L’analisi dell’Avvocato Maurizio Lucca si sofferma su una sentenza riguardante l’operazione di riciclaggio e il c.d. minimo etico.
- Operazione di riciclaggio e c.d. minimo etico: il caso
- Il riciclaggio e le operazioni sospette
- Operazione di riciclaggio e c.d. minimo etico: la condotta intenzionale
- L’assenza della fattispecie nel codice etico e la mancata pubblicazione del codice disciplinare
- Il dovere c.d. minimo etico
- Conflitto di interessi: una questione etica
Operazione di riciclaggio e c.d. minimo etico: il caso
La sez. Lavoro della Corte di Cassazione, con la sentenza 9 luglio 2021, n. 19588, interviene sui doveri di condotta, profili che si possono paragonare anche a quelli del dipendente pubblico, dove l’obbligo di fedeltà, ex art. 2015 cod. civ., deve conciliarsi con il mantenimento di un comportamento corretto e trasparente verso il datore di lavoro, specie quando la violazione è immediatamente percepibile ex se come illecita [1].
La questione affronta il licenziamento per giusta causa di un dipendente che avrebbe consentito in qualità di impiegato responsabile «numerose operazioni irregolari in posizione di conflitto di interessi… senza effettuare le dovute valutazioni ai fini della normativa antiriciclaggio».
Il riciclaggio e le operazioni sospette
L’art. 3, Reati di riciclaggio, della Direttiva (Ue) 2018/1673 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2018, sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto pena, stabilisce che:
«Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che le condotte seguenti, qualora poste in atto intenzionalmente, siano punibili come reati:
- a) la conversione o il trasferimento di beni, effettuati essendo nella consapevolezza che i beni provengono da un’attività criminosa, allo scopo di occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni medesimi o di aiutare chiunque sia coinvolto in tale attività a sottrarsi alle conseguenze giuridiche della propria condotta;
- b) l’occultamento o la dissimulazione della reale natura, della provenienza, dell’ubicazione, della disposizione, del movimento, della proprietà dei beni o dei diritti sugli stessi nella consapevolezza che i beni provengono da un’attività criminosa;
- c) l’acquisto, la detenzione o l’utilizzazione di beni nella consapevolezza, al momento della loro ricezione, che i beni provengono da un’attività criminosa».
Il riciclaggio (ex art. 648 bis, c.p.) si presenta quando il soggetto sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa, mentre il reato di autoriciclaggio (che ha natura istantanea, ex art. 648 ter.1, c.p.) si consuma nel momento in cui vengono poste in essere le condotte di impiego, sostituzione o trasformazione di beni costituenti l’oggetto materiale del delitto presupposto, nessun rilievo dovendo riconoscersi, ai fini della consumazione, alla circostanza che gli effetti delle condotte indicate si protraggono nel tempo [2].
Il delitto di riciclaggio [3] è, dunque, un reato a forma libera attuabile anche con modalità frammentarie e progressive (un reato di pericolo a tutela anticipata a condotta libera che presume la consapevolezza della provenienza illecita e il mascheramento dei flussi delle somme di denaro), rilevando che ove più siano le condotte consumative del reato, attuate in un medesimo contesto fattuale e con riferimento ad un medesimo oggetto, si configura un unico reato a formazione progressiva, che viene a cessare con l’ultima delle operazioni poste in essere: l’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio è integrato dal dolo generico, che ricomprende la volontà di compiere le attività volte ad ostacolare (ed è questo il cardine della condotta) l’identificazione della provenienza delittuosa di beni od altre utilità, nella consapevolezza di tale origine, e non richiede alcun riferimento a scopi di profitto o di lucro [4].
In questo senso, la norma incriminatrice del reato di riciclaggio è speciale rispetto a quella del reato di ricettazione perché richiede che il dolo si qualifichi non per una generica finalità di profitto ma per lo scopo ulteriore di far perdere le tracce dell’origine illecita.
L’art. 1 del Comunicato UIF del 4 maggio 2011 definisce «operazione sospetta» l’operazione che per caratteristiche, entità, natura o per qualsivoglia altra circostanza conosciuta in ragione delle funzioni esercitate, tenuto conto anche della capacità economica e dell’attività svolta dal soggetto cui è riferita, in base agli elementi a disposizione del segnalante, acquisiti nell’ambito dell’attività svolta ovvero a seguito del conferimento di un incarico, induce a sapere, sospettare o ad avere motivo ragionevole per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo: rimarcando quella condotta fraudolenta il cui scopo è di far perdere le tracce (lavaggio) della provenienza illecita del denaro.
Operazione di riciclaggio e c.d. minimo etico: la condotta intenzionale
In sede territoriale venivano provati gli addebiti contestati, dai quali emergeva che l’interessato assumeva condotte connotate da «intenzionalità finalisticamente orientata a mettere all’incasso polizze assicurative della cliente … procurando (mediante la modifica del beneficiario) un ingiusto profitto alla madre…, come poteva desumersi dalla impressionante catena di irregolarità successive enunciate in ordine cronologico nella lettera di contestazione».
L’attività posta in essere presuppone una coscienza vigile (dolosa) di alterare le regole di condotta attinenti a quel dovere di diligenza che impone l’obbligo di fedeltà il quale sancisce di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi: caratteri che attengono al principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.), che impone a ciascuna delle parti il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge [5].
È noto che il dovere di fedeltà si sostanzia nell’obbligo giuridico del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, tali dovendosi considerare anche quelle che, sebbene non attualmente produttive di danno, siano dotate di potenziale lesività [6].
Alterare il beneficiario del credito, così come presentare un titolo di studio falso per accedere ad un posto pubblico, dimostra chiara la rappresentazione e la volontà del comportamento antidoveroso, quale piena consapevolezza della natura illecita dell’azione reiteratamente posta in essere, integrando non solo la violazione del codice etico ma, altresì, del «più elementare dovere di diligenza e degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175, 1376, 2105 c.c. … con conseguenti “gravissimi effetti dannosi per la datrice di (omissis) in termini sia morali (gravissimo danno di immagine) e patrimoniali, esponendo la banca alle azioni risarcitorie degli eredi della (omissis)».
La gravità può essere ancor maggiore ove il soggetto ricopra una posizione di vertice, ossia di vigilanza rispetto all’intera attività dell’ufficio di appartenenza.
L’assenza della fattispecie nel codice etico e la mancata pubblicazione del codice disciplinare
La difesa nel ricorso denunziava la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 della legge n. 300 del 1970, 6 della legge n. 604 del 1966 e 30 della legge n. 183 del 2010, non avendo considerato nel giudizio della Corte territoriale che il “codice etico aziendale” non prevedeva espressamente tale precetto, neppure si poteva correlare sanzioni ad una condotta non tipicizzata: la sanzione disciplinare non si ancorava alla violazione di alcuna norma stabilita a livello contrattuale, mancando peraltro la dovuta pubblicazione (alias affissione) del “codice disciplinare” recapitato/diffuso ai dipendenti solo in via informatica.
Il codice etico nulla prevedeva sul punto contestato, mentre il codice disciplinare non ipotizzava tale condotta come sanzionabile: manca la base giuridica, e, dunque, il licenziamento non è fondato.
Il dovere c.d. minimo etico
La Corte rileva che il licenziamento è stato disposto non tanto sulla violazione di prescrizioni specifiche, di natura tecnico-operativa, descritte nel codice etico, ma su un inadempimento ai generali obblighi di diligenza, correttezza, buona fede previsti dal codice civile, anche in considerazione del ruolo professionale rivestito e del conseguente, più intenso, vincolo fiduciario con il datore di lavoro.
In termini, diversi le censure non possono essere accolte sulla base della mancata correlazione tra infrazioni e sanzioni disciplinari ma su un aspetto più determinante e primario che attiene alla relazione di fiducia tra datore di lavoro e dipendente, relazione che può essere validamente ricondotta a quel dovere c.d. minimo etico sempre esigibile e la cui violazione comporta la rottura definitiva del nesso di affidabilità.
Si comprende che in presenza di una condotta immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito non può persistere alcuna valida motivazione dalla permanenza di un rapporto lavorativo: la predeterminazione dell’illecito riportata nel codice etico e la mancata affissione del codice disciplinare sono del tutto superflue [7].
Il ricorso viene dichiarato inammissibile con condanna alle spese, con piena validità dei motivi di licenziamento che attengono ad un comportamento intenzionale (soprattutto da parte di un lavoratore posto ai vertici aziendali) di arrecare pregiudizio al rapporto negoziale, al dovere di lealtà che deve sempre essere presente e che rientra nel quadro dei doveri ascrivibili alla prestazione lavorativa, una cooperazione insita nel rapporto fiduciario tra il lavoratore e datore di lavoro, quale elemento centrale del funzionamento economico dell’impresa: prestazione finalizzata all’utile datoriale e controprestazione retributiva (sinallagma).
Parimenti, si possono traslare i principi enunciati nelle condotte del funzionario pubblico (ex comma 2 dell’art. 54 Cost.) rigorosamente osservante dei propri doveri, anche etici, d’ufficio, il quale non può abdicare al basilare ruolo di terzietà e indipendenza nelle relazioni professionali e nei rapporti con i terzi in conflitto di interessi, offuscando, così facendo, gravemente l’immagine della P.A. (ex art. 97 Cost.) [8].
Conflitto di interessi: una questione etica
Il “conflitto di interessi” costituisce una situazione che dovrebbe essere percepita immediatamente come pericolosa e contraria al “dovere etico” del dipendente e amministratore pubblico, un dovere di astensione volto a preservare anzitutto la credibilità e la fiducia dell’Amministrazione, e poi del cittadino verso questa, a fronte di situazioni di mero pericolo e verificandosi in tutti i casi in cui sussistano condizioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l’assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari del potere, a prescindere dai profili o dalle conseguenze penali che possono implicare [9].
La prevenzione del conflitto di interessi è volta non solo a garantire l’imparzialità della singola decisione pubblica, ma più in generale a tutelare il profilo dell’immagine di imparzialità dell’Amministrazione: le situazioni di conflitto di interessi, nell’ambito dell’ordinamento pubblicistico non sono tassative, ma possono essere rinvenute volta per volta, in relazione alla violazione dei principi di imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost., quando esistano contrasto ed incompatibilità, anche solo potenziali, fra il soggetto e le funzioni che gli vengono attribuite, ponendola al di sopra di ogni sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia in concreto creato o non un risultato illegittimo [10].
Si può desumere, dal quadro esegetico, che il soggetto deputato ad una funzione pubblica, sia esso un politico o un dirigente, avendo la cura di amministrare beni e risorse collettive dovrebbe marcare questo “onere etico” di indipendenza e terzietà, assolvere il ruolo senza essere portatore di interessi propri, anche indiretti[11], percepire questa linea di pensiero sin nel momento della sua rappresentazione, nella produzione di norme e nella sua applicazione pratica: un c.d. minimo etico, secondo un insegnamento di vita morale: «allora conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi» [12].
Note
[1] Vedi, LUCCA, Il dovere del c.d. minimo etico ascrivibile al dipendente pubblico, lentepubblica.it, 7 giugno 2021.
[2] Cass. pen., sez. II, 4 luglio 2019, n. 38838; per l’integrazione del reato di autoriciclaggio non occorre che l’agente ponga in essere una condotta di impiego, sostituzione o trasferimento del denaro, beni o altre utilità che comportino un assoluto impedimento alla identificazione della provenienza delittuosa degli stessi, essendo, al contrario, sufficiente una qualunque attività, concretamente idonea anche solo ad ostacolare gli accertamenti sulla loro provenienza, Cass. pen., sez. II, 19 marzo 2021, n. 21404.
[3] Vedi, comma 4 dell’art. 2 del Decreto legislativo n. 231/2007, «Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione» (c.d. decreto antiriciclaggio), sul significato di “riciclaggio”.
[4] Cass. pen., sez. II, 17 febbraio 2021, n. 20744.
[5] Cass. civ., sez. lavoro, Ord. 11 febbraio 2021, n. 3543.
[6] Corte Appello Milano, sez. lavoro, 17 settembre 2020.
[7] Cass. n. 17763 del 2004, Cass. n. 1926 del 2011, Cass. n. 13414 del 2013, Cass. n. 7105 del 2014.
[8] Cfr. Corte Conti, sez. giur. Lombardia, 9 marzo 2018, n. 48.
[9] TAR Veneto, sez. II, 9 luglio 2021, n. 908.
[10] TAR Piemonte, sez. I, 14 agosto 2019, n. 948. La definizione normativa, del resto, appare coerente con lo ius receptum per cui le regole sull’incompatibilità, oltre ad assicurare l’imparzialità dell’azione amministrativa, sono rivolte ad assicurare il prestigio della Pubblica Amministrazione, ponendola al di sopra di ogni sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia in concreto creato o meno un risultato illegittimo, Cons. Stato, VI, 13 febbraio 2004, n. 563 e sez. V, 11 luglio 2017, n. 3415.
[11] Si dovrebbe tenere «sotto controllo i conflitti di interessi ma anche quei diffusi fenomeni di “convergenza” tra interessi pubblici, in cui la promozione di un diritto o di un interesse pubblico si riduce a mero alibi per la promozione di un interesse privato… La corruzione più difficile da sanzionare (e che quindi è urgente prevenire) non è il tradimento di un patto fiduciario che il pubblico ufficiale corrotto mette a segno a discapito di tutto il resto del mondo. È piuttosto un fenomeno che ha a che fare con interessi convergenti, che sembra dare stabilità al mondo», DI RIENZO e FERRARINI, Lo Spazio Etico. Viaggio nel mondo dei conflitti di interessi, Azienditalia, 2021, n. 4, pag. 792.
[12] GIOVANNI, 8, 31 – 32.
Fonte: articolo dell'Avv. Maurizio Lucca, Segretario generale Amministrazioni Locali