Un tema particolarmente delicato e complesso è quello delle retribuzioni spettanti ai dipendenti pubblici, che, per molti di loro, risultano di gran lunga al di sotto dell’inflazione: “bloccate” in particolare quelle del personale degli enti locali e della scuola.


L’ennesima beffa per gli statali, che si aggiunge alle questioni già affrontate sulle nostre pagine relative alla ritardata erogazione e al blocco degli anticipi di TFR/TFS.

Ebbene, dalle trattative sindacali in corso per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego nel triennio 2022-2024 emerge, purtroppo, una realtà ben nota: gli aumenti retributivi restano al di sotto dell’inflazione registrata nello stesso periodo.

Tuttavia, con le risorse previste dalla recente manovra finanziaria, per la prima volta vengono fissati gli stanziamenti per i prossimi rinnovi contrattuali, che garantiranno un adeguamento rispetto all’incrementato costo della vita.

Attenzione però, perché questo meccanismo non si applicherà a tutti i dipendenti della PA.

A rimanere esclusi saranno il settore scolastico e, in particolare, gli enti locali, i cui lavoratori continueranno a percepire un salario inferiore rispetto a dipendenti di altri comparti. Una disparità di trattamento che sta già innescando una progressiva fuga di lavoratori da Comuni e Province verso le amministrazioni centrali.

I dati del rapporto Aran

Il più recente “Rapporto semestrale sulle retribuzioni nella Pa”, elaborato dall’Aran, offre una panoramica ampia e approfondita sul quadro salariale del settore pubblico.

Il principale elemento di criticità è costituito dall’inflazione registrata nel biennio 2022-2023, in gran parte alimentata dal rincaro dell’energia. Secondo l’analisi dell’Aran, il blocco delle trattative ha prodotto un effetto evidente: mentre nel settore privato nel 2023 le retribuzioni contrattuali del personale non dirigente sono aumentate in media del 3,9%, nel pubblico l’incremento è stato appena dello 0,1%. Un aumento irrisorio, che non fa altro che aumentare il già ampio divario tra impiego pubblico e privato.

Un altro nodo irrisolto riguarda le modifiche normative ancora ferme, il cui impatto è ancora più rilevante nel pubblico impiego rispetto al settore privato. Il presidente dell’Aran, Antonio Naddeo, sottolinea infatti come temi quali orario di lavoro, permessi, smart working, buoni pasto e riduzione della settimana lavorativa rappresentino aspetti cruciali per garantire diritti e tutele ai lavoratori.

L’evoluzione delle retribuzioni e il confronto con l’inflazione

L’analisi dei dati retributivi evidenzia il peso dell’inflazione rispetto agli adeguamenti salariali. Nel triennio 2022-2024, gli stanziamenti previsti ammontano complessivamente a 10,8 miliardi di euro, con incrementi medi tra il 6% e il 7,3%, mentre l’indice armonizzato dei prezzi al consumo al netto degli energetici importati (IPCA-NEI) è cresciuto del 15,4%.

Se si osserva il precedente periodo 2019-2021, il rapporto tra aumenti salariali e inflazione risulta invertito: le retribuzioni sono cresciute tra il 5,2% e l’8,1%, mentre l’Ipca si è attestato al 2,2%.

Nel triennio 2016-2018, invece, la situazione si presentava più complessa: sebbene gli aumenti contrattuali fossero pari al 3,5%, quasi il doppio dell’Ipca (1,8%), il blocco dei rinnovi imposto dal 2010 aveva già determinato una perdita cumulata del potere d’acquisto del 9,2%.

Secondo le stime per il triennio 2025-2027, si prevede un progressivo riallineamento tra crescita salariale e inflazione. Complessivamente, nel periodo 2016-2027, il riequilibrio retributivo interesserà ministeri, agenzie fiscali ed enti pubblici non economici, con un incremento medio di circa 562 euro, così come la sanità, con una crescita di 530 euro.

La marginalizzazione di enti locali e scuola: le retribuzioni più “bloccate” nella PA

Destino diverso per il personale scolastico e gli enti territoriali, dove gli aumenti medi saranno rispettivamente di 400 e 390 euro, a fronte di un’inflazione complessiva del 25,4%.

A determinare l’ampliarsi delle disparità tra i comparti concorrono due fattori. Da un lato, la scelta di applicare aumenti percentuali uguali per tutti penalizza inevitabilmente i lavoratori che percepiscono stipendi più bassi. Dall’altro, alcuni settori hanno beneficiato di risorse aggiuntive esterne alla contrattazione collettiva, come i 190 milioni di euro stanziati dal recente decreto per il fondo accessorio destinato ai ministeri. Gli enti locali, invece, non hanno potuto accedere a fondi straordinari, consolidando così la loro posizione di fanalino di coda nella scala retributiva del pubblico impiego.

Questa disparità retributiva sta alimentando una progressiva emorragia di personale dai Comuni e dalle Province, con un trasferimento di lavoratori verso le amministrazioni centrali, che offrono condizioni economiche più vantaggiose. Un fenomeno che rischia di accentuare le difficoltà operative degli enti territoriali, già alle prese con carenze di organico e difficoltà nell’attrarre nuove risorse professionali.