Lo sostiene una recente sentenza della Cassazione, la numero 11870/2024: il dipendente che subisce un demansionamento ha il diritto di richiedere un risarcimento.
La sentenza della Corte di Cassazione, riguarda un caso di demansionamento di un dipendente trasferito da mansioni direttive presso una sede centrale a mansioni operative in una sede periferica. Il ricorrente ha impugnato tale trasferimento, chiedendo il riconoscimento del demansionamento, la reintegrazione nelle mansioni precedenti e il risarcimento del danno.
Si tratta di una decisione che, apriosticamente dal quadro specifico di riferimento, può avere un effetto globale sui diritti sindacali del lavoratore a prescindere dal suo impiego (se pubblico o privato) e a prescindere dalla sua posizione lavorativa di partenza.
Che cosa si intende per demansionamento? Perché può essere considerato un illecito?
Il demansionamento si verifica quando un lavoratore viene spostato da mansioni o posizioni lavorative per le quali è stato originariamente assunto, ad altre mansioni o posizioni considerate inferiori o meno qualificate. Questo può avvenire per varie ragioni, come una riorganizzazione lavorativa, una riduzione delle attività o una decisione unilaterale del datore di lavoro.
Il demansionamento può essere considerato un illecito quando non è giustificato da motivi validi o quando viola le normative del contratto collettivo di lavoro, le leggi sul lavoro o i diritti del lavoratore. Ad esempio, se il demansionamento è basato su discriminazioni illegali (come quelle legate al genere, all’età o all’orientamento sessuale) o se è una forma di rappresaglia per l’esercizio di diritti sindacali o per segnalazioni di violazioni delle norme aziendali, è illegittimo.
Inoltre, il demansionamento può rappresentare una fattispecie illegale se comporta una diminuzione significativa del salario, delle condizioni di lavoro o delle prospettive di carriera del lavoratore senza un giusto motivo. Questo può violare il principio del “patto fiduciario” tra datore di lavoro e dipendente, secondo il quale il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire al dipendente mansioni adeguate alle sue competenze e al suo livello di preparazione professionale.
Diritto al risarcimento per il dipendente in caso di demansionamento
La Corte di Cassazione ha esaminato pertanto attentamente il caso riguardante il demansionamento e il risarcimento del danno, mettendo sotto la lente diversi aspetti cruciali della questione.
Riguardo al primo motivo del ricorso principale, relativo alla persistenza del demansionamento, la Corte ha confermato questa valutazione, evidenziando la continuità nel tempo del’azione colposa del datore di lavoro nel mantenere la situazione di demansionamento. Ciò suggerisce che il datore di lavoro ha continuato ad assegnare al dipendente mansioni inferiori nonostante ci fossero elementi per stabilire l’illegittimità di tale azione. Ci troviamo di fronte dunque a un cosiddetto illecito permanente: la situazione viene instaurata dalla
condotta iniziale e mantenuta successivamente, violando il diritto alla professionalità del dipendente.
Per quanto riguarda il secondo motivo, la Corte ha stabilito che l’articolo 2103 del codice civile può essere applicato anche in assenza di una suddivisione specifica dei livelli professionali, purché le mansioni siano riconducibili alla stessa categoria legale. Questo significa che anche se non vi è una netta divisione dei ruoli, le mansioni devono comunque essere coerenti con la categoria contrattuale del lavoratore. Pertanto la Corte ha ritenuto che le mansioni assegnate fossero illegittime e ha sostenuto il diritto del lavoratore a una posizione lavorativa conforme.
Pertanto, in tal caso, il demansionamento costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro: di conseguenza va riconosciuta una dimensione patrimoniale al danno, che lo rende in conclusione suscettibile di risarcimento.
Il testo della sentenza
Fonte: articolo di redazione lentepubblica.it