Lo Stato dovrebbe permettere, in qualità di datore di lavoro di oltre 3 milioni e 300mila cittadini, di regolare la loro attività professionale attraverso un contratto che risponda alle norme nazionali ed europee: in tal modo si garantirebbe, ad esempio, la tutela del diritto all’avvicinamento alla famiglia dei lavoratori. Ma anche la possibilità di accesso ai pubblici uffici, all’equa retribuzione, alla giusta pensione e liquidazione al termine della carriera lavorativa. Invece, negli ultimi tempi abbiamo assistito ad una vera escalation di norme contrarie a queste indicazioni. E pure a quelle dell’UE, a tutela del lavoro e delle famiglie dei dipendenti.
La lista degli abusi verso chi opera per lo Stato italiano è lunga. Ad iniziare dai neo assunti nella scuola, costretti, con il beneplacito dei sindacati maggiori, a rinunciare al primo gradone stipendiale: significa che, in mancanza anche del rinnovo contrattuale, sono condannati a percepire lo stipendio minimo, tra i 1.200 e i 1.300 euro, per un decennio. Ma è sui precari che si concentrano maggiori vessazioni.
Marcello Pacifico (Anief-Confedir-Cisal): in Italia è come se vi fosse una sorta di tassa da pagare sulla stabilizzazione, ogni discorso sulla mobilità dei neo-immessi in ruolo viene rimandato dopo tre anni. In barba al diritto di famiglia e al ricongiungimento ai propri cari anche quando vi sono posti liberi. Il paradosso è che ciò si applica nei confronti dei lavoratori statali, chiamati, per definizione, a difendere quotidianamente il rispetto per le legge e la sua corretta applicazione.
Sarà una Festa della Repubblica davvero triste quella che tra poche ore si accingono a vivere i dipendenti pubblici, orfani del rinnovo contrattuale da oltre cinque anni, e ancora di più quelli della scuola, che attendono l’adeguamento stipendiale dal 2009: perché le norme in vigore violano almeno sette articoli della Costituzione italiana e tre direttive europee, la cui adozione avrebbe garantito tutele ai cittadini lavoratori statali.
Se è vero che il nostro Paese è una Repubblica fondata sul lavoro, lo Stato dovrebbe infatti permettere, in qualità di datore di lavoro di oltre 3 milioni e 300mila cittadini, di regolare la loro attività professionale attraverso un contratto che risponda alle norme nazionali ed europee: in tal modo, si garantirebbe, ad esempio, la tutela del diritto all’avvicinamento alla famiglia dei lavoratori. Ma anche la possibilità di accesso ai pubblici uffici, all’equa retribuzione, alla giusta pensione e liquidazione al termine della carriera lavorativa.
“Sono tutti principi – ricorda Marcello Pacifico, presidente Anief, segretario organizzativo Confedir e confederale Cisal – che non possono essere negati proprio ai lavoratori che operano per lo Stato: gli stessi dipendenti che, paradossalmente, proprio perché statali, sono chiamati, per definizione, a difendere quotidianamente il rispetto per le legge e la sua corretta applicazione. Invece questo non avviene. Basti pensare che il contratto nella scuola è fermo addirittura dal 2009, un anno prima degli altri statali, e lo sarà almeno sino alla fine dell’anno; inoltre sullo stesso rinnovo pesa, come un spada di Damocle, il congelamento dell’indennità di vacanza contrattuale fino al 2018. Una doppia mancanza, che in sei anni ha già portato gli stipendi quattro punti sotto l’inflazione”.
Ma le violenze che si fanno ai lavoratori pubblici e al personale della scuola non finiscono qui. Un altro nodo tutt’altro che sciolto, rimane quello della trattenuta del 2,5% sull’80% del loro stipendio: la trattenuta, che va a costituire parte del fondo di previdenza dell’INPS ex INPDAP, dovrebbe infatti essere a carico dello Stato. Come avviene nel comparto privato. In assenza di una norma che sani tale abuso, ci stanno pensando i giudici a ristabilire le cose sul giusto piano: prima si è espressa in modo netto la Corte Costituzionale, poi ci hanno pensato i tribunali di Treviso e Roma, infine quello di Salerno a pronunciarsi in modo positivo; in quest’ultimo caso sulla richiesta di un insegnante che ha chiesto la restituzione della trattenuta adottata in modo indebito.
La lista degli abusi verso i dipendenti statali è lunga. Quelli neo assunti nella scuola, ad esempio, sono stati costretti, con il beneplacito dei sindacati maggioritari, a rinunciare al primo gradone stipendiale: ciò significa che, in mancanza anche del rinnovo contrattuale, sono condannati a percepire lo stipendio minimo, tra i 1.200 e i 1.300 euro, per un decennio. Sui precari, in particolare, si concentrano le disattenzioni maggiori: nei loro confronti, ad esempio, non si applica la normativa Ue che impone l’assunzione dopo 36 mesi di servizio, come non si adottano le stesse misure previste dal personale di ruolo su ferie, malattia, permessi, ricostruzione di carriera. La discriminazione nei loro confronti si attua addirittura per i concorsi dirigenziali, il cui accesso continua anacronisticamente ad essere loro negato.
“L’ambito universitario – continua Pacifico – non è da meno, se solo si pensa al destino perennemente bloccato per migliaia di assegnisti di ricerca e assistenti accademici, la cui stabilizzazione viene rimandata sine die. Ma quel che forse fa più rabbia è il fatto che dietro ad un lavoratore dai diritti negati, c’è una famiglia vessata, che spesso arranca per arrivare a fine mese”.
“Sempre nella scuola – dice ancora il leader dell’Anief – fa un certo effetto continuare ad ascoltare da Governo e Miur di turno che spostare un docente o Ata assunto da poco tempo è una pratica impossibile. E, come se vi fosse una sorta di tassa da pagare sulla stabilizzazione, ogni discorso sulla mobilità dei neo-immessi in ruolo viene rimandato dopo tre anni. In barba al diritto di famiglia e al ricongiungimento ai propri cari anche quando vi sono posti liberi. Peraltro, a detta dei governanti, si giustifica tutto ciò per difendere una continuità didattica la cui adozione viene invece sistematicamente negata al Consiglio di Classe. E che dire dell’inasprimento delle sanzioni disciplinari, di cui non si sentiva minimamente la necessità, poiché adottate su un comparto già abbondantemente ‘coperto’ su questo versante, soprattutto dopo l’approvazione della Legge Brunetta 150/09?”.
È lunga la lista degli articoli della Costituzione, nei cui confronti le norme vigenti e le prassi organizzative adottate in Italia, adottano sistematica violenza: oltre all’articolo 1, abbiamo il 3, poiché non tutti i lavoratori statali hanno di certo “pari dignità sociale”. Ma anche il numero 4, nella parte in cui si dovrebbero creare le condizioni che agevolino il “diritto al lavoro” e promuovano “le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. E pure il 33, quello sulla libertà di insegnamento, che il ddl 1934 sulla riforma scolastica minerebbe in modo insanabile, mettendo sotto scacco gli insegnanti rispetto allo strapotere dei presidi.
In soccorso degli aumenti di stipendio, che non possono essere legati all’andamento dell’economia, ovvero dei conti pubblici, avremmo invece l’articolo 36 della Costituzione. Che parla chiaro: non può essere lesa la dignità professionale del cittadino che lavora per il benessere della Nazione. Come l’articolo 39, che pretende un contratto di lavoro. Perché al dipendente pubblico deve essere garantito almeno l’aumento dello stipendio in base al costo della vita.
“Per questo motivo – continua Pacifico – il sindacato ha chiesto almeno l’aumento del 5% sugli stipendi, così come riconosciuto ai magistrati (con la Consulta favorevole) dal dicembre 2012. Basta ricordare che l’inflazione in questi anni di blocco contrattuale è salita del 12%, nel privato si sono registrati aumenti del 18% e nel pubblico siamo fermi ai valori dell’8-9% del 2009-2010. Come a venire meno, sul piano pratico, è anche l’articolo 117, comma 1, che impone al legislatore nazionale e regionale di ottemperare agli obblighi comunitari”.
Ma a venire meno nel sistema che regolamenta il lavoro pubblici in Italia, sono anche alcune direttive europee. Ad iniziare dalla 1999/70, la cui mancata attuazione sarebbe dovuta concludersi con la sentenza, datata 26 novembre 2014, con cui la Corte di giustizia europea ha stabilito una volta per tutte che non si possono non assumere i dipendenti con titoli che abbiano svolto almeno tre anni, pure non continuativi, di servizio su posto libero.
L’adozione errata di questa direttiva sta tutta nel disegno di legge della scuola, che pur prevedendo 100mila nuove immissioni in ruolo è riuscito a dimenticare tra coloro che saranno assunti, una larga fetta di supplenti la cui unica “colpa” è essersi abilitati dopo il 2011, riuscendo anche a discriminare una parte dei candidati risultati idonei ai concorsi pubblici. Eppure la Curia europea, nel punto 14 della sentenza di fine novembre, ha fatto esplicito riferimento ai pareri della Consulta italiana e del Tribunale di Napoli, affermando l’applicazione del decreto legislativo n. 368/2001 anche alle pubbliche amministrazioni scolastiche, come normativa attuativa della direttiva 1999/70/CE.
Come viene sistematicamente elusa un’altra direttiva del vecchio Continente, la 88/2004, approvata per la tutela della famiglia e dei ricongiungimenti familiari da attuare per motivazioni lavorativo-prefessionali. Ad essere calpestata dalla legislazione italiana è, infine, la direttiva 14/2002 dell’Unione europea sulla consultazione e informazione dei lavoratori, anche precari: che pur essendo chiarissima, ad oggi continua ad essere negata, mantenendo lo stato di rappresentanza dei dipendenti pubblici ai soliti sindacati più noti.