legge 104 permessi documentazione faqLa legge n. 104/92 all’articolo 33 comma 3 (successivamente modificata dalla legge n. 53/2000, a sua volta chiarita dalla circolare dell’INPS n. 133/2000, e dalla legge n. 183/2000) riconosce ai lavoratori dipendenti pubblici e privati il diritto di usufruire di 3 giorni di permesso al mese, per assistere il familiare disabile in situazione di gravità.

 

Si tratta, senza alcun ombra di dubbio, di una norma di grande civiltà e di grande valore sociale, che permette quell’assistenza minima e indispensabile ai soggetti disabili, la cui esistenza dipende da soggetti terzi senza le cure dei quali la loro vita sarebbe tutt’altro che dignitosa.

 

Proprio per il valore sociale e civile che tale norma porta con sé, un uso distorto della stessa da parte di chi ne usufruisce, ovvero i familiari o affidatari del soggetto disabile, può condurre a conseguenze irreversibili quale ad esempio il licenziamento.

 

Il recente orientamento della giurisprudenza in materia sembra essere inflessibile nei riguardi di chi usa i detti permessi per soddisfare esigenze che nulla hanno a che vedere con l’assistenza del disabile(andare in vacanza, fare shopping, semplicemente per riposarsi … ), non solo perché non si adempie il proprio dovere nei confronti del soggetto di cui ci si dovrebbe prendere cura, ma anche perché si tratta di un comportamento che porta con sé un “disvalore sociale da condannare”.

 

Queste ultime sono le parole riportate in una sentenza della Corte di Cassazione – Sezione L Civile, che ha decretato il licenziamento per giusta causa (licenziamento per motivi disciplinari) di un lavoratore, che aveva chiesto un giorno di permesso ai sensi della suddetta legge e ne aveva usufruito parzialmente per tutt’altra cosa.

 

La sentenza in questione è la n. 8784 del 30 aprile 2015.

 

Il lavoratore suddetto aveva avuto una sentenza favorevole dal Tribunale di Lanciano; tale sentenza è stata poi ribaltata dalla Corte d’appello dell’Aquila e impugnata in Cassazione dal lavoratore.

 

La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del lavoratore contro il provvedimento di licenziamento, sostenendo che lo stesso si era servito di una parte del permesso per finalità diverse da quelle per cui era stato richiesto.

 

La Corte ha evidenziato, nel suo giudizio, il comportamento socialmente negativo (porta con sé un “disvalore sociale da condannare”) del lavoratore, che può aver sì assistito la madre disabile ma ha,allo stesso tempo, sfruttato il permesso per fare qualcosa che non è contemplato dalla normativa, ledendo tra l’altro la fiducia del datore di lavoro.

 

La Corte ha affermato, inoltre, che il comportamento posto in essere dal lavoratore, che ha utilizzato il permesso per soddisfare un’esigenza personale, riversa il costo di tale esigenza sulla collettività considerato che i permessi in questione sono retribuiti anticipatamente dal datore di lavoro, che poi viene rimborsato dall’Inps del relativo onere anche ai fini contributivi. Tale comportamento, ancora, costringe il datore di lavoro ad organizzare diversamente, ad ogni permesso, il lavoro in azienda e i propri compagni di lavoro che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa.

 

È chiaro, dunque, che la Corte abbia voluto evidenziare l’aspetto etico della questione e che l’uso dei suddetti permessi per finalità diverse costituisce una giusta causa per licenziare il lavoratore.

 

La linea dura della Cassazione, in caso di abusi nell’utilizzo dei permessi ai sensi della legge n.104/92 e successive modificazioni, era già emersa nella sentenza n. 4984 del 4-03-2014.

 

Tale sentenza ha confermato un licenziamento effettuato a causa dell’illecito utilizzo di un permesso ai sensi dell’art.33 della legge n.104/92: il lavoratore, in sostanza, si era servito del permesso non per assistere il disabile ma per soddisfare esigenze personali. L’illecito è stato riscontrato dal datore di lavoro tramite un’agenzia investigativa e in esso la Corte ha ravvisato una giusta causa per il licenziamento.

 

La Cassazione, inoltre, ha legittimato il datore di lavoro a utilizzare un investigatore per controllare il proprio dipendente che abusa del diritto.

 

Alla luce delle dette sentenze, pertanto, l’uso dei permessi fruiti, ai sensi dell’art. 33 comma 3 della legge n. 104/92 e successive modificazioni, per finalità diverse da quelle assistenziali, si configura come un illecito disciplinare e come tale può condurre al licenziamento per giusta causa.

 

I casi sopra riportati riguardano lavoratori dipendenti privati, quanto ai lavoratori dipendenti pubblici i provvedimenti disciplinari sono regolamentati dal decreto legislativo n. 165/2001, come modificato dal decreto legislativo n. 150/09, che elenca quali sono le cause che possono condurre al licenziamento per motivi disciplinari.

 

Al riguardo è doveroso riportare un parere dell’ARAN del 2012, secondo cui i principi enunciati dalla Corte di Cassazione, relativamente al settore privato, si applicano anche ai dipendenti pubblici.

 

La sentenza riguarda un lavoratore privato licenziato dalla propria azienda. La Corte ha respinto il ricorso dell’azienda in questione contro la sentenza della Corte di Cassazione n.1405-2012, che aveva rigettato l’appello contro la sentenza del Giudice di primo grado, il quale a sua volta aveva considerato illegittimo il licenziamento per giusta causa comminato dalla società al lavoratore in questione.

 

È chiaro che si tratta di una fattispecie diversa (opposta per alcuni aspetti) da quella da noi affrontata, tuttavia è interessante riportare il parere dell’ARAN (o meglio alcune parti di esso) e i principi enunciati dalla Corte, valevoli anche per i dipendenti pubblici.

 

Per quanto riguarda il lavoro pubblico, l’art. 55 comma 2 del d.lgs. n.165/2001 (Responsabilità, infrazioni e sanzioni, procedure conciliative) stabilisce che, salvo quanto previsto nelle norme del decreto medesimo, “la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”. E il successivo art. 55 quater (Licenziamento disciplinare) stabilisce a sua volta che: “Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo e salve le ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi…”.

 

Vengono quindi elencati i diversi casi, per i quali è previsto il licenziamento.

 

Quanto alle sanzioni previste nei contratti collettivi, non sono vincolantie spetta al giudice, secondo la Corte, valutare la gravità del comportamento o dell’inadempimento alla base del licenziamento, non solo in relazione al rapporto di lavoro, ma anche, come dice la sentenza, in relazione alle norme della comune etica o del comune vivere civile e decidere se questa gravità sia tale da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

 

Va detto infine, per completezza che può anche accadere che il giudice si trovi a dover decidere su un licenziamento identificato dall’amministrazione come giusta causa, ma che non rientra in nessuna delle ipotesi tipizzate dalla giurisprudenza, dai CCNL e neppure dalla legge; in questo caso spetterà nuovamente al giudice decidere se la fattispecie può essere fatta rientrare all’interno del “contenitore” giusta causa.

 

I principi enucleati dalla Corte, che secondo l’ARAN si applicano anche ai dipendenti pubblici, sono sostanzialmente tre:

 

 

  1. il licenziamento può essere causato da comportanti che violano non solo le regole strettamente attinenti al rapporto di lavoro ma anche quelle del corretto comportamento e del comune vivere civile;
  2. le sanzioni previste nei contratti collettivi non sono vincolanti per il Giudice;
  3. la giusta causa è un contenitore ampio e, in mancanza di indicazioni specifiche nella legge o di ipotesi giurisprudenziali tipizzate, spetta al Giudice decidere se la fattispecie può essere considerata tale.

 

 

Sulla base dell’orientamento giurisprudenziale, dunque, l’amministrazione può decidere un licenziamento per giusta causa non previsto dalla legge (nel nostro caso dal decreto legislativo n. 165/2001, come modificato dal decreto legislativo n. 150/2009), sulla base non solo delle regole attinenti strettamente al rapporto di lavoro ma anche alle norme dell’etica comune.

 

Le due sentenze della Cassazione sopra riportate, la n. 8784 del 30 aprile 2015 e la n. 4984 del 4-03-2014, seguendo il detto orientamento giurisprudenziale, si sono fondate anche sul mancato rispetto del norme del corretto comportamento, considerando un disvalore sociale il comportamento del dipendente che utilizza i permessi, ai sensi della legge n. 104/92 art. 33 comma 3 e successive modificazioni, per finalità diverse da quelle assistenziali.

 

I dipendenti pubblici (compreso il personale della scuola) che utilizzano i permessi, previsti dalla legge n. 104/92 e successive modificazioni, per finalità diverse da quelle assistenziali sono,dunque, passibili di licenziamento come i dipendenti privati.