Tutto era partito con un grande dispiegamento di forze. Slogan roboanti “Mai più precari nella scuola”. “Dal 2016 si entra solo per concorso”. “La scuola fa carriera; qualità, valutazione e merito”. “Fondata sul lavoro”. Stanziamento di cospicue risorse finanziarie per realizzare un ambizioso piano di comunicazione. Attivazione di una consultazione pubblica che, nelle parole dei proponenti, doveva essere la più grande mai realizzata in Europa. E poi tanti numeri: 150.000 assunzioni, 4 miliardi di euro di nuovi investimenti dopo anni di tagli, 100 milioni di euro per l’alternanza scuola lavoro, ecc. Insomma “La Buona Scuola” sembrava avere tutte le carte in regola per avere successo e consenso sia tra la gran parte dei docenti della scuola che tra famiglie, studenti e a “gente” in generale.
Il meccanismo ha iniziato a incepparsi fin da subito. La consultazione si è rivelata molto modesta e comunque non ha rappresentato certo un proficuo e costruttivo momento di confronto e di dibattito. Poi i numeri delle assunzioni sono iniziati a cambiare drasticamente in peggio. Fin dall’approvazione del primo disegno di legge, nel marzo scorso, da presentare al Parlamento, è apparso chiaro che i tanti buoni propositi pur presenti nel documento “la buona scuola” dell’autunno precedente erano sfumati. La corale contrarietà dei lavoratori della scuola e di tutti i sindacati rappresentativi di settore prende corpo con il più grande sciopero di sempre, il 5 maggio 2015, con lo sciopero degli scrutini, con una miriade di iniziative locali nate, spesso, spontaneamente. La risposta della politica è stata la peggiore che si potesse immaginare: dalla “lezione” del presidente del Consiglio che tenta di spiegare in un video la bontà delle proposte governative, alla elaborazione di una miriade di bozze di nuovi testi da parte di oscuri “gruppi di lavoro”, attentissimi a soddisfare questa o quella esigenza di gruppi di pressione. La scuola come bene comune e settore di interesse generale per la società viene investita da un ciclone “clientelare” senza precedenti: dalla tutela di specifiche categorie di aspiranti all’insegnamento, agli incentivi o detrazioni per le aziende interessate all’alternanza scuola lavoro, passando per il bonus alle scuole private.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una legge (la n. 107/15, al Senato approvata addirittura con la fiducia) caotica, con interventi affastellati, priva di anima, tutta piegata sul versante gestionale, che disegna una scuola muta rispetto al suo ruolo nella società contemporanea e conflittuale al suo interno per il ritorno a pratiche burocratiche e gerarchiche che si credevano superate. La scuola è incompatibile con la cultura verticistica che emana da questa legge. Il sistema premiale introdotto per i docenti non è uno stimolo a migliorare la propria professionalità e a innovare le pratiche didattiche secondo il principio sacrosanto e liberale della libertà di insegnamento. È un sistema che invita alla prudenza, a non disturbare troppo il dirigente che a sua volta sarà premiato se la sua scuola non dà pensiero. La stessa formazione dei docenti, ai quali vengono messi a disposizione 500 euro l’anno, è concepita come un fatto personale e privato. Tutti contro tutti in una competizione senza quartiere. Non è questa la scuola che forma “teste ben fatte”.
La forte opposizione delle scuole a questa finta riforma non nasce quindi da considerazioni corporative. Per questo i sindacati rappresentativi della scuola, tutti insieme, hanno sollecitato le Rsu, i collegi docenti e i consigli di istituto a lavorare insieme alle famiglie per difendere la scuola dalle conseguenze più negative di questa legge, contestandone i palesi elementi di illegittimità anche costituzionale. Che effetti avrà questa “riforma” sul prossimo anno scolastico? Difficile a dirsi, anche perché la sua applicazione passerà attraverso un numero altissimo di deleghe che renderanno ancora più farraginoso un testo già abbastanza oscuro.
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Cosa troveranno gli studenti al rientro
Il diritto allo studio rinviato a futura delega. Nessun intervento significativo contro la dispersione scolastica. Alternanza scuola-lavoro, ma anche apprendistato a 15 anni. Gli studenti delle superiori saranno coinvolti (chi e come?) a decidere i criteri per “premiare” i docenti “meritevoli”.
Studenti e alunni vivranno in un clima scolastico assai più difficile e conflittuale. Continueranno ad avere docenti supplenti per non poche discipline. Nella secondaria di secondo grado saranno coinvolti in una delle tematiche più scottanti della legge 107/15: l’individuazione dei criteri di attribuzione dei premi in denaro ai docenti “meritevoli”. Invece di essere chiamati a collaborare con i docenti sulla didattica e le sue metodologie per meglio capire il mondo, vengono abituati a stilare classifiche.
Al di là di accenni generici, nella legge non è presente alcun piano strategico sulla dispersione scolastica soprattutto nelle aree del paese più in difficoltà. È positiva la definizione, sentito il Forum nazionale delle associazioni studentesche, della “Carta dei diritti e dei doveri delle studentesse e degli studenti in alternanza scuola-lavoro” che però si colloca in un contesto di scelte politiche che accentuano la subordinazione dell’istruzione alle imprese.
Il dirigente scolastico, utilizzando anche finanziamenti esterni, potrà individuare percorsi per la valorizzazione del merito scolastico e dei talenti.
Sarà creato il curriculum dello studente, associato a un’identità digitale, che raccoglierà tutti i dati utili di ciascuno studente relativi al percorso scolastico ed esperienze significative in contesti extrascolastici. Si tratta di una materia veramente delicata sulla quale sarà indispensabile una consultazione, la più ampia e approfondita possibile.
Sul tema dell’effettività del diritto allo studio, la Legge delega il governo a emanare entro 18 mesi un apposito provvedimento. Occorre ricordare che dall’attuazione di questa, come delle altre deleghe previste dalla Legge, “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Ma la scuola non cambia. Non una parola sul rinnovo dei saperi e dei contenuti, nessun piano per sostenere il cambiamento della didattica, la diffusione di buone pratiche e di laboratori. Tutte cose che possono nascere da un grande lavoro collettivo della scuola e della società civile al quale il governo deve offrire sedi e risorse.
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Le novità per le famiglie
Favorite con detrazioni fiscali le famiglie che sceglieranno le scuole private per i figli. Le scuole situate nelle zone più ricche e più agiate riceveranno di più, attraverso liberalità di privati e aziende, delle scuole in zone più povere e a rischio sociale.
Anch’esse, attraverso propri rappresentanti nominati nel nuovo comitato di valutazione, saranno coinvolti nell’individuazione dei criteri per la premialità dei docenti. Classifiche invece di collaborazione e dialogo (e magari anche qualche vendetta).
Le famiglie che manderanno i loro figli alle scuole paritarie potranno usufruire di una detrazione fiscale fino a 400 euro annui per alunno per le spese di frequenza. Il sistema dei crediti di imposta sulle erogazioni liberali delle scuole statali e paritarie prevede che il 90% vada alle scuole beneficiarie e solo il 10% al fondo perequativo per le scuole destinatarie di poche risorse. Si contribuirà così a creare scuole di serie A e di serie B a seconda delle condizioni economiche di partenza delle famiglie di provenienza degli alunni. Le scuole che hanno meno bisogno prenderanno di più e chi ha più bisogno prenderà di meno. Il contrario di quanto insegnava don Milani.
Un messaggio, quello veicolato dalla legge 107/15, pesantemente discriminatorio, che contraddice la finalità della scuola pubblica che è il successo scolastico dei cittadini e l’elevamento dei livelli culturali del paese e non certo la competizione (inutile e dannosa) tra questo o quell’istituto. Su queste basi e attraverso la pubblicazione dei piani triennali dell’offerta formativa sul “Portale unico dei dati della scuola”, le famiglie potranno effettuare su base comparativa la scelta della scuola e/o valutare quella frequentata dai propri figli. L’assurdità e l’impudenza di queste affermazioni non meritano alcun commento.
Le famiglie possono essere coinvolte in attività promosse dalle scuole e dagli enti locali in collaborazione con le realtà associative, durante i periodi di sospensione delle attività didattiche. Quale sia la novità di tale disposizione è ignota.
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Il vero ruolo del dirigente scolastico
Il dirigente dovrebbe essere l’esecutore del nuovo modello organizzativo disegnato dalla legge di riforma. Nuovi poteri, quali la chiamata diretta e l’attribuzione di premi in denaro ai docenti meritevoli. Questo si somma a un profilo professionale del quale si esaltano i poteri di comando.
In una legge tutta piegata sul lato gestionale e orientata verso un’organizzazione gerarchica, centrale è la figura che a scuola dovrebbe interpretare il ruolo dell’esecutore di questa “innovativa” prospettiva: il dirigente scolastico. L’aggettivo “scolastico” dovrebbe qualificare una modalità di direzione speciale, perché speciale è la comunità educativa della scuola. Il dirigente tuttologo, valutato per la sua capacità di comando, che decide tutto da solo o quasi, è coerente con un modello che ha abolito la partecipazione e la collaborazione tra le diverse figure che operano nella scuola: i docenti, il direttore amministrativo, il personale delle segreterie, i tecnici e gli ausiliari. Tutti concorrono con le loro competenze e responsabilità alla realizzazione del progetto educativo.
Il leaderismo proposto dalla legge, monocratico e autoreferenziale, è arretrato e sarebbe inadeguato anche per una moderna azienda, per la quale le teorie più avanzate in campo di management suggeriscono ampie forme di partecipazione. Laleadership educativa che opportunamente il dirigente scolastico dovrebbe esercitare si fonda sul consenso collettivo e sulla condivisione delle scelte. Il dirigente scolastico della legge 107 fa tutto lui: dalla definizione dei criteri per l’elaborazione del piano dell’offerta formativa alla scelta dei docenti per gli incarichi triennali, dalla sostituzione degli assenti all’assegnazione dei “premi” in danaro ai docenti, fino alla ricerca di finanziamenti. E tutti gli altri, deresponsabilizzati, eseguiranno.
Le conseguenze di queste scelte sono evidenti: profilo del dirigente scolastico tuttologo del quale si esaltano i poteri di comando e la capacità di intimorire i “sottoposti”, attacco alla libertà di insegnamento costituzionalmente garantita, attacco alla funzione e al ruolo della contrattazione a tutti i livelli, offerta formativa più povera, forte sollecitazione verso una gestione verticistica, solitaria e gerarchica della scuola. Esattamente tutto il contrario di quello di cui il nostro Paese e la scuola stessa avrebbero bisogno.
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Merito e valutazione
Competizione, classifiche, comparazioni: per il governo questa è la valutazione. Un approccio sbagliato che non aiuterà le scuole a migliorare.
Altro cavallo di battaglia del governo riguarda la distribuzione di premi in denaro ai docenti meritevoli: 200 milioni di euro all’anno a partire dal 2016 da distribuire alle scuole in proporzione al numero dei docenti e considerando altri fattori di complessità. Le risorse sono distribuite annualmente dal dirigente scolastico sulla base di criteri definiti dal comitato di valutazione costituito dal dirigente scolastico che lo presiede, da tre docenti, due genitori (un genitore e uno studente nella secondaria di secondo grado) e un componente esterno. La legge individua già alcuni criteri generali, peraltro generici e orientabili a piacere.
La scena è un po’ questa: alla fine dell’anno il dirigente scolastico prende in esame la situazione di tutti i docenti dell’istituto, divide i meritevoli dai non meritevoli e tra i primi eventualmente predispone una graduatoria o per lo meno fasce di premi. Per rendere la procedura valida dovrà motivare le scelte effettuate e rendere pubblica tutta la documentazione. Si potrebbe immaginare che il dirigente sia un mero esecutore di criteri individuati dal comitato di valutazione. Non è così. Ricordiamo che uno dei criteri di valutazione esterna del dirigente scolastico sarà la capacità di valorizzare l’impegno e i meriti professionali del personale dell’istituto, sotto il profilo individuale e negli ambiti collegiali. Ci si domanda chi possa aver immaginato che questo meccanismo possa funzionare in una scuola. Competizione, conflittualità, clima avvelenato e contenzioso sono assicurati.
I premi ai docenti sono di fatto retribuzione (accessoria). La sede naturale per per discuterne è il contratto nazionale, il metodo è quello del confronto continuo con la categoria, condizione indispensabile è la condivisione del percorso da parte dei lavoratori.
Competizione, classifiche, comparazioni: per il governo questa è la valutazione. Un approccio sbagliato che non aiuterà le scuole a migliorare. Inoltre i requisiti per la valutazione saranno suggeriti da un comitato formato in parte da incompetenti che presumibilmente si orienteranno su criteri reputazionali a cui si aggiungeranno i risultati delle prove Invalsi sugli apprendimenti degli alunni.
Una scuola standardizzata che non fa i conti con la realtà del proprio territorio e con le specificità dei singoli alunni. Anche qui un salto indietro di decenni. E qui il cerchio si chiude.
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Scuola lavoro: aumenta la subalternità all’impresa
Percorsi di alternanza scuola-lavoro a partire dal terzo anno della scuola superiore. 400 ore nel triennio per gli istituti tecnici e professionali e 200 ore nei Licei. Stanziati 100 milioni di euro annui a decorrere dal 2016 e definizione della Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza.
Percorsi di alternanza scuola-lavoro a partire dal terzo anno della scuola superiore sono previsti dalla nuova legge. E in particolare, 400 ore nel triennio per gli istituti tecnici e professionali e 200 ore nei licei. Per questo sono stanziati 100 milioni di euro annui a decorrere dal 2016. Al di là di alcuni aspetti condivisibili, quali l’alternanza scuola-lavoro in tutte le filiere della secondaria di secondo grado, il richiamo all’impresa simulata, la “Carta dei diritti e dei doveri delle studentesse e degli studenti in alternanza”, è sbagliato l’approccio complessivo alla questione del rapporto tra scuola e lavoro.
L’alternanza non può essere una torsione che tende a trasformare un percorso educativo in uno addestrativo. Non è richiesto alcun requisito delle imprese che partecipano all’alternanza. Forte è la sensazione che esse possano essere attirate esclusivamente per i forti vantaggi fiscali previsti. Il ruolo del dirigente scolastico appare, anche qui, sovradimensionato.
In questo contesto la possibilità concessa agli studenti di esprimere “una valutazione sull’efficacia e sulla coerenza dei percorsi stessi con il proprio indirizzo di studio” appare priva di efficacia, mentre il ruolo del personale che progetterà e attuerà quei percorsi è semplicemente ignorato.
Tutto questo va inquadrato nelle norme del dlgs 81/15 (applicativo del Jobs Act) che prevedono l’avvio dei percorsi per l’acquisizione del diploma di scuola secondaria in apprendistato a partire dai 15 anni e conseguente appalto di un pezzo della scuola superiore al ministero del Lavoro. Un modo per allontanare i ragazzi dai libri facendo balenare la sciagurata idea che prima si trova lavoro meglio è. Rapporto educativo fecondo tra scuola e contesto lavorativo, elevamento dell’obbligo scolastico e persino rispetto delle vigenti norme sull’obbligo di istruzione appaiono orizzonti sempre più lontani.
Ricordiamo brevemente che l’alternanza scuola-lavoro è una modalità di realizzazione dei corsi del secondo ciclo del sistema educativo. L’alternanza non è un contratto di lavoro ma è un percorso didattico. I percorsi in alternanza sono progettati, attuati, verificati e valutati sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa, sulla base di apposite convenzioni con imprese ed enti pubblici.”In questo specifico contesto educativo, assume particolare rilevanza la funzione tutoriale, preordinata alla promozione delle competenze degli studenti e al raccordo tra l’istituzione scolastica, il mondo del lavoro e il territorio”. La funzione tutoriale è svolta dal tutor scolastico e dal tutor aziendale. I percorsi in alternanza sono articolati secondo criteri di gradualità e progressività che rispettino lo sviluppo personale, culturale e professionale degli studenti in relazione alla loro età.
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La scuola non è fatta di soli docenti
In una legge dai contenuti “epocali”, il personale amministrativo, tecnico e ausilario (Ata) è ignorato o citato di sfuggita per aspetti secondari o di facciata. Il personale Ata non è figlio di un dio minore. Esso è essenziale per la realizzazione del progetto di istituto e per rispondere ai bisogni sempre più complessi espressi dalle alunne e dagli alunni e da tutta la comunità professionale della scuola. Accoglienza soprattutto dei disabili, servizi organizzativi e di segreteria, gestione amministrativa, sicurezza e funzionalità dei laboratori… queste le funzioni del personale Ata, tutte molto qualificate e tutte fondamentali per il funzionamento della scuola. Invece: ulteriori tagli di questo personale previsti dalla legge finanziaria, blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, passaggi di personale dalle ex province che potrebbe comportare la progressiva espulsione di tanti precari, forte contenimento e incertezze sull’attribuzione delle supplenze, carichi di lavoro che aumentano a dismisura a parità di salario. Di tutto questo la legge non parla.
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La contrattazione
La Legge 107/15 rappresenta il più pesante attacco alla contrattazione collettiva nell’ambito del comparto scuola sferrato negli ultimi anni. Infatti sono rese inefficaci tutte le norme e le procedure contenute nei contratti collettivi, contrastanti con quanto previsto dalla legge e vengono sottratti alla contrattazione pezzi della retribuzione accessoria (risorse per il merito), parti significative del contratto sulla mobilità, la formazione. A tutto ciò si aggiunga il ruolo super del dirigente scolastico individuato quale esecutore materiale nelle singole istituzioni del disegno governativo. La quasi totale assenza di riferimenti al personale Ata fa presagire un ritorno alla regolazione per legge del rapporto di lavoro del personale docente. Il blocco dei contratti fin dal 2010, che la sentenza della Corte ha finalmente dichiarato illegittimo, ha già provocato danni sul piano retributivo a tutto il personale. Ma non solo questo. Ha fatto piazza pulita del dialogo sociale, una pratica moderna e civile che ha contribuito a portare trasparenza ed equilibrio nella gestione del lavoro e nella risoluzione dei conflitti.