Ancora flessibilità in uscita per le pensioni. La questione rimane ben salda nell’agenda del Governo, ha assicurato, il presidente dell’INPS, Tito Boeri. A Boeri, oggi ha fatto eco, il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che a margine dell’assemblea di Rete Imprese Italia ha ribadito che sulla flessibilità, l’Esecutivo sta lavorando a soluzioni che siano “economicamente sostenibili e socialmente eque. Per il Ministro i margini di un intervento sulle pensioni sono stretti a causa dell’ampio debito pubblico che il Governo ha ereditato dal passato e che, pertanto, è necessario studiare ipotesi quasi neutre da un punto di vista finanziario. “La Legge Fornero ha prodotto risparmi già contabilizzati all’interno del bilancio dello stato per gli anni a venire e, pertanto, qualsiasi scostamento da tali valori necessita di apposite coperture” ha detto Poletti. Non facili da individuare.
Non possiamo fare – ha spiegato Poletti – un’operazione secca che dice via il 3% per tutti: c’è chi guadagna 700 euro e chi 3mila euro, e c’è anche chi è disoccupato”. Per questo “stiamo lavorando a costruire una cosa complessa, che risponda a due parametri: deve essere economicamente sostenibile e socialmente equa”. Dunque “serve qualcosa di più raffinato”, ha specificato il Ministro a chi gli chiedeva dell’ipotesi di rendere obbligatoria l’adesione ad un fondo pensione per la flessibilità in uscita, il ministro ha risposto: “Siamo ancora troppo indietro da questo punto di vista”.
Per introdurre la flessibilità resta, quindi, in prima linea nelle intenzioni del Governo il prestito pensionistico con il coinvolgimento del settore bancario, il cd. APE, in modo da scaricare i costi dell’anticipo fuori dalla contabilità pubblica. Un’idea non facile da realizzare. Come già anticipato da pensionioggi nei giorni scorsi il progetto prevede un meccanismo con penalità legate al reddito a partire dai lavoratori che abbiano raggiunto i 63 anni e 7 mesi di età. Cioè con non più di tre anni dall’età pensionabile di vecchiaia. La decurtazione potrebbe risultare quasi assente per i disoccupati che abbiano terminato la durata degli ammortizzatori sociali, del 2-3% per ogni anno di anticipo per i lavoratori in occupazione con redditi sino a 1.500 euro (tre volte il trattamento minimo) e superiore al 3% per prestazioni superiori a 1500 euro lordi al mese. Difficile per ora spingersi oltre in assenza di un disegno chiaro. C’è da augurarsi che l’intervento contempli modifiche anche di altra natura come ad esempio il discorso delle ricongiunzioni onerose, dei lavori usuranti e dei lavoratori precoci.
Camusso: manca ancora il progetto
A margine della stessa assemblea, sull’argomento è intervenuta Susanna Camusso, leader della CGIL, che ha dichiarato: “il Governo dice di essere pronto a intervenire sulle pensioni per introdurre meccanismi di flessibilità in uscita dal lavoro, ma per il momento i sindacati non sono stati chiamati a un tavolo di confronto. Abbiamo solo visto tanti titoli di giornali e dichiarazioni del presidente del Consiglio, – ha detto la Camusso – Non c’e’ altro, punto”.
Uil: l’anticipo sarà molto costoso per i lavoratori
Secondo l’ufficio politiche previdenziali della Uil uscire in anticipo potrebbe costare a chi dovrebbe ricevere un assegno da 1.500 euro lordi fino a 2.340 euro l’anno, se si applicasse un taglio lineare del 4% l’anno, che arriverebbe quindi al 12% uscendo 3 anni prima. Chi dovrebbe percepire un assegno da 3.000 euro arriverebbe invece a perdere quasi 5 mila euro l’anno. Chi avrebbe diritto a un assegno da 1.000 euro al mese, cioè 13.000 euro lordi annui “vedrebbe la propria pensione tagliata di 520 euro l’anno” con un anticipo di un anno, che salgono a 1.040 con due e a 1.560 con tre. Per chi si trova all’incirca sopra tre volte il minimo, con un “trattamento di 19.500 euro lordi annui” si tratterebbe invece di “rinunciare a 780 euro per un anno di anticipo, a 1.560 euro per due anni, e con 3 anni di anticipo a 2.340 euro”. Se l’assegno sale a 3 mila euro lordi mensili il taglio può arrivare a 4.680 euro.