Illegittimità delle proroghe dei contratti a termine: ecco alcune indicazioni enunciate dalla Cassazione nella Sentenza n. 16336/2017.
La Corte di cassazione, nella sentenza n. 16336/2017 da un lato, affronta l’illegittimità delle proroghe dei contratti a termine anche se previste dal legislatore e dall’altro, stabilisce il principio secondo cui l’eventuale successiva stabilizzazione del citato personale a temine, rende le eventuali sanzioni previste dalla normativa non giustificabili a fronte del raggiunto «bene della vita» da parte del personale stabilizzato.
Il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni.
Il lavoratore a termine nel pubblico impiego, se il termine è illegittimamente apposto, perde la chance della occupazione alternativa migliore e tale è anche la connotazione intrinseca del danno, seppur più intenso, ove il termine sia illegittimo per abusiva reiterazione dei contratti.
La mera autorizzazione ad avvalersi del personale in precedenza assunto a termine ex lege n. 242 del 2000 e, di volta in volta, in base alla successiva disposizione di proroga, non esonera il datore di lavoro pubblico, per darvi corso legittimamente, dall’osservanza delle previsioni di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 368 del 2001, in particolare con riguardo al limite temporale, alla sussistenza di ragioni oggettive e alla riferibilità alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto era stato stipulato a tempo determinato, elementi che avrebbero dovuto risultare dai singoli contratti e il cui onere della prova grava sul datore di lavoro, nella specie il Ministero che non ha offerto deduzioni e allegazioni in tal senso.
Ciò trova conferma in quanto affermato dalla CGUE con la sentenza del 14 settembre 2016, causa C-16/15,
«una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale ed astratto, attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, non sarebbe conforme agli obblighi precisati al precedente punto della presente sentenza»,
e cioè che la nozione di ragione obiettiva
«deve essere intesa nel senso che si riferisce a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare, in quest’ultimo peculiare contesto, l’utilizzo di una success ione di contratti di lavoro a tempo determinato. Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro».
In allegato il testo completo della Sentenza.