Fasce di perequazione Pensione: la quota di reversibilità come incide, se incide, sull’adeguamento del trattamento pensionistico? La risposta arriva tramite la Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione ha bocciato il ricorso dell’Inps che aveva considerato ai fini della determinazione delle fasce di perequazione delle pensioni anche la quota della pensione di reversibilità non corrisposta per limiti di reddito.
La Corte di Cassazione ha fatto luce recentemente con la sentenza numero 6872/2019 sulle modalità di perequazione delle pensioni superiori a tre volte il minimo nei confronti dei titolari di due pensioni, una diretta e l’altra reversibilità nel caso in cui quest’ultima risulti defalcata per l’applicazione delle fasce di incumulabilità di cui all’articolo 1, co. 41 della legge 335/1995.
La Corte ha stabilito il principio secondo il quale l’adeguamento della pensione all’inflazione deve essere effettuato sull’importo effettivamente erogato, se più basso di quello nominale quale conseguenza del limite alla cumulabilità dei trattamenti ai superstiti.
La questione
La questione riguardava un pensionato che si era visto negare dall’Inps l’applicazione tout court della perequazione nell’anno 2008 ai sensi della legge 247/07 in quanto percettore di un trattamento pensionistico complessivo costituito dalle due pensioni (quella diretta e quella di reversibilità) superiore a otto volte il trattamento minimo (quindi, ai tempi, oltre i 46.172,12 euro).
In quell’anno il protocollo welfare del 2007 sostenuto dall’ex ministro del lavoro Cesare Damiano, aveva stabilito, infatti, la mancata perequazione delle pensioni elevate. Ma è comunque significativa in quanto può servire anche per definire altre fattispecie giuridiche simili.
Contro la decisione dell’Inps il pensionato aveva presentato ricorso in Tribunale contestando in particolare come l’ente previdenziale avesse erroneamente incluso l’importo nominale della pensione di reversibilità senza tener conto che il reddito effettivamente incassato dal pensionato risultasse inferiore per via delle soglie di riduzione previste dall’articolo 1, co. 41 della legge 335.
In base alla predetta norma, il trattamento di reversibilità, come noto, può essere incassato solo parzialmente a fronte di altri redditi erogati al beneficiario. In particolare, se il reddito è superiore a tre volte al trattamento di pensione minimo, può essere cumulato a tale importo il 75% della reversibilità; se il reddito è superiore a 4 volte il minimo, la cumulabilità è del 60%; se il reddito è oltre le 5 volte, la cumulabilità è del 50 per cento.
Il pensionato chiedeva pertanto che la pensione venisse rivalutata in quanto l’importo complessivo della pensione diretta con quella di reversibilità nell’importo effettivamente erogato – cioè considerate le riduzioni legate al reddito – non splafonava il limite di otto volte il minimo sopra indicato.
In primo e secondo grado i giudici avevano stabilito che l’Inps deve tener conto dell’importo effettivamente erogato dando ragione al pensionato. L’istituto di previdenza aveva comunque presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che, a fronte di importi pensionistici elevati, il trattamento di reversibilità non serve per far fronte alle esigenze di vita primarie e quindi quest’ultimo può essere considerato nel suo valore intero, con conseguente mancata perequazione di tutta la pensione.
La decisione
Anche la Corte di Cassazione ha dato ragione al pensionato. Nelle motivazioni alla sentenza il Collegio sottolinea che la legge 247/2007 fa riferimento esplicito all’articolo 34, comma 1 della legge 448/1998 che regola la perequazione. Quest’ultimo parla di “trattamenti corrisposti” e non di quelli “ genericamente a carico” del sistema previdenziale.
“Il legislatore del 1998 – spiegano i giudici – ha inteso parametrare alle somme effettivamente percepite dal pensionato, e non già a quelle in astratto dovute, la decurtazione per effetto della concorrente normativa in materia di cumulo pensionistico e, del resto, la parte del trattamento di reversibilità non corrisposta per effetto del parziale divieto di cumulo, e che dunque, non entra in alcun modo nella disponibilità del beneficiario e non ne costituisce il reddito effettivo, neanche rileva quale reddito imponibile agli effetti impositivi, tenuto conto che l’INPS, quale sostituto d’imposta, trattiene le tasse sugli importi lordi e al netto della quota non cumulabile, e non già sull’importo virtualmente dovuto al lordo della quota non cumulabile”.
Ne consegue, secondo i giudici, che nella definizione della perequazione occorre tener conto dell’importo della pensione di reversibilità effettivamente incassata dal pensionato e non da quella teorica come proposto dall’Inps.
“L’interpretazione dell’importo complessivo come comprensivo dell’importo virtuale non percepito dal pensionato richiederebbe – concludono i giudici -, peraltro, un sacrificio economico maggiore, come tale non conforme ai canoni costituzionali, ad una sola categoria, quella dei pensionati titolari di due trattamenti pensionistici, ai quali la perequazione non si applicherebbe, rispetto ai titolari di un unico trattamento pensionistico, pur di pari importo complessivo, che avrebbero, invece, diritto alla perequazione a parità di condizioni di debolezza, per entrambe le categorie di pensionati, rispetto all’erosione del potere di acquisto delle pensioni”.