse abbastanza chiaro si riafferma anche che «Resta, comunque, riservato a questa Corte il sindacato sulla legittimità costituzionale delle singole leggi attributive di maggiore autonomia a determinate regioni, alla stregua dei princìpi sin qui enunciati. Il suddetto sindacato costituzionale è attivabile, oltre che in via incidentale, in via principale dalle regioni terze. Infatti, i limiti posti dall’art. 116, terzo comma, Cost. alle leggi speciali di differenziazione incidono direttamente sullo status costituzionale delle regioni terze, nel senso che la violazione di quei limiti – che si traduce in un regime privilegiato per una determinata regione – viola di per sé la par condicio tra le regioni, ossia la loro posizione di eguaglianza davanti alla Costituzione, ricavabile dagli artt. 5 e 114 Cost.».