Il governo accelera sull’Autonomia differenziata, senza attendere i procedimenti pendenti davanti alla Corte costituzionale: ecco le ultime novità sull’argomento illustrate da Fabio Ascenzi.
La situazione che si sta producendo in questi giorni attorno alla legge sull’autonomia differenziata è quantomeno singolare.
Con un comunicato del 2 ottobre, l’Ufficio Stampa di Palazzo della Consulta ha informato che la Corte costituzionale inizierà nel mese di novembre la discussione sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate ai sensi dell’art. 127 Cost. dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania.
Appena un giorno dopo, il 3 ottobre, il ministro Calderoli ha aperto i negoziati con quattro Regioni (Veneto, Lombardia, Piemonte e Liguria) per cominciare a discutere delle richieste avanzate nell’ambito delle 9 materie che per il comitato Cassese possono essere attribuite senza la preventiva definizione dei LEP.
Non sono ambiti di poco conto, ma di particolare rilevanza per l’equilibrio economico-finanziario del sistema-Paese e per gli interessi nazionali. Esse riguardano: rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero; professioni; protezione civile; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale; organizzazione della giustizia di pace.
Alcuni dubbi sulla tempistica messa in atto
Ma la tempistica che si sta incrociando lascia più di qualche perplessità, rispetto a quanto consiglierebbe (se non addirittura obbligherebbe) un percorso logico, nonché rispettoso dei diversi ruoli istituzionali e poteri dello Stato. L’accelerazione imposta sui negoziati darebbe luogo a seri dubbi già per il solo fatto che si è ancora in attesa delle decisioni della Corte sull’ammissibilità dei quesiti per i referendum abrogativi della legge.
Figuriamoci ora che si somma anche l’avvio della discussione sulla costituzionalità della stessa aperta in seno ai giudici di Palazzo della Consulta. E nemmeno a dire che ci siano rischi dilatori, considerato che la scadenza a dicembre per la carica del Presidente Barbera impone una chiusura in tempi molto brevi.
La strada intrapresa dalla Corte appare oltremodo corretta. Infatti, pendendo sulla stessa legge sia questioni di legittimità costituzionale che richieste di referendum abrogativi, risponde a una precisa logica, nonché a una consolidata prassi, che i giudici anticipino l’espressione sui ricorsi presentati in via diretta. Questo perché, innanzitutto, qualora venisse sancita l’incostituzionalità totale della norma, non vi sarebbe più necessità dei referendum, così come dettato dall’art. 39 della legge n. 352 del 1970, recante Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo.
Inoltre, se anche risultasse sanzionata solo una parte di essa, ad esempio con una sentenza cosiddetta correttiva- additiva, resterebbero comunque degli effetti sulla questione referendaria, dovendo a quel punto la Cassazione valutare se le modifiche apportate alla norma dai giudici della Consulta, o addirittura da un repentino intervento del Parlamento, possano superare del tutto le richieste referendarie; oppure se queste rimangano in linea generale valide, magari attraverso una riformulazione dei quesiti che tenga conto di quanto accaduto.
La consolidata giurisprudenza della Corte in caso di modifiche alla legge
Per queste ultime ipotesi, rimane valido riferimento la sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 1978 che, dovendosi esprimere proprio in un giudizio di legittimità costituzionale sollevato sull’art. 39 della legge n. 352/1970 allora vigente, prima affermò il concetto che «l’Ufficio centrale per il referendum è dunque chiamato a valutare – sentiti i promotori della corrispondente richiesta – se la nuova disciplina legislativa, sopraggiunta nel corso del procedimento, abbia o meno introdotto modificazioni tali da precludere la consultazione popolare, già promossa sulla disciplina preesistente: trasferendo od estendendo la richiesta, nel caso di una conclusione negativa dell’indagine, alla legislazione successiva. Corrispondentemente, alla Corte costituzionale compete pur sempre di verificare se non sussistano eventuali ragioni d’inammissibilità, quanto ai nuovi atti o disposti legislativi, così assoggettati al voto popolare abrogativo».
E poi concluse col dichiarare «l’illegittimità costituzionale dell’art. 39 della legge 25 maggio 1970, n. 352, limitatamente alla parte in cui non prevede che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative».
Dai giudizi della Corte costituzionale possono scaturire diversi effetti
Quindi, a oggi, rimangono possibili più opzioni, dalle quali potranno derivare effetti completamente diversi a seconda che la legge esca indenne dal giudizio della Corte, risulti incostituzionale nella sua interezza o per una parte di essa, o infine che la norma vada incontro a referendum abrogativo secondo le condizioni sopra esposte.
Rebus sic stantibus, rimane davvero difficile comprendere, al netto delle palesi motivazioni politiche, come possa sfuggire l’inopportunità dell’azione intrapresa, sia sotto l’aspetto del garbo istituzionale che una discussione di tale importanza meriterebbe, sia per l’efficacia delle stesse trattative avviate presso il ministero.
Volendo tralasciare la prima preoccupazione, che alla luce di tutta questa vicenda sembrerebbe interessare poco ai sostenitori della legge, vale la pena soffermarsi quantomeno sulla seconda, che invece avrebbe dovuto per forza di cose ricevere più considerazione.
Al tavolo convocato con i Presidenti, infatti, il Veneto ha avanzato la richiesta per tutte e nove le materie non-lep, la Lombardia ne ha chieste otto, il Piemonte e la Liguria sei. Poi si è deciso che la concertazione debba partire dalla Protezione civile.
Dunque, l’incontro del 3 ottobre non è stato una semplice riunione preliminare, ma l’inizio di una trattativa concreta, che per stessa rivendicazione dei protagonisti vuole pure giungere a una veloce soluzione.
Tutto questo, ohibò, quasi fosse normale ignorare l’eventualità di un referendum abrogativo o, cosa ancora più seria, l’imminente giudizio della Corte costituzionale che, è bene ricordarlo, se andasse ad accogliere le tesi avanzate dalle Regioni ricorrenti, dichiarando l’incostituzionalità dell’intera legge n. 86 del 26 giugno 2024 o per una parte di essa, cancellerebbe con effetti retroattivi qualsiasi efficacia degli accordi nel frattempo raggiunti.
Fonte: articolo di Fabio Ascenzi