Il dovere di astensione del dipendente pubblico da qualsiasi intervento, commento o dichiarazione pubblica che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine della Amministrazione pubblica nel nuovo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante modifiche al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici.
In attuazione di quanto previsto dal decreto legge cosiddetto ‘Pnrr 2’ (d.l. n. 36/2022), nei giorni scorsi in Consiglio dei ministri è stato approvato lo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante modifiche al vigente Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (d.p.R. n. 62/2013), ed integrante, peraltro, gli elementi costitutivi della Milestone M1C1-58 del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) di riforma della Pubblica amministrazione, che, come noto, deve essere conclusa entro la scadenza del primo semestre del prossimo anno (30 giugno 2023).
Lo schema di decreto segue invero le direttrici di riforma previste dal Pnrr e aggiorna coerentemente – si legge nell’apposito Comunicato del Ministro per la Pubblica Amministrazione del 1° dicembre u.s. – il Codice vigente del 2013, per adeguarlo al nuovo contesto socio-lavorativo e alle esigenze di maggiore tutela dell’ambiente, del principio di non discriminazione nei luoghi di lavoro e a quelle derivanti dall’evoluzione e dalla maggiore diffusione di internet e dei social media.
Le principali aree di intervento su cui agisce lo schema di decreto de quo sono appunto – si riporta nel succitato Comunicato – la responsabilità attribuita al dirigente per la crescita professionale dei collaboratori, e per favorirne le occasioni di formazione e le opportunità di sviluppo, nonché l’espressa previsione della misurazione della performance dei dipendenti anche sulla base del raggiungimento dei risultati e del loro comportamento organizzativo; l’espressa previsione del divieto di discriminazione basato sulle condizioni personali del dipendente, quali ad esempio orientamento sessuale, genere, disabilità, etnia e religione; l’adozione di comportamenti ‘green’, rispettosi dell’ambiente, per contribuire alla riduzione del consumo energetico, della risorsa idrica (tra gli obiettivi figura anche la riduzione dei rifiuti e il loro riciclo), nonché la previsione che le condotte personali dei dipendenti realizzate attraverso l’utilizzo dei social media non debbano in alcun modo essere riconducibili all’Amministrazione di appartenenza o lederne l’immagine ed il decoro.
Nuovo Codice di Comportamento dipendenti pubblici: alcuni dettagli
Più nel dettaglio, proprio su questo ultimo fronte, l’art. 1 (Modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62) del Regolamento concernente modifiche al decreto del presidente della repubblica 16 aprile 2013, n. 62 di cui allo schema di decreto in argomento, contempla tra le modificazioni apportate (rectius da apportarsi) al vigente Codice l’introduzione, dopo l’art. 11, dell’art. 11-bis (Utilizzo delle tecnologie informatiche), nonché dell’art. 11-ter (Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media), il cui comma 1 introduce l’obbligo per il dipendente di utilizzare gli account dei social media di cui è titolare in modo che le opinioni ivi espresse e i contenuti ivi pubblicati, propri o – si badi bene – anche di terzi, <<non siano in alcun modo attribuibili all’amministrazione di appartenenza o possano, in alcun modo, lederne il prestigio o l’immagine>>.
Il nuovo articolo 11-ter prosegue statuendo altresì il divieto per il dipendente di trattare comunicazioni, afferenti direttamente o indirettamente al servizio, attraverso conversazioni pubbliche svolte su qualsiasi piattaforma digitale, nonché – aspetto quest’ultimo su cui vale la pena soffermarsi – il dovere, in ogni caso, di <<astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione>>, non solo di appartenenza, bensì della pubblica amministrazione in generale, travalicando, per certi versi, i limiti – esterni ed interni – che in generale discendono dal cd. pactum fiduciae che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore sul diritto di critica di quest’ultimo nei confronti unicamente del proprio datore di lavoro, e non anche (come si vorrebbe) dell’intero insieme degli enti pubblici che incarnano la Pubblica Amministrazione nella sua complessa ed articolata configurazione, potendo in ogni caso una eventuale violazione dell’“obbligo di fedeltà” del lavoratore configurarsi nei confronti del proprio datore di lavoro.
Nuovo Codice di Comportamento dipendenti pubblici: il riflesso sulla PA
Analoga estensione del dovere di astensione de quo, non solo nei riguardi dell’amministrazione di appartenenza ma anche della pubblica amministrazione in generale, è poi ripetuta nell’innesto che il medesimo articolo dello schema di decreto in esame opera all’interno dell’art. 12 (Rapporti con il pubblico) del vigente Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, con l’aggiunta delle parole «o che possano nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale», di talché la disposizione normativa di risulta porterebbe a sancire il dovere di astensione del dipendente pubblico, non solo da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti della propria amministrazione, bensì da dichiarazioni pubbliche <<che possano nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale>>, fatto comunque salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni <<a tutela dei diritti sindacali>>, “esimente” quest’ultima alquanto riduttiva che – a parer di chi scrive – non par in grado di offrire il giusto livello di tutela alla libertà di manifestare il proprio pensiero costituzionalmente garantita dall’art. 21 della Costituzione, a tenor del quale – appare utile ricordarlo – <<tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione>>, avuto riguardo, a fortiori, alla previsione di cui all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, a mente del quale <<ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera…>>, il tutto senza omettere di prendere in considerazione che peraltro, sul fronte lato sensu privatistico, anche lo Statuto dei lavoratori – all’art. 1 rubricato “Libertà di opinione” – sancisce che <<i lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge>>.
Il ruolo dei social media e del web
Le implicazioni giuridiche prima e pratiche dopo di detta nuova formulazione (giuridica) del dover di astensione – imposto al dipendente pubblico – da interventi che in qualche maniera possano portare nocumento al prestigio, al decoro o all’immagine, non solo dell’amministrazione di appartenenza, ma di tutta la pubblica amministrazione in generale appaiono meritevoli di attenta considerazione specie ove si abbia riguardo all’importanza ed al ruolo che, nell’epoca attuale, giocano la tecnologia, il web ed in particolare i social network quali fondamentali canali di informazione di massa utilizzati ormai dalla gran parte delle amministrazioni e delle istituzioni pubbliche nonché da pressoché la totalità degli esponenti del mondo politico, presso i quali peraltro le principali testate giornalistiche hanno attivato le relative pagine ufficiali di informazione e diffusione di notizie, molte delle quali interessanti le pubbliche istituzioni, il mondo della politica, e comunque la gestione della cosa pubblica in genere cui è preposto lo Stato-Amministrazione, non di rado relative a fatti ed avvenimenti che portano con sé un certo disvalore rispetto ai principi – per lo più di rango costituzionale – che governano l’agere pubblico, e come tali portanti la Comunità tutta, compresi i dipendenti dei vari comparti del pubblico impiego, ad esprimere opinioni, pensieri, riflessioni e financo giudizi, anche di disappunto se del caso, in relazione agli stessi, nel solco della massimalizzazione della democraticità sottesa peraltro alle riforme della pubblica amministrazione degli ultimi anni che sempre più hanno spostato l’asse della cd. accountability della governance pubblica verso un controllo diffuso rimesso ai cittadini di quella Comunità organizzata (e i dipendenti pubblici non potrebbero, da questo punto di vista, esser considerati cittadini di serie B, ai quali inibire il diritto di esprimersi su fatti che riguardino amministrazioni diverse da quella alla quale appartengono).
Non risulta pertanto difficile comprendere come, atteso il costante uso che ai giorni nostri si fa nella quotidianità dei predetti social media, per il dipendente pubblico sia alto il rischio di incappare in possibili sanzioni disciplinari in ragione dell’integrazione di taluna delle infrazioni di cui alle descritte nuove ipotesi previste dallo schema del nuovo Codice di comportamento ove dovesse essere approvato nella relativa suddetta versione, data la non del tutto controllabile possibilità di veder pubblicate sulla propria bacheca opinioni e contenuti pubblicati anche da terzi, anche attraverso la tecnica della condivisione e/o ricondivisione ovvero dei cd. re-tweet o del cd. tagging.
Non possono d’altronde disconoscersi gli arresti giurisprudenziali che escludono la sanzionabilità del lavoratore che avanza critiche a mezzo social network nei confronti del proprio datore di lavoro utilizzando toni pacati e riferimenti non offensivi e/o denigratori.
Una rigida applicazione del nuovo disposto normativo potrebbe condurre alla aberrante condizione di poter essere sanzionati anche solo per aver condiviso e/o commentato una qualsiasi notizia – di per sè suscettibile di ledere il prestigio, il decoro o l’immagine dell’amministrazione coinvolta – sebbene quest’ultima non rappresenti il proprio datore di lavoro, con il grave rischio delle più disparate e arbitrarie decisioni in merito, e della consequenziale potenziale compromissione della libertà di pensiero costituzionalmente tutelata.
Si deve peraltro rilevare che, ai sensi del comma 4 dell’art. 11-ter in commento, la ricavabilità dalle piattaforme social o l’espressa indicazione in esse delle qualifiche professionali o di appartenenza del dipendente costituirebbero elemento valutabile ai fini della gradazione della eventuale sanzione disciplinare da comminarsi in caso di violazione delle sopra illustrate disposizioni di cui ai primi tre commi del medesimo articolo, quasi disconoscendo che la registrazione nei principali social network richiede l’inserimento dei propri dati personali, anagrafici, ivi compresi quelli riguardanti la tipologia della relativa occupazione, non condividendosi l’impostazione di una eventuale estensione di tale – di fatto – condizione aggravante all’eventuale caso di interventi via social che non riguardino l’amministrazione di appartenenza.
Pur riconoscendo la necessità di un intervento normativo sulla tematica in argomento e la bontà dell’impianto generale dello stesso, ove però alle sue accennate aberranti implicazioni dell’attuale formulazione dello schema di decreto in esame non dovesse porsi rimedio con appositi correttivi in sede della relativa definitiva approvazione, per il superamento e/o la mitigazione delle stesse potrebbe rivelarsi utile la previsione del comma 5 dell’art. 11-ter, in forza del quale è consentito alle pubbliche amministrazioni dotarsi – nell’ambito dei Codici di comportamento – di una cd. “social media policy”, addirittura – si legge – per ciascuna tipologia di piattaforma digitale (previsione quest’ultima che appare alquanto farraginosa), al fine di adeguare alle proprie specificità le disposizioni di cui al medesimo articolo.
In particolare, la “social media policy” dovrebbe individuare, graduandole in base al livello gerarchico e di responsabilità del dipendente, da un lato, le condotte che possono danneggiare la reputazione delle amministrazioni, e, dall’altro, le modalità di rilevazione delle violazioni delle disposizioni in esame (con un dispendio non indifferente di energie ove l’indagine dovesse riguardare qualsivoglia intervento, proprio o di terzi, in qualsiasi piattaforma/social media potenzialmente dannoso nei confronti di tutta la pubblica amministrazione in generale).
Proprio in tale sede, in difetto di un auspicato intervento correttivo in fieri da parte del legislatore, magari sollecitato dalle organizzazioni sindacali che della tutela dei principali diritti dei lavoratori dovrebbero fare la loro ragion d’essere, si potrebbe dunque tentare di conseguire quel delicato equilibrato equilibrio tra tutela dell’immagine della P.A. e diritto di critica del lavoratore in genere che, in caso di conferma dell’obbligo di astensione da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine, non solo dell’amministrazione di appartenenza, bensì della pubblica amministrazione, potrebbe rischiare di risultare compromesso a scapito della fondamentale libertà di manifestare il proprio pensiero costituzionalmente garantita dall’art. 21 della Costituzione, in uno Stato liberale pur sempre meritevole di esser presidiata anche a costo del rischio della causazione di un eventuale danno reputazionale alla PA, non potendosi, in ultima analisi, abdicare al diritto di indignarsi.
Fonte: articolo dell' Avv. Giuseppe Vinciguerra - Segretario Generale Comune di Aragona
Sarebbe gia’ troppo tardi far assumere la responsabilità del proprio ruolo a ogni dipendente? Non si riesce più a parlare con alcuno se non tramite mail che quasi puntualmente vengono poi disattese. Con i dirigenti non si riesce più a parlare da circa 10 anni e nessuno si assume la responsabilità fregandosene della norma che li obbligherebbe a risposte in tempi certi.