La pronuncia della Cassazione n. 16325/2014 conferma la giurisprudenza di legittimità in ordine alla fondatezza della rettifica effettuata dall’ufficio finanziario nei confronti dei contribuenti esercenti sia attività commerciali sia attività professionali ed artistiche, che non sappiano giustificare non soltanto i versamenti sul proprio conto bancario, ma anche i prelevamenti dai conti correnti intrattenuti con istituti di credito.
In questo senso si vedano – tra le tante – le sentenze della Corte suprema, citate da questa in commento, n. 21132/2011 e n. 1418/2013, secondo le quali l’articolo 51 del Dpr 633/1972, ai fini dell’Iva – e richiamato dall’articolo 32 del Dpr 600/1973 ai fini delle imposte dirette – prevede presunzioni legali di maggiori ricavi in assenza di prova contraria del contribuente di averne tenuto conto nella dichiarazione delle imposte dirette e di quella sulla cifra d’affari.
Difatti, la citata normativa del 1972 dispone che i singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono dall’ufficio finanziario posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 54 e 55 del citato decreto del 1972 (rispettivamente, in tema di accertamento analitico e induttivo ai fini Iva e dei corrispondenti tipi di accertamenti previsti dall’articolo 39 del Dpr 600/1973 per le imposte dirette), se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono a operazioni imponibili.
La sentenza del Supremo collegio in nota si segnala in quanto è stata ritenuta infondata la tesi difensiva secondo la quale il cennato articolo 51 del decreto Iva avrebbe un ambito di applicazione più circoscritto del corrispondente articolo 32 del Dpr 600/1973, nel senso che soltanto la seconda disposizione di legge consentirebbe di imputare – mediante presunzione legale – i prelevamenti dei conti bancali a spese per l’acquisto di beni e servizi diretti a essere impiegati nella produzione di ricavi.
A tal proposito, la Corte di legittimità evidenzia come la sintetica formula lessicale utilizzata dall’articolo 51 (“i singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili”) stabilisce in modo chiaro che qualsiasi operazione rilevata sul conto bancario, e non giustificata dal contribuente quanto a provenienza o destinazione delle somme, è posta a base della rettifica o dell’accertamento.
Tale affermazione trova ragion d’essere – secondo la sentenza dei giudici di legittimità in commento – sul rilievo che il porre a base “altro non significa che attribuire efficacia probatoria legale a tali operazioni bancarie in quanto fatti dimostrativi del maggior volume di affari e dunque prova del presupposto d’imposta ovvero del fatto costitutivo della pretesa impositiva”, con l’effetto che il riferimento ai <dati ed elementi risultanti dai conti> non pone limiti al tipo di operazioni rilevabili dalla movimentazione del conto bancario.
La conferma a tale interpretazione emerge dalla disposizione immediatamente precedente che autorizza gli uffici finanziari a invitare i contribuenti a comparire “per fornire dati, notizie e chiarimenti rilevanti ai fini degli accertamenti nei loro confronti anche relativamente alle operazioni annotate nei conti, la cui copia sia stata acquisita a norma del n. 7) del presente comma, ovvero rilevate a norma dell’art. 52, u.c., o dell’art. 63, comma 1”.
Pertanto, la cennata disposizione Iva è da riferirsi tanto ai versamenti quanto ai prelievi ingiustificati di somme risultanti dai rapporti intercorsi con gli istituti di credito, evidenziando l’esistenza di una presunzione legale relativa che legittima l’accertamento di maggiori imponibili pari almeno all’importo di detti prelievi che impone ai titolari dei conti correnti di <memorizzare> ogni prelevamento (con probatio diabolica per i prelevamenti in contanti).
Ulteriore conseguenza è l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente in punto di dimostrazione che il prelevamento non sia stato utilizzato per l’acquisto di beni e servizi utilizzati dall’impresa o dal lavoratore autonomo per la produzione di beni o la prestazione di servizi non assoggettati a tassazione, la cui ragionevolezza è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale nella sentenza 8 giugno 2005, n. 225.
FONTE: Fisco Oggi – Rivista Telematica dell’Agenzia delle Entrate