Il dubbio è venuto alla Presidente della Divisione di Didattica della Società Chimica Italiana Silvana Saiello (Università Federico II di Napoli), che in una sua recente nota diffusa anche dal Cidi ha parlato del pericolo che i Tfa raggiungano un “risultato scadente dal punto di vista culturale e soprattutto non coerente con gli obiettivi generali delle lauree magistrali per l’insegnamento previste dalla legge”.
Mentre sono in pieno svolgimento gli step per l’avvio del secondo ciclo, ci è parso interessante approfondire questo punto di vista, anche visto l’impegno della SCI nella costituzione di un coordinamento che fa dialogare tra loro tutti i docenti universitari che hanno insegnato Didattica della Chimica nei Tfa. Forse un esempio da seguire.
Professoressa, da quali evidenze nasce la sua perplessità nei confronti del Tirocinio Formativo Attivo?
E’ molto probabile che il TFA sia servito a “stabilizzare” docenti precari di esperienza, ma quello che intendevo sottolineare è che il TFA non è stato pensato come un percorso che, da solo, può abilitare all’insegnamento un neolaureato. Quindi continuare a bandire cicli di TFA in assenza delle Lauree Magistrali per l’insegnamento, rafforza l’opinione, anche pubblica, che con l’impegno di un anno, un laureato può diventare un insegnante, in netto contrasto con quanto previsto dal percorso complessivo che nel complesso dura tre anni.
Il meccanismo della ferrea selezione in entrata al Tfa è coerente, invece, con questi obiettivi o necessiterebbe anch’esso di una rivisitazione? Magari aspiranti partecipanti con eccellenti doti didattiche vengono esclusi dal percorso perché non sufficientemente eruditi su aspetti a volte poco significativi della disciplina…
La “ferrea selezione” in entrata è, a mio parere, utile proprio perché il TFA è solo il tratto finale del percorso previsto per la formazione degli insegnanti. Certamente è migliorabile, ma è anche vero che solo se si padroneggiano i concetti si possono insegnare in maniera efficace.
E’ ovvio che i test dovrebbero essere calibrati in modo da valutare tali capacità, ma questo è un discorso lungo che aprirebbe un capitolo eccessivamente tecnico che dovrebbe prendere l’avvio da un lavoro puntuale di ricognizione dei test, ma come diceva Michael Ende, “questa è un’altra storia e si racconterà un’altra volta”.
Esiste, poi, il reale problema di intersecare le competenze disciplinari con quelle didattiche in modo da formare figure professionali esperte in entrambi i campi. Questi aspetti, all’interno del percorso formativo di un docente, non dovrebbero mai essere completamente separati. Anche per questo, come Divisione di Didattica della Società Chimica Italiana stiamo lavorando nella speranza di aprire un dialogo costruttivo tra Didattica e Didattica disciplinare
Le “doti didattiche” di cui lei parla, a mio parere, seppur esistono vanno coltivate e incanalate nella giusta direzione perché è ben noto a tutti gli insegnati della Scuola, ma aggiungo anche dell’Università, che insegnare richiede studio, lavoro sul campo e impegno costante.
Alla vigilia della partenza del secondo ciclo quali aspetti auspica che vengano subito sanati?
Rispondere in maniera completa a questa domanda richiederebbe un’analisi di molti aspetti di questo percorso che, come ho già detto, a mio avviso, è poco opportuno continuare ancora a prevedere come abilitante peraltro in un contesto ancora tutto da definire soprattutto per quanto riguarda le classi di concorso.
Discutere quindi degli aspetti da sanare del TFA è molto limitativo.
Un aspetto specifico che andrebbe migliorato, in particolare per le discipline scientifiche, è certamente quello del laboratorio inteso come luogo della sperimentazione e dell’esperienza, luogo che in assenza di risorse è molto difficile anche solo attrezzare.
Nel suo settore e in generale nell’area scientifica è forse meno accesa la disputa tra pedagogisti e ‘disciplinaristi’, un antagonismo che crea non poca confusione e incertezza tra i futuri docenti, spesso convinti, come sottolinea giustamente anche lei, che “chi sa sa anche insegnare”. Perché alcuni settori della conoscenza guardano con sospetto alle conquiste della pedagogia e della didattica e nemmeno i giovani costituiscono una ‘avanguardia’?
Non esiste una vera e propria disputa, almeno che io sappia. Direi piuttosto che sono ambiti che non riescono a dialogare. I motivi sono diversi. La ricerca in campo pedagogico è riconosciuta dalla comunità scientifica nazionale ed internazionale ed è considerata ricerca scientifica a tutti gli effetti. La ricerca nel campo della didattica disciplinare, in particolare in ambito chimico, è considerata, dalla comunità accademica nazionale, poco più che un passatempo. Questo ovviamente tarpa completamente le ali ai giovani che seppur sono interessati alla ricerca educativa, sono anche consapevoli che, almeno in Italia, il loro lavoro non sarà mai riconosciuto ai fini della carriera universitaria.
Per questo la Divisione di Didattica della SCI ha istituito la Scuola di didattica chimica e ricerca educativa Ulderico Segre giunta ormai alla sua VI edizione. La scuola si pone l’obiettivo di avviare i giovani ricercatori universitari all’insegnamento della Chimica nei Corsi di studio universitari con particolare riferimento a quelli del I anno quindi in prosecuzione con la formazione scolastica.
E non si può immaginare quanto sia complicato per i giovani che intendono partecipare convincere i colleghi universitari dell’utilità della loro partecipazione alla Scuola
La sua associazione è una delle prime, se non l’unica, ad aver costituito un coordinamento di tutti i docenti universitari che hanno insegnato Didattica della Chimica nei Tirocini Formativi Attivi. Quali sono i vostri obiettivi a breve e a lungo termine?
Ci era sembrato molto utile avere la possibilità di scambiare le esperienze di insegnamento nei diversi corsi di Didattica della Chimica a livello nazionale. Non nascondo le difficoltà che abbiamo incontrato nella realizzazione di un Seminario nazionale che, purtroppo non siamo riusciti a portare in porto per problemi organizzativi.
Ci riproveremo, però, perché le persone che hanno lavorato nei corsi di Didattica della Chimica sono molte e le conosciamo. L’obiettivo è e rimane quello di individuare, a breve termine, le buone pratiche e condividerle, mentre, a lungo termine provare ad individuare un “programma” condiviso per il corso di Didattica della Chimica, possibilmente anche in collaborazione con i colleghi pedagogisti. Anche perché i corsi di Didattica della Chimica saranno previsti anche dalla Lauree Magistrali per l’insegnamento e quindi è un lavoro che facciamo soprattutto per questo.
Pensa che resterà un’iniziativa isolata o che anche i colleghi di altri settori seguiranno il vostro esempio?
Anche questo è difficile da prevedere. E’ certo, però che le iniziative che portano risultati utili spesso sono condivise
FONTE: Orizzonte Scuola (www.orizzontescuola.it)
AUTORE: Eleonora Fortunato