Il sistema di scioglimento dei comuni per infiltrazioni legate alla Mafia è da tempo oggetto di critiche per la sua scarsa efficacia e per le evidenti lacune nella sua applicazione: ecco la situazione attuale e le proposte di riforma.


Sebbene lo scioglimento di amministrazioni locali infiltrate dalla criminalità organizzata sia previsto come misura estrema, la sua attuazione nel corso degli anni ha dimostrato numerosi limiti che, anziché rafforzare la lotta alla mafia, hanno talvolta lasciato le amministrazioni in una situazione di stallo.

Analizziamo dunque la situazione attuale e i possibili scenari di riforma futuri su questo strumento, di recente discussi dal Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.

Il sistema si scioglimento dei comuni per Mafia: un quadro d’insieme

L’introduzione dello scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, avvenuta nel 1991 con il decreto-legge n. 164/1991 (poi convertito in legge n. 221 del 22 luglio 1991 e poi modificato dall’art. 1 della legge n. 108, 11 gennaio 1994 e dalla legge n. 94, art. 30, 15 luglio 2009), rappresentava un tentativo di rispondere in maniera decisa alla crescente pressione della criminalità organizzata nelle istituzioni locali.

Da quando la misura è stata introdotta a seguito di un’ondata di indignazione popolare in seguito al brutale omicidio del salumiere Giuseppe Grimaldi a Taurianova, in provincia di Reggio Calabria, fino a maggio 2024, sono stati sciolti 384 consigli comunali per infiltrazioni mafiose, con 25 di questi provvedimenti annullati successivamente a seguito di ricorsi, secondo i dati raccolti dalla piattaforma WikiMafia.

Normativa

In particolare, il decreto legge 164/1991 disponeva che i consigli comunali e provinciali potevano essere sciolti quando, in seguito all’esercizio dei poteri conoscitivi e ispettivi del prefetto, “fossero emersi elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o forme di condizionamento degli amministratori tali da compromettere l’imparzialità e il buon andamento degli organi elettivi, il regolare funzionamento dei servizi, o fossero tali da arrecare pregiudizio per la sicurezza pubblica.”

Successivamente la legge 108/1994 introdusse la possibilità di prorogare la durata dello scioglimento, stabilita in un periodo compreso fra i dodici e i diciotto mesi, fino ad un massimo di ventiquattro mesi in casi eccezionali.

Attualmente lo scioglimento è previsto dall’art. 143 del Testo Unico degli Enti Locali (d.lgs. 267/2000), che prevede che i consigli comunali e provinciali “sono sciolti quando, anche a seguito di accertamenti […] emergono elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o su forme di condizionamento degli amministratori stessi, che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi e il buon andamento delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi alle stesse affidati ovvero che risultano tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica.

Infine la riforma del 2009, introdotta con la legge n. 94/2009, nota come “pacchetto sicurezza“, ha modificato il Testo Unico degli Enti Locali (TUEL) imponendo che lo scioglimento debba essere giustificato da “elementi concreti, univoci e rilevanti” per dimostrare i legami tra amministratori locali e la criminalità organizzata. Un elemento che ha, come vedremo, complicato le cose.

La procedura di scioglimento

Qual è nello specifico la procedura da seguire? Spieghiamolo brevemente.

Al fine di accertare il condizionamento delle organizzazioni criminali sull’ente locale, il ministro degli interni nomina un’apposita commissione di indagine prefettizia. Questi sono gli step principali che seguono alla nomina:

  • Indagini e valutazione: la commissione speciale indaga a fondo sull’amministrazione locale, analizzando anche le indagini giudiziarie in corso.
  • Decisione: il Prefetto, sentito il parere di un comitato provinciale, trasmette le conclusioni al Ministro dell’Interno. Quest’ultimo può decidere di archiviare il caso o proporre lo scioglimento al Consiglio dei Ministri.
  • Scioglimento e commissariamento: se il Consiglio dei Ministri approva, il Presidente della Repubblica emette un decreto di scioglimento e nomina una commissione straordinaria per gestire l’ente per un periodo massimo di 24 mesi.
  • Ricorso: contro il decreto di scioglimento è possibile fare ricorso al TAR e poi al Consiglio di Stato. I giudici valutano la legittimità del decreto, esaminando anche documenti riservati.

Lo scioglimento avviene quando ci sono prove concrete di infiltrazioni mafiose nell’amministrazione. Questo può accadere, ad esempio, quando amministratori locali o dipendenti sono coinvolti in attività illecite o quando ci sono evidenti legami tra l’ente e organizzazioni criminali. Questo comporta la sospensione degli organi eletti e l’affidamento della gestione dell’ente ad una commissione straordinaria. Dopo il periodo di commissariamento, si tengono nuove elezioni per ripristinare gli organi eletti.

Quali sono le principali criticità del sistema?

Come abbiamo anticipato sopra la riforma del 2009 ha imposto nuovi criteri per l’attuazione del provvedimento di scioglimento che hanno sollevato ulteriori problemi. Le infiltrazioni mafiose, infatti, operano spesso in modo subdolo e difficile da tracciare con evidenze tangibili. Spesso il condizionamento è indiretto e si manifesta attraverso una rete di legami informali e complicità che sfuggono a prove dirette, rendendo più complesso l’intervento preventivo da parte dello Stato.

Tra i detrattori di questa norma troviamo il magistrato Raffaele Cantone, che l’ha criticata duramente in quanto essa avrebbeindebolito drasticamente l’intero istituto dello scioglimento. Uno dei principali effetti è stato la diminuzione dei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose.

Non solo: le nuove regole hanno anche portato a un aumento dei ricorsi che si concludono con l’annullamento del provvedimento da parte dei tribunali amministrativi. Questo significa che non solo i comuni sospettati di legami con la criminalità organizzata riescono a evitare lo scioglimento, ma che quando questo avviene, esso viene spesso ribaltato da un punto di vista legale, riducendo l’efficacia dello strumento.

Un ulteriore elemento di criticità riguarda la complessità delle misure di incandidabilità per gli amministratori ritenuti responsabili. Questo sistema, anziché funzionare come deterrente, è stato criticato per la sua difficoltà di applicazione, con un iter lungo e macchinoso che rischia di trasformare l’intero processo in un’operazione di facciata. Di conseguenza, gli amministratori che dovrebbero essere ritenuti responsabili delle infiltrazioni spesso riescono a sottrarsi a reali sanzioni, continuando la loro carriera politica senza subire conseguenze sostanziali.

L’intervento del Consiglio di Stato

In questo scenario è intervenuto anche il Consiglio di Stato con una sentenza del 2016 (sentenza numero 1662) che ha ulteriormente ridotto la discrezionalità del potere di scioglimento. La decisione stabilisce che per procedere allo scioglimento di un consiglio comunale, deve essere fornita la prova di un effettivo condizionamento mafioso che abbia influenzato le decisioni degli amministratori locali. Inoltre, viene richiesta la dimostrazione della consapevolezza da parte degli amministratori stessi di agire sotto pressione criminale. Questo passaggio rappresenta un ulteriore ostacolo per l’utilizzo dello scioglimento come strumento preventivo, poiché alza notevolmente la soglia probatoria e limita la capacità dello Stato di intervenire rapidamente in contesti compromessi.

La conseguenza di questa sentenza è che lo scioglimento dei comuni per mafia è diventato uno strumento più formale e meno incisivo, riducendo la sua efficacia come misura preventiva e di contrasto. Questa evoluzione ha portato, nel tempo, a una gestione sempre più debole del problema delle infiltrazioni criminali negli enti locali, con amministrazioni spesso lasciate alla deriva anche dopo la rimozione del consiglio comunale, e con una giurisprudenza che tende a favorire la salvaguardia dell’autonomia amministrativa rispetto all’esigenza di contrastare efficacemente la criminalità organizzata.

La proposta di riforma del ministro Piantedosi

In un recente intervento  il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha recentemente auspicato una riforma del TUEL per rendere il sistema più flessibile, con l’introduzione di strumenti di monitoraggio e sostegno per gli enti locali.

Piantedosi ha sottolineato la necessità di superare l’attuale approccio, incentrato quasi esclusivamente sullo scioglimento dei consigli comunali, introducendo meccanismi di monitoraggio continuo e forme di supporto statale che possano intervenire prima che si renda necessaria una misura così drastica come lo scioglimento.

In questo senso, la proposta mirerebbe a rendere l’intervento dello Stato meno invasivo e più efficace. Piuttosto che arrivare a una soluzione drastica quando ormai la criminalità organizzata ha già preso piede, Piantedosi suggerisce un sistema di affiancamento alle amministrazioni locali, che possa rilevare tempestivamente anomalie e criticità, permettendo allo Stato di intervenire in modo più mirato. Si tratterebbe di misure più leggere rispetto al commissariamento totale dell’ente, ma comunque intese come sufficienti a correggere le deviazioni senza compromettere la gestione dell’amministrazione o la sua autonomia.

Il ministro ha inoltre evidenziato che l’introduzione di queste misure è fondamentale per proteggere l’enorme flusso di risorse previsto dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Senza un adeguato controllo, il rischio è che la criminalità organizzata possa intercettare parte di questi fondi, aggravando ulteriormente il problema delle infiltrazioni.

La proposta del ministro, quindi, è un tentativo di trovare una strada intermedia tra il rigido scioglimento e una collaborazione più efficace tra Stato e amministrazioni, affinché le istituzioni locali non diventino prede facili per la criminalità organizzata.

Quali sono gli scenari futuri?

L’attuale sistema di scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose appare ormai inadeguato a contrastare un fenomeno che si evolve costantemente. La criminalità organizzata, infatti, ha raffinato le sue strategie, nascondendo i suoi legami con gli amministratori dietro un velo di legittimità che rende sempre più difficile dimostrare in modo univoco la presenza di condizionamenti mafiosi. I metodi utilizzati oggi dalla mafia non sono più quelli visibili e violenti del passato: si muovono in modo silente attraverso consulenze, appalti e attività apparentemente legali che, a lungo andare, minano la trasparenza e la legalità nelle amministrazioni locali. Di fronte a questo cambiamento, il sistema basato sullo scioglimento dei consigli comunali, regolato da norme introdotte più di trent’anni fa, si rivela obsoleto e inefficace.

Cosa può fare concretamente il Governo italiano?

Lo scioglimento, pur rappresentando un segnale forte da parte dello Stato, non ha dunque dimostrato di essere una soluzione duratura. Nella maggior parte dei casi, dopo la rimozione degli amministratori e l’insediamento dei commissari straordinari, le criticità riemergono, talvolta aggravate, una volta ristabilita la normale amministrazione.

Se il Governo italiano vuole davvero intraprendere una lotta efficace contro le mafie, deve adottare un approccio più complesso. Le infiltrazioni mafiose vanno prevenute con un rafforzamento delle capacità amministrative, investendo su risorse, formazione e trasparenza.

Piuttosto che limitarsi a intervenire solo quando il danno è già stato fatto, lo Stato dovrebbe monitorare costantemente le amministrazioni locali e fornire strumenti che aiutino a identificare precocemente anomalie o segnali di corruzione. Questo implica, ad esempio, un maggiore controllo sugli appalti pubblici, sulla gestione dei fondi e sull’assegnazione di incarichi, oltre a un sistema di affiancamento alle amministrazioni deboli, in modo da evitare che diventino preda facile per la criminalità organizzata.

Una visione di lungo termine richiederebbe un sostegno concreto agli enti locali, magari attraverso task force specializzate che affianchino i comuni più a rischio, con l’obiettivo non solo di sanare le situazioni compromesse, ma di rendere le amministrazioni più forti e capaci di resistere alle pressioni mafiose. Solo attraverso interventi strutturali, che rafforzino l’autonomia e la legalità degli enti locali, si potrà davvero ridurre l’influenza della mafia.