La riforma delle Città Metropolitane e delle Province: un fallimento dei diritti politici. Ecco l’analisi sull’argomento a cura dell’Avvocato Maurizio Lucca.
Una riflessione sull’attuale riforma delle Città Metropolitane e delle Province, che allo stato attuale presenta ancora molte criticità.
Problemi che potrebbero benissimo far pensare a un fallimento dei diritti politici.
La sintesi odierna si basa sul pronunciamento della Corte Costituzionale e sulla questione relativa ai diritti di voto e al percorso normativo e giuridico della riforma.
Il pronunciamento
La Corte Cost., con la sentenza n. 240 del 7 dicembre 2021 (redattore Stefano Petitti), interviene per allarmare il legislatore (quello che dovrebbe scrivere le leggi) affinché sia assicurata la libertà di voto, espressione compiuta delle democrazie evolute dove, a fianco della separazione dei poteri e non della loro concentrazione (diversamente saremo di fronte ad un regime) la rappresentanza degli Enti esponenziali delle Comunità (quelle territoriali) avviene previa elezione da parte del corpo elettorale: il popolo.
In termini più diretti, l’elezione attuale (come definita dalla riforma degli “Enti di area vasta”) dei Sindaci delle Città metropolitane (enti di secondo livello) è in contrasto con il principio di uguaglianza del voto (attiene ai diritti politici e, segnatamente di elettorato attivo) e pregiudica la responsabilità politica del vertice nominato (con elezioni di secondo grado, ossia da parte degli amministratori locali eletti o automaticamente coincidente per legge, ovvero il Sindaco metropolitano risulta «di diritto» il Sindaco del Comune capoluogo) nei confronti degli elettori: è necessario assicurare ai cittadini la possibilità di esprimere, in via diretta o indiretta, i propri rappresentanti: la persistenza di questo sistema risulta «del tutto ingiustificato».
Nel comunicato del 7 dicembre 2021, dell’Ufficio stampa della Corte Cost., si legge che «l’attuale disciplina sui sindaci delle Città metropolitane è in contrasto con il principio di uguaglianza del voto e pregiudica la responsabilità politica del vertice dell’ente nei confronti degli elettori. Spetta però al Legislatore, e non alla Corte costituzionale, introdurre norme che assicurino ai cittadini la possibilità di eleggere, in via diretta o indiretta, i sindaci delle Città metropolitane».
Le libertà democratiche
Ed in effetti, se la democrazia dovrebbe esprimere la volontà della maggioranza, non escludendo che la minoranza possa diventare la maggioranza di domani [1], le elezioni dovrebbero consentire di delegare alcuni a governare gli altri, nel senso di individuare gli amministratori della cosa pubblica solo attraverso una loro investitura che non può che appartenere al “Popolo” [2].
Occorre, quindi, predefinire la consistenza della parola “popolo” (the people) nell’ambito dell’Ordinamento, evitando di interpretare l’esercizio tirannico di una parte (la maggioranza) sull’altra (la minoranza), dovendo prevedere che, in ogni caso, la tutela della minoranza rispecchia una soluzione praticabile del concetto di democrazia: la maggioranza governa in conformità a determinate regole predefinite che consentono l’avvicendamento delle parti, in un equilibrio di poteri e valori in grado di garantire il pluralismo, l’uguaglianza e le libertà.
Risulta inevitabile che solo dal libero confronto tra maggioranza e opposizioni possa rispecchiarsi un sistema libero e realmente democratico, poiché un’“alterazione” del sistema di democrazia rappresentativa altererebbe la concorrenza del popolo alla partecipazione della gestione del potere, risultando un totalitarismo.
In questa visione, epurata dal contesto emergenziale attuale, la nozione di moderna democrazia esige il rispetto dei principi minimali di libertà, eguaglianza e pluralismo non solo sotto il profilo della sovranità popolare (che dovrebbe presidiare tutte le cariche dei vertici istituzionali, rispetto ad un’abitudine di nominare senza rappresentanza elettiva) ma della conformazione degli organi chiamati a governare una Nazione, intesa come Patria, ossia legata al suo territorio e alle sue tradizioni storiche (la gens).
In definitiva, senza accusare oltre, perché si possa definire un “ordine democratico” i requisiti minimi sono:
- amministratori eletti;
- libere, eque e frequenti votazioni;
- libertà di espressione e libertà di stampa;
- accesso a fonti alternative di informazione;
- autonomia associativa e libertà civili [3].
Si comprende, come si avrà modo di riferire sulla sentenza, che solo con l’elezione a suffragio universale degli organi di rappresentanza da parte del corpo elettorale, coniugata con la separazione dei poteri, viene configurato il livello delle libertà democratiche, aspetto che comporta, allo stesso tempo, che l’adozione delle norme primarie (le leggi) spettano agli organi il cui potere deriva direttamente dal popolo: a questi principi si conforma la nostra Costituzione laddove stabilisce che «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» [4], mentre il Governo, senza delega, è privo di tale potere se non in «casi straordinari di necessità e d’urgenza» (ex comma 2 dell’art. 77 Cost., senza soffermarsi sulla questione di fiducia che azzera il dibattito parlamentare, ossia le prerogative degli eletti) [5].
In questo senso, il popolo è un elemento costitutivo [6] di una Nazione, fonte e legittimazione del potere [7], base di rappresentanza politica («Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere… alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini», ex art. 51, comma 1, Cost.) [8]: la forma democratica dello Stato si esprime con il meccanismo valoriale e primario che l’esercizio dei poteri di direzione e controllo più elevati sono attribuiti dal popolo: è nella rappresentatività che nei sistemi costituzionali si legittima l’esercizio del potere legislativo con libere e dirette elezioni [9].
Il cono visuale proietta la sua freccia nell’affermare che in mancanza dei diritti politici non vi può essere democrazia, quando si comprime il voto, quando si impediscono di esercitare le libertà che ad esso sono connesse, possiamo ritenere che l’ordinamento sia autoritario/totalitario, sia venuto meno ex se lo Stato di diritto.
La questione costituzionale
La questione costituzionale concerne il giudizio di legittimità costituzionale:
- degli artt. 13, comma 1, e 14 della legge della Regione Siciliana 4 agosto 2015, n. 15 (Disposizioni in materia di liberi Consorzi comunali e Città metropolitane), come rispettivamente sostituiti dall’art. 4, commi 1 e 2, della legge della Regione Siciliana 29 novembre 2018, n. 23 (Norme in materia di Enti di area vasta), disciplina di recepimento di quella nazionale di “abolizione delle Provincie” che non ha superato il referendum;
- dell’art. 1, comma 19, della legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, la c.d. Delrio, approvata con un voto di fiducia, dopo essere andata “sotto” la maggioranza per due volte in Commissione): «Il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo».
In breve, viene sollevata questione di legittimità costituzionale in relazione alle norme anzi citate che impediscono, per gli enti di secondo livello (in Sicilia le c.d. città metropolitana), una responsabilità degli amministratori verso i cittadini: manca un legame diretto tra eletto e elettore, atteso che la mediazione avviene senza alcuna interlocuzione con il popolo ma direttamente dalla legge.
In sintesi:
- il Sindaco metropolitano risulta di diritto il Sindaco metropolitano del Comune capoluogo (un automatismo ex lege), senza alcuna possibilità di incisione (consultazione) dei cittadini;
- nessuna partecipazione popolare, neanche in via indiretta, all’elezione del Sindaco metropolitano;
- una preclusione all’esercizio del suo diritto di voto (diritti politici) discendente direttamente dalla legge.
I diritti (di voto) violati
Appare evidente (peraltro, acquisito anche a livello di “opinione pubblica”) che il sistema delle Autonomie Locali è imperniato sul principio di rappresentanza e l’alterazione di questo principio impedirebbe (e impedisce) di coniugare il collegamento tra l’attività svolta (in qualità di amministratore) e il giudizio popolare (il consenso) sulla bontà dell’esercizio della funzione pubblica: il mandato ricevuto facendo venir meno la c.d. responsabilità politica che è fondata sull’art. 1 Cost., «giacché essa dà sostanza alla sovranità popolare», ed è presupposta quale regola di buona organizzazione (ex art. 97 Cost.).
La limitazione ad una sola parte degli amministrati del potere di esprimere, con il proprio voto, l’organo rappresentativo contraddirebbe il principio democratico e di uguaglianza dei del voto dei cittadini, ex art. 48, secondo comma, Cost.; infatti, solo alcuni cittadini con il loro voto, eleggono sia l’organo rappresentativo del Comune che quello dell’Ente intermedio: una palese ingiustificata disparità di trattamento e compressione dei diritti del singolo alla partecipazione della vita pubblica.
Tale disparità di trattamento è ancor più fluente ove si consideri che tutti gli organi della Provincia (o, nel caso della Sicilia, i liberi Consorzi comunali) sono eletti «con un meccanismo elettivo di secondo grado», cui partecipano i Sindaci e i Consiglieri comunali di tutti i Comuni del territorio di riferimento: i cittadini sono vivamente esclusi dal diritto di voto.
Il percorso del diritto
La Corte individua (l’ammissibilità) le argomentazioni poste dal rimettente, che non rilevano sotto il profilo della pienezza delle condizioni per l’esercizio del voto, quanto la sua stessa esistenza ab origine: l’accertamento della fondatezza del petitum porta a dichiarare la radicale menomazione del diritto di voto, pregiudicato dalla disciplina vigente, con la conseguente eliminazione tramite una pronuncia.
Viene ripercorso il tragitto della legge n. 56 del 2014 che ha individuato nelle Città metropolitane e nelle Province i due Enti territoriali destinati a costituire il livello di governo intermedio tra Comuni e Regioni, in attesa della riforma del Titolo V, della parte seconda della Costituzione, e che nel disegno di riforma mirava esplicitamente a mantenere solo i cit. Enti, come enti rappresentativi delle proprie comunità (sopprimendo le Province), giungendo ad osservare che le censure della disciplina regionale avrebbero «un contenuto in tutto e per tutto coincidente» con la legge Delrio.
Analizzato il quadro di riferimento e le richieste, la Corte evidenza l’impossibilità di un intervento manipolativo, con la modificazione del sistema elettorale per consentire l’elezione diretta del Sindaco metropolitano ad opera di tutti i cittadini residenti nel territorio della Città metropolitana (fatto che formalmente non avviene neanche per i cittadini del Comune capoluogo), rilevando che tale compito è demandato «soltanto al legislatore nella sua discrezionale valutazione con specifico riferimento agli aspetti anche di natura politica che connotano la materia elettorale».
Passando, ad un’ulteriore questione sulla diversa modalità di esercizio del diritto di voto (ossia, riferito ai cittadini dei Comuni non capoluogo compresi nella Città metropolitana subirebbero rispetto ai cittadini dei Comuni non capoluogo compresi in un ente di area vasta provinciale, i quali partecipano, sia pur indirettamente attraverso i Sindaci e i Consiglieri municipali eletti, all’elezione del presidente della Provincia) i termini non divergono dalle precedenti osservazioni per gli eventuali effetti manipolativi preclusi alla Corte.
I profili di illegittimità costituzionale
Dall’analisi della disciplina sussiste un diverso meccanismo elettivo legato alle due forme di governo locale:
- uno di individuazione del Sindaco metropolitano (coincidente con la durata del Sindaco del comune capoluogo);
- l’altro di elezione indiretta del Presidente della Provincia (disciplinato dall’art. 1, commi da 58 a 66, della legge n. 56 del 2014) di durata doppia rispetto a quella biennale del Consiglio provinciale.
Tali previsioni normative furono il frutto di un apprezzamento eminentemente discrezionale del legislatore del 2014 in vista dell’eliminazione delle Provincie prevista dalla legge di riforma della Costituzione, non entrata in vigore a seguito dell’esito negativo del referendum costituzionale.
Ciò posto, nel rilevare i diversi sistemi di elezioni, funzionali a due distinti meccanismi di elezione degli organi, la Corte giunge al punto centrale dell’intera sentenza: il sistema vigente per l’elezione del Sindaco metropolitano non risulta «in sintonia con le coordinate ricavabili dal testo costituzionale, con riguardo tanto al contenuto essenziale dell’eguaglianza del voto».
Al di là dei meccanismi elettivi differenziati, viene minato il principio di uguaglianza dei cittadini riflettendosi inesorabilmente sull’eguale dignità di tutti i cittadini a concorrere alla formazione degli organi di rappresentanza, impedendo un controllo sociale dei cittadini verso coloro che esercitano una funzione pubblica: la sovranità popolare esige che l’investitura «di chi è direttamente chiamato dal corpo elettorale a rivestire cariche pubbliche rappresentative», debba essere supportato da strumenti idonei a garantire «meccanismi di responsabilità politica e [i]l relativo potere di controllo degli elettori locali».
Se in fase di prima attuazione e funzione (per renderlo immediatamente operativo) del Sindaco metropolitano poteva ritenersi non irragionevole tale meccanismo di voto, una volta venuto meno l’abolizione delle Province, a seguito della consultazione referendaria, la permanenza di tale sistema è in contrasto con il sistema ordinamentale, vi è un vulnus alla rappresentatività nei termini sopra descritti non più accettabile.
La Corte termina con un invito urgente (un sollecito) al legislatore: si rende indispensabile, non rinviabile, «un riassetto degli organi…, risultando del tutto ingiustificato il diverso trattamento riservato agli elettori residenti nel territorio della Città metropolitana rispetto a quello delineato per gli elettori residenti nelle Province. Ciò anche perché il territorio delle prime è stato fatto coincidere con quello delle seconde, senza quindi differenziare le comunità di riferimento secondo opportuni criteri di efficienza e funzionalità, ciò che invece sarebbe necessario, ai sensi dell’art. 114 Cost., per far sì che le Città metropolitane e le Province siano in grado di curare al meglio gli interessi emergenti dai loro territori».
L’assetto odierno di questi Enti presenta un deficit di democrazia incompatibili con i parametri costituzionali, i vertici sono stati eletti in violazione con i principi di sovranità popolare, la persistenza del sistema elettorale così congegnato «rischia di compromettere… tanto l’uguale godimento del diritto di voto dei cittadini destinatari dell’esercizio del potere di indirizzo politico-amministrativo dell’ente, quanto la necessaria responsabilità politica dei suoi organi».
Considerazioni minime
La sentenza nella sua chiarezza (l’ànimus) descrive il prezzo delle libertà, quella del voto, dove gli organi rappresentativi delle istituzioni territoriali non possono essere nominati senza passare per il voto popolare, manca una congiunzione tra eletto ed elettore, una frattura che deve essere curata con l’intervento immediato del legislatore pena una lesione non marginabile di democrazia: se manca il voto l’ordinamento perde la sua identità, si pone al di fuori della legge e delle regole della convivenza civile: uno Stato che garantisca la dignità dei suoi cittadini è uno Stato dove i propri rappresentanti solo eletti dal popolo e al popolo rispondono.
La legge Delrio che doveva ridisegnare anticipando la differenziazione e la sussidiarietà verticale, semplificare i livelli decisionali e assicurare un “efficientismo pubblico” (le riforme dell’ultimo miglio), ancora una volta (vedi, la precedente riforma c.d. Madia) [10] viene fermata dalla Corte Cost., dimostrando i limiti sostanziali dell’assenza di una visione futura, di una coerenza con il proprio tessuto sociale e il territorio, lontana dalle Comunità e dai cittadini (vedi, gli esiti del referendum): tutte quelle suggestioni, quei riti di una stagione di spot e slide, sistematicamente dichiarate fuori dal contesto costituzionale.
Le parole lette sono più significative (penetranti) di quanto espresso: «non può tuttavia esimere questa Corte dal sollecitare un intervento legislativo in grado di scongiurare che il funzionamento dell’ente metropolitano si svolga ancora a lungo in una condizione di non conformità ai richiamati canoni costituzionali di esercizio dell’attività politico-amministrativa», esprimendo un giudizio che va ben oltre.
Assistiamo ripetutamente a cariche nelle istituzioni slegate da sistemi di rappresentatività, un susseguirsi di porte girevoli tra persone che smettono una veste per indossarne un’altra, senza alcun periodo di raffreddamento (c.d. pantouflage), senza alcuna consultazione popolare, ritenuta del tutto inutile, un ingombro (un fastidio), senza rispondere delle proprie azioni al popolo sovrano, referenti di soggetti terzi o di organismi oscuri (cioè non conosciuti e poco trasparenti), anche loro non eletti, a volte stranieri.
Si potrebbe sostenere che troppe autorità legiferano senza avere avuto nessun consenso, o delega, da parte dei cittadini, anzi lontani (anni luce) dal territorio e dal popolo: in questa asimmetria informativa (lo scrissi) «la convivenza di più entità e autorità amministrative indipendenti (ma in grado di creare atti di regolamentazione, c.d. soft law), l’esigenza di formulare e attuare il policentrismo istituzionale» delineano congiuntamente un diverso modo di agire pubblico dove l’esercizio di un public power arretra, o si disperde volutamente, «riversando competenze legislative ad organi non eletti dai cittadini» [11].
La Corte Costituzionale in questo momento di militante decretazione d’urgenza, di cessione, concentrazione del potere legislativo nei palmi del potere esecutivo (l’uomo solo al comando), illumina l’oscurità delle menti, richiamando il diritto sostanziale delle libertà civili dove il voto e la dignità non posso essere compromessi.
Note
[1] Cfr. BARBERA – FUSARO, Il governo delle democrazie, Bologna, 1997, pagg. 8 – 9 dove si analizzano le forma di governo democratico, distinguendolo dalle altre forme di Stato (assoluto, liberale, liberaldemocratico, socialista).
[2] Cfr. l’art. 1, comma 2 Cost., «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
[3] Il grado di democrazia è rapportato al pluralismo sociale, ovvero alla pluralità di attività presenti nella società, «libere di esprimere le proprie vedute e anche di manifestare pubblicamente le proprie (diverse) opinioni. Una società civile viva e vibrante si mobiliterà se lo stato di diritto verrà violato, e potrà anche controllare le eventuali propensioni illiberali di una maggioranza democratica», DAHRENDORF, Un’elezione non fa democrazia, La Repubblica, 8 dicembre 2005, pag. 21.
[4] Cfr. Corte Cost., 23 maggio 2007, n. 171.
[5] Assistiamo da tempo ad una decretazione d’urgenza su tutte le materie in assenza dei presupposti di legge, anzi in sede di conversione dei D.L. è sistematico l’inserimento di nuovi commi e di intere parti del testo di legge. Vedi, sul punto, Corte Cost., 13 luglio 2020, n. 149, ove si annota tale anomalia dell’inserimento di norme estranee al contesto o aventi caratteri di eterogeneità rispetto all’oggetto o alla finalità del D.L., spezzando il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed “i provvedimenti provvisori con forza di legge”, di cui al comma secondo dell’art. 77 Cost., «rispetto al riparto costituzionale dei poteri, che rappresenterebbe la ratio dei rigorosi presupposti alla cui sussistenza è subordinata l’esercitabilità da parte del Governo del potere accordatogli, in via straordinaria, dalla Costituzione e della natura precaria e temporanea che contraddistinguerebbe l’efficacia dei provvedimenti d’urgenza di matrice governativa». Cfr. Corte Cost., sentenza n. 32/2014 e n. 22/2012, nonché l’ordinanza n. 17/2019.
[6] La nozione di “Stato” può considerarsi come punto di imputazione di diritti e obblighi (ossia, come persona giuridica pubblica), oppure «come società organizzata… come comunità di persone (popolo) stanziata su un territorio ed organizzata secondo un ordinamento giuridico, che ha il carattere della originari età (sovranità)», VIRGA, Diritto Costituzionale, IX ed. 1979, in LexItalia.it, 2010.
[7] Significativo il discorso pronunciato da LINCOLN a Gettysburg nel 1863 per sostenere la validità di un sistema democratico: «government of the people, by the people, for the people» (governo del popolo, dal popolo, per il popolo).
[8] Libere elezioni e rappresentanza. Trattasi di un diritto politico fondamentale (elettorato passivo) riconosciuto e garantito a ogni cittadino con i caratteri propri dell’inviolabilità (ex art. 2 Cost.), «un diritto che, essendo intangibile nel suo contenuto di valore, può essere unicamente disciplinato da leggi generali, che possono limitarlo soltanto al fine di realizzare altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali, senza porre discriminazioni sostanziali tra cittadino e cittadino, qualunque sia la Regione o il luogo di appartenenza», Corte Cost., 3 marzo 1988, n. 235.
[9] BARBERA, I parlamenti, Roma, 2003, pag. 64.
[10] Cfr. Corte Cost., sentenza n. 251/2016, dove è ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni di delega al Governo contenute nella legge n. 124/2015, con riguardo alla disciplina del pubblico impiego, delle società partecipate, dei servizi pubblici locali e della dirigenza.
[11] La democrazia partecipata e il popolo sovrano, mauriziolucca.com, 4 agosto 2018.
Fonte: articolo dell'Avv. Maurizio Lucca, Segretario generale Amministrazioni Locali