In questo approfondimento il Dottor Marcello Lupoli ci illustra un argomento molto interessante per i lavoratori del pubblico impiego: il legame tra diritto al buono pasto e pausa lavorativa oltre le sei ore.


Il diritto alla mensa o al servizio sostitutivo dello stesso tramite il riconoscimento del buono pasto è legato alla pausa di lavoro e avviene nel corso della stessa e, laddove la contrattazione collettiva lo preveda, sorge ogniqualvolta il dipendente effettui un orario di lavoro eccedente le sei ore.

Questo è, in sintesi, il principio affermato dall’ordinanza 31 luglio 2024, n. 21440 resa dalla Sezione Lavoro della Corte di cassazione.

Il caso

Gli “ermellini” sono stati chiamati a pronunciarsi sul ricorso inoltrato da un’azienda ospedaliera avverso la sentenza della corte d’appello territorialmente competente che aveva confermato la sentenza del giudice di prime cure, che aveva accolto la domanda proposta da una dipendente turnista, accertando il suo diritto, dalla data della domanda  stessa, all’erogazione dei buoni pasto per ogni turno lavorativo eccedente le sei ore e condannando l’azienda ospedaliera datrice di lavoro al risarcimento del danno per avere la parte interessata provveduto a proprie spese al pasto nei giorni in cui aveva effettuato una prestazione lavorativa eccedente le suddette ore.

Il giudice del gravame aveva riconosciuto il richiamato diritto alla luce dell’interpretazione risultante dal combinato disposto dell’art. 29, comma 2, del CCNL Comparto Sanità del 2001, con l’art. 8 del d.lgs. n. 66/2003, ritenendo che, in forza di tali disposizioni, il diritto alla mensa dovesse essere identificato con il diritto alla pausa ed osservando come nella fattispecie concreta sub iudice – considerata la predisposizione dei turni secondo lo schema orario 7.00/13.00, 13.00/20.00 e 20.00/7,00 – alla dipendente istante non potesse essere  riconosciuto il diritto alla mensa nei giorni in cui aveva svolto attività lavorativa  antimeridiana (dalle 7.00 alle 13.00), in quanto tale arco temporale non eccedeva le sei ore, laddove il presupposto dell’attività eccedente le sei ore era da ritenere integrato negli altri due turni di lavoro.

Alla luce della predetta ricostruzione, non avendo potuto usufruire del servizio di mensa istituito dall’azienda ospedaliera in quanto non poteva essere sospeso il servizio di assistenza e non essendovi un servizio di mensa serale, l’originaria doglianza accolta dal giudice di primo grado era stata ritenuta degna di conferma in sede di appello, con conseguente riconoscimento del diritto ai buoni pasto e conferma del capo della sentenza del giudice di prime cure sul risarcimento del danno, per avere dovuto provvedere la parte appellata – come dianzi riferito – a proprie spese al pasto nei giorni in cui la prestazione lavorativa aveva superato le sei ore.

Avverso la pronuncia del giudice del gravame ha interposto ricorso per cassazione della stessa l’azienda ospedaliera, ritenendo che la conclusione cui era pervenuta la corte territoriale non fosse in linea con una corretta interpretazione delle richiamate disposizioni contrattuali e normative, osservando, in via generale, che il criterio per riconoscere il diritto alla mensa era l’impossibilità, in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro, di pranzare fuori dall’ambiente di lavoro e che la dipendente interessata avrebbe potuto    provvedere alla consumazione del pasto prima di iniziare il turno pomeridiano ed il turno notturno, non attribuendo la norma del citato articolo 8 d.lgs. n. 66/2003 – secondo la prospettazione della parte ricorrente – il diritto alla mensa, bensì disciplinando soltanto il diritto alla pausa, essendo soltanto una possibilità quella di consumare il pasto durante la pausa. Tale opzione ermeneutica avrebbe trovato conferma – sempre secondo tale ricostruzione – nel disposto dell’articolo 45 del CCNL 14.9.2000, a tenore del quale possono usufruire della mensa i dipendenti che prestano attività lavorativa di mattino con prosecuzione nelle ore pomeridiane.

La risposta dei giudici della Cassazione

L’opzione ermeneutica dell’azienda ospedaliera ricorrente non è stata ritenuta degna di accoglimento da parte dei supremi giudici di Piazza Cavour, con conseguente rigetto del ricorso presentato.

Ed invero, gli “ermellini” hanno ritenuto di dare continuità a precedenti arresti giurisprudenziali (Cass. n.  5547/2021 e Cass. n. 15629/2021), osservando preliminarmente che “il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze  quotidiane del lavoratore” e, pertanto, “proprio per la suindicata natura il diritto al buono pasto è strettamente  collegato alle disposizioni della contrattazione collettiva che lo prevedono”.

Prendendo le mosse dall’art. 29 del CCNL 20 settembre 2001, integrativo del CCNL del 7 aprile 1999, poi modificato, nei commi 1 e 4, dall’articolo 4 del CCNL del 31 luglio 2009 (biennio economico 2008-2009), i supremi giudici focalizzano il cuore della controversia loro sottoposta nello stabilire quale sia la “particolare articolazione dell’orario” che, ai sensi del comma 2 del richiamato articolo 29, attribuisca il diritto alla mensa ai dipendenti presenti in servizio.

Al riguardo, dopo aver osservato che l’art. 26 del CCNL Sanità 1998/2001 del 7.4.1999, sull’orario di lavoro, “non contiene utili indicazioni sul punto, in quanto si limita a stabilire un orario di lavoro settimanale di 36 ore ed a fissare i criteri generali per la sua distribuzione”, l’ordinanza in disamina evidenzia che un “chiaro indice interpretativo si trae, comunque, dalla disposizione del comma 3 del medesimo articolo 29 CCNL integrativo 20.9.2001, a tenore del quale il pasto va consumato al di fuori dell’orario di lavoro ed il tempo a tal fine impiegato è rilevato con i normali strumenti di controllo dell’orario e non deve  essere superiore a 30 minuti”.

Il legame tra diritto al buono pasto e pausa lavorativa oltre le sei ore

Su tali premesse i supremi giudici ritengono che da “tale norma si ricava che la fruizione del pasto— ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto— è prevista nell’ambito di un intervallo non lavorato; diversamente, non potrebbe esercitarsi alcun controllo sulla sua durata” e che, pertanto, si “può […] convenire sul fatto che la «particolare articolazione dell’orario di lavoro» è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro”.

Corrobora tale approdo anche il predetto art. 8 del d.lgs. n. 66/2003, ai sensi del quale – come rammentato dai supremi giudici di legittimità – “il lavoratore deve beneficiare  di un intervallo per pausa qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di  sei ore, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale  consumazione del pasto”, specificandosi che “le modalità e la durata della pausa sono stabilite dai  contratti collettivi di lavoro ed, in difetto di disciplina collettiva, la durata non è inferiore a dieci minuti e la collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo” e che, dunque, anche nel testo legislativo, “la consumazione del pasto è collegata alla pausa di lavoro ed avviene nel corso della stessa”.

Riconoscere – come vorrebbe la parte ricorrente – che la norma contrattuale di riferimento richieda che l’attività lavorativa venga prestata nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto non è evincibile direttamente dalle disposizioni pattizie, di guisa che – osserva ulteriormente l’ordinanza de qua – “una eventuale volontà delle parti sociali in tal senso sarebbe stata, tuttavia, chiaramente espressa, con l’indicazione di fasce orarie di lavoro che danno diritto alla mensa, fasce che non sono, invece, previste”.

D’altronde, l’illustrata opzione ermeneutica dei supremi giudici “è coerente con i principi già enunciati da questa Corte, con sentenza n. 31137/2019, in relazione alle previsioni dell’articolo 40 CCNL 28 maggio 2004 del Comparto Agenzie fiscali”.

In conclusione, la pronuncia del giudice del merito oggetto di doglianza è da ritenersi immune da vizi, avendo correttamente interpretato le disposizioni sopra richiamate, con conseguente rigetto dell’impugnazione interposta dinanzi ai supremi giudici di legittimità.

Il testo della sentenza

Qui il documento completo.


Fonte: articolo del Dott. Marcello Lupoli - Dirigente Pa