coronavirus-esenzione-servizio-dipendenti-pubbliciUna riflessione su Coronavirus ed esenzione dal servizio dei dipendenti pubblici nel periodo di emergenza epidemiologica: presupposti, rischi e responsabilità.


Il prolungamento dei termini di efficacia delle misure di contrasto alla diffusione dei contagi da coronavirus fino al 3 maggio 2020 e le difficoltà, strutturali e culturali, nell’organizzazione del lavoro pubblico in modalità agile, come impone l’art. 87, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n.18, aumentano l’interesse e  i dubbi verso la misura residuale della dispensa dal servizio prevista dal legislatore “qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile, anche nella forma semplificata” e risultino utilizzate tutte le ferie pregresse, i congedi, la banca delle ore, la rotazione e gli altri istituti contrattali: in tal caso, l’amministrazione pubblica può “motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio”, considerandolo però presente a tutti gli effetti.

Coronavirus, esenzione dal Servizio per i Dipendenti Pubblici

Fermo restando che la decisione costituisce un tipico atto di gestione del rapporto di lavoro e, quindi, rientra nei poteri gestionali spettanti al dirigente ai sensi dell’art. 107 tuel, il quale li esercita con la capacità del privato datore di lavoro ai sensi dell’art. 89, comma 6 del medesimo testo normativo, sono stati sollevati alcuni dubbi applicativi sia sul contenuto della motivazione, sia anche su eventuali profili di responsabilità in capo al dirigente che dispone l’esenzione, alla luce della previsione normativa a mente della quale “il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge e l’amministrazione non corrisponde l’indennità sostitutiva di mensa”.

Il quadro normativo

Per inquadrare le questioni qui sunteggiate ed in particolare quella afferente la sussistenza dei presupposti della fattispecie di responsabilità amministrativo-contabile per l’esborso della retribuzione ai dipendenti esentati dall’obbligo di prestare l’attività lavorativa, occorre inquadrare il particolare contesto normativo in cui si innesta la disposizione e la disciplina civilistica della sospensione della prestazione lavorativa per cause di forza maggiore, posto che analoghe fattispecie previste dal DPR 3/1957 risultano abrogate a far data dalla privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.

L’analisi deve prendere le mosse dal decreto-legge 23.2.2020, n. 6, convertito dalla legge n. 13/2020, oggi abrogato dall’art.5, comma 1, lett. a) del decreto-legge 25.3.2020, n.19 che ha riscritto il catalogo delle misure che l’autorità amministrativa può applicare per contrastare la diffusione dei contagi rendendole tassative, il cui art. 1, inter alia, alla lett. k) prevedeva la possibilità di disporre con decreto del Presidente dei Consiglio dei Ministri “la chiusura o limitazione dell’attività degli uffici pubblici”.

A fronte di tale previsione, l’art. 19, comma 3 del decreto-legge 2.3.2020, n.9, dispone che durante l’emergenza Coronavirus “i periodi di assenza ed esenzione dal servizio dei dipendenti pubblici delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, imposti dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19 , adottati ai sensi dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6, costituiscono servizio prestato a tutti gli effetti di legge”.

Nonostante autorevoli opinioni contrarie, si ritiene che tale disposizione sia tuttora vigente e non risulti abrogata, nemmeno per continenza, dal comma 3 dell’art. 87 del decreto legge n. 18/2020, in quanto la prima disposizione ha un raggio applicativo differente dalla più recente previsione normativa. [1]

Quella norma, infatti, fuori dai casi in cui l’assenza del dipendente era legata allo stato di malattia o di quarantena con sorveglianza attiva a domicilio, equiparato al ricovero ospedaliero dal comma 1 del citato art. 19 [2],  mirava a non imputare al lavoratore l’assenza dal luogo di lavoro –da cui, come vedremo, discende la sospensione dell’erogazione della retribuzione- allorquando risulta conseguenza immediata e diretta dei provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.l. 6/2020 [3] per contenere la diffusione dei contagi.

La norma mira a tutelare tutti coloro che prestano servizio in uffici pubblici la cui attività risulta sospesa dai Dpcm (servizi educativi dell’infanzia, scuole, università, musei, biblioteche e altri luoghi della cultura) e la cui prestazione lavorativa è, dunque, inesigibile non per impedimento soggettivo del lavoratore né per volontà del datore di lavoro; ha affermato convincentemente la Corte dei Conti, nella memoria trasmessa al Senato il 10 marzo 2020 sul disegno di legge di conversione del decreto-legge 9/2020 (AS 1746), che la norma in esame “interviene per acclarare che laddove le autorità dovessero adottare provvedimenti di chiusura degli uffici, le assenze dovranno essere considerate come servizio effettivamente reso”; si tratta, dunque, di situazioni di assenza dal servizio in conseguenza di provvedimenti autoritativi emessi per arginare la diffusione del contagio virale e che incidono sul rapporto sinallagmatico che caratterizza il lavoro subordinato alle dipendenze di pubbliche amministrazioni.

Tuttavia, le Sezioni Riunite della Corte osservano che “l’eventuale dispensa del dipendente dal rendere la propria prestazione andrebbe valutata tenendo conto delle concrete possibilità di avvalersi di modalità alternative di lavoro a distanza”. Ancora più netto il dossier dell’Ufficio Studi del Senato (pubblicato il 6 marzo 2020) il quale, nel sottolineare che la tutela in questione consegue all’adozione dei DPCM e non di atti di altra autorità, afferma che la fattispecie riguarda “casi di impossibilità derivanti dall’adozione di divieti di accesso o di allontanamento ovvero da misure di chiusura di uffici pubblici”. La rapida evoluzione del contagio virale ha comportato, come noto, l’adozione di molteplici provvedimenti sia da parte dell’autorità statale che delle autorità regionali e locali che, per quanto riguarda il tema di indagine, hanno trovato un approdo (sicuramente non definitivo) nell’art. 87 del d.l. 18/2020 e nell’art. 1, lett. s) del d.l. 19/2020.

Quest’ultima norma, abrogando la prima misura che prevedeva anche la “chiusura” degli uffici pubblici, dispone che con DPCM può essere disposta “la limitazione della presenza fisica dei dipendenti negli uffici delle amministrazioni pubbliche, fatte comunque salve le attività indifferibili e l’erogazione dei servizi essenziali prioritariamente mediante il ricorso a modalità di lavoro agile”.

In buona sostanza, in luogo della generalizzata previsione di poter addivenire anche alla chiusura degli uffici pubblici, il legislatore –pur contemplando la sospensione dell’attività dei musei e degli altri luoghi di cultura oltre che delle attività di istruzione di ogni tipo e di quelle afferenti il servizio giustizia- ha capovolto la prospettiva originaria introducendo la misura della “limitazione della presenza fisica dei dipendenti negli uffici pubblici” da attuare “prioritariamente mediante il ricorso a modalità di lavoro agile”.

In sostanza, la logica che sorregge la strategia di tutela della salute dei dipendenti pubblici e di contenimento del contagio è quella di svuotare gli uffici senza interrompere le attività lavorative che debbono ordinariamente essere svolte in modalità agile semplificata, ai sensi dell’art. 87, commi 1 e 2 del d.l. 18/2020, cioè da casa, al netto delle attività indifferibili che richiedono la presenza in ufficio (o, come più correttamente dice la nuova versione del testo in fase di conversione definitiva, “nei luoghi di lavoro”)  e di quelle connesse alla gestione dell’emergenza.

Ne discende, pertanto, che la dispensa dal servizio di cui al terzo comma dell’originario testo dell’art. 87 del d.l. 18/2020 non consegue a provvedimenti autoritativi dell’organo statale di chiusura di uffici pubblici o di sospensione di attività svolte in uffici o strutture pubbliche, bensì ad un provvedimento datoriale del dirigente che, a valle del processo di riorganizzazione della struttura di riferimento e applicati tutti gli istituti contrattuali che disciplinano congedi, permessi, recuperi e rotazione, non è in grado di consentire la prestazione dell’attività lavorativa del dipendente in modalità agile semplificata (home working) né le prestazioni ordinariamente disimpegnate dallo stesso  afferiscono ad attività ritenute indifferibili e da prestare obbligatoriamente sul luogo di lavoro, avuto riguardo anche alle attività di emergenza.

Il provvedimento datoriale deve essere adeguatamente motivato, in coerenza con l’eccezionalità della previsione normativa, dalla cui applicazione non debbono derivare effetti negativi sull’attività che l’amministrazione nel suo complesso è chiamata ad espletare: da qui discende la necessità di interpretare l’istituto della “rotazione” come misura trasversale all’intera organizzazione, da applicare nel solo rispetto del principio di esigibilità della mansioni di cui all’art. 52 del d.lgs. 165/2001 e smi, non potendo il prestatore contestare nemmeno eventuali modifiche al profilo o alle attività in concreto disimpegnate, risultando pienamente esigibili nel pubblico impiego tutte le mansioni ascrivibili alla categoria contrattuale di inquadramento.

Se volete, invece, maggiori informazioni sulle posizioni organizzative negli Enti Locali, potete consultare il quaderno ANCI con le istruzioni a questo link.

L’attività organizzatrice del Dirigente

L’attività di micro-organizzazione del dirigente, dunque, necessita di una previa analisi di contesto, sia organizzativo che tecnologico, la quale deve essere condivisa con i risultati di analoghe analisi degli altri dirigenti, e con una necessaria ed ineludibile sintesi dei fabbisogni dell’intero ente che chiama in causa il segretario comunale, titolare di funzioni di sovrintendenza e coordinamento dell’attività dei dirigenti. Inutile negare che tale istruttoria e le correlate decisioni datoriali scontano il ritardo, invero comune alla maggior parte delle pubbliche amministrazioni, del processo di digitalizzazione imposto dal CAD approvato con il d.lgs. n. 82 del 2005.

Stando ai dati di Banca d’Italia (memoria presentata al Senato il 25 marzo 2020 nell’ambito dell’esame del ddl 1766 di conversione del decreto legge 18/2020), “secondo l’indicatore DESI della Commissione, il nostro Paese si trova al di sotto della media europea per quanto riguarda la fornitura di servizi pubblici digitali. Nostre elaborazioni dei dati della Rilevazione sulle forze lavoro mostrano che, nel 2019, nella PA meno dell’1 per cento dei lavoratori ha lavorato da casa almeno una volta nel mese di riferimento. I dipendenti pubblici che hanno usato lo smart working sono in media significativamente più giovani e più istruiti (i laureati sono più della metà, contro il 27% tra quelli che non lo hanno usato) e sono occupati in professioni più qualificate, mentre è poco diffuso tra le persone occupate in mansioni di ufficio più operative”.

Tuttavia, occorre sottolineare che il legislatore dell’emergenza mostra di essere consapevole di tale diffuso contesto organizzativo e strutturale, da un lato, semplificando la disciplina dello smart working e le informazioni e comunicazioni da effettuare in caso di sua attivazione, dall’altro, consentendo ai pubblici dipendenti di servizi di strumentazioni informatiche e di rete propri, ed introducendo una norma (art. 75) tesa per il futuro ad accelerare le procedure per l’acquisto degli strumenti informatici a supporto del lavoro agile che si aggiunge ad un’altra norma (art. 18 del d.l. 9/2020 [4]) che autorizza l’aumento del 50% delle quantità massime di forniture di computer portatili e tablet attive presso CONSIP (secondo i dati della Corte dei conti allo stato sono attive 3 convenzioni che scadono a ottobre e novembre prossimi e che riguardano 22.500 portatili e 10.000 tablet; altre 3 gare pubblicate a dicembre 2019 debbono essere ancora aggiudicate: cfr. memoria del 10 marzo 2020 su AS 1746).

Alla luce di quanto fin qui evidenziato, risulta evidente che l’esenzione (o dispensa) dal servizio di cui all’art. 87, comma 3 del d.l. 18/2020, differisce da quella prevista dall’art. 19, comma 3 del d.l. 9/2020 ( destinata a confluire anch’essa nel novella testo della norma citata), risultando quest’ultima una decisione imposta dall’adozione da parte delle Autorità  di misure di chiusura di uffici pubblici (per quanto, prima di esonerare dal servizio il dipendente addetto all’ufficio chiuso con DPCM, il dirigente debba motivare un possibile impiego dello stesso in altro ufficio ad equivalenza di mansioni nonché disporre il congedo d’ufficio per smaltire eventuali periodi di ferie pregresse, ovvero attivare la modalità agile di prestazione dell’attività lavorativa); di contro, l’esenzione di cui alla più recente previsione normativa costituisce una decisione datoriale che potrà, comunque, sempre essere riguardata sotto il profilo della coerenza e rispondenza ai principi di efficacia, efficienza ed economicità e, in ultimo, al buon andamento di cui all’art. 97 della costituzione che, secondo la giurisprudenza ordinaria e contabile, conforma anche l’attività di diritto privato della pubblica amministrazione, essendo i poteri privatistici della pubblica amministrazione comunque funzionalizzati all’attuazione dei richiamati principi di matrice costituzionale.

E, nella più recente ricostruzione dell’erario come funzione, la violazione di tali canoni ove accompagnata alla spendita di risorse pubbliche costituisce danno erariale, sub specie di danno da disservizio, che mira a reintegrare il patrimonio pubblico della minore produttività dell’apparato pubblico (si vedano, ex multis,  Corte Conti, Lazio, 30.1.2019, n.43). Secondo la norma richiamata, infatti, il dipendente dispensato dal servizio dal dirigente continua a percepire la retribuzione (l’intera retribuzione, ad eccezione del buono pasto) pur non prestando l’attività lavorativa.

Il lavoro subordinato

Superando antiche e consolidate ricostruzioni di impostazione romanistica, dottrina e giurisprudenza riconducono il lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c. alla categoria dei contratti sinallagmatici, basati sulla reciprocità delle attribuzioni. Come noto, per tale categoria di contratti allorquando per circostanze sopravvenute il programma contrattuale non è più attuabile il legislatore prevede il rimedio della risoluzione (1453 c.c.) che elimina gli effetti del contratto in funzione riequilibratrice della posizione economico-patrimoniale dei contraenti.

Tuttavia, va precisato che nel contratto di lavoro subordinato, che è un contratto di durata e si connota per la particolare valenza costituzionale dell’oggetto contrattuale, i rimedi applicabili nelle ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione si conformano in modo del tutto particolare; ogni impedimento all’attuazione del programma negoziale imputabile al lavoratore, di regola, è di natura temporanea e, pertanto, dovrebbe sospendere ma non estinguere le prestazioni; tuttavia, come esprime efficacemente il brocardo latino operae preteritae sunt peritae, il trascorrere del giorno rende impossibile recuperare tardivamente quella parte di prestazione che si sarebbe dovuta eseguire, generando dunque gli effetti tipici della impossibilità assoluta; nel lavoro subordinato, cioè, l’assenza (temporanea) della prestazione determina la definitiva perdita di quella parte di essa che è rimasta ineseguita e che è irrecuperabile.

L’obbligazione retributiva

In disparte gli approdi della dottrina sui rimedi applicabili nell’ipotesi di inadempimento che comunque escludono la risoluzione del rapporto sulla base dell’art. 1256, comma 2  c.c. (l’inadempimento sarebbe parziale ratione temporis, nel senso che risultano impossibili alcune prestazioni ma lo saranno quelle future), ciò che rileva è il fatto che –esclusi i casi di tutela del lavoratore ( malattia, ferie, permessi, ecc…) espressamente previsti dalla legge e dai ccnl- allorquando la prestazione lavorativa è impossibile e, quindi, viene sospesa per causa di forza maggiore viene anche sospeso l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione.

La giurisprudenza, sul punto, afferma in modo costante il seguente principio di diritto: “in base agli artt. 1218 e 1256 c.c., la sospensione unilaterale del rapporto da parte del datore di lavoro è giustificata, ed esonera il medesimo datore dall’obbligazione retributiva, soltanto quando non sia imputabile a fatto dello stesso, non sia prevedibile ed evitabile e non sia riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale ovvero a contingenti difficoltà di mercato. La legittimità della sospensione va verificata in riferimento all’allegata situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa: solo ricorrendo il duplice profilo dell’impossibilità della prestazione lavorativa svolta dal lavoratore e dell’impossibilità di ogni altra prestazione lavorativa ( Cass. sez. lav. 27.5.2019, n. 14419).

Nella situazione data, dunque, la previsione normativa di cui all’art. 19, comma 3 del d.l. 9/2020 [5] costituisce una opportuna deroga al principio della non erogabilità di alcuna retribuzione in pendenza della sospensione della prestazione lavorativa non imputabile in quel caso a fatto del datore di lavoro pubblico ma ad un provvedimento autoritativo adottato dall’Autorità per ragioni di tutela della salute pubblica; in assenza della previsione di legge, ai lavoratori esonerati per effetto della chiusura di uffici pubblici quale misura di contrasto al contagio virale in atto (o per altre cause sempre imposte da provvedimenti dell’Autorità) non sarebbe spettata la retribuzione, né la possibilità di accedere ad altri strumenti di tutela previsti solo per il lavoro privato, come la cassa integrazione in deroga. Orbene, nell’ipotesi di cui all’art. 87, comma 3 del d.l. 18/2020, allo scrivente non pare che la dispensa dal servizio, con pagamento della intera retribuzione, costituisca una ipotesi pianamente assimilabile alla precedente.

Coronavirus ed esenzione dal servizio per i dipendenti pubblici

Qui, infatti, l’esenzione non costituisce un automatico effetto delle misure di contenimento del rischio da contagio adottate dall’autorità statale, quanto piuttosto una scelta organizzativa motivata del datore di lavoro pubblico; in quanto tale essa –in base ai richiamati principi giurisprudenziali- potrebbe esonerare dall’obbligazione di pagamento della retribuzione il datore di lavoro pubblico (e qui trovare la propria ratio derogatoria la norma emergenziale) solo in quanto egli sia in grado di provare –dandone conto nella motivazione del provvedimento di esonero- che l’impossibilità di far lavorare il dipendente non deriva da carenze nell’organizzazione e nella programmazione aziendale e che non risulta possibile nessun’altra prestazione lavorativa.

E’ affermazione generale, infatti, “che quando il prestatore non adempia all’obbligazione principale della prestazione lavorativa non per colpa del datore di lavoro, a questi non può essere fatto carico dell’adempimento dell’obbligazione di corresponsione della retribuzione, così come per ogni caso di assenza ingiustificata (o non validamente giustificata) dal lavoro” ( Cass. sez. lav. 18.4.2019, n. 10853); e, quindi, se il datore è in colpa la retribuzione è dovuta.

Ne consegue, pertanto, che se il provvedimento datoriale riconducibile all’art. 87, comma 3 del d.l. 18/2020 in quanto la dispensa non è pienamente coerente col paradigma normativo e riconducibile ad un fatto non imputabile al dirigente, il pagamento della retribuzione in assenza di controprestazione da parte del lavoratore costituisce un ingiustificato esborso di danaro rilevante sia sul piano disciplinare che dirigenziale, sia anche sul piano della responsabilità amministrativo contabile.

Conclusioni

In buona sostanza, il dirigente dovrà in primo luogo organizzare, pur con le semplificazioni introdotte dalla norma emergenziale, una scrivania virtuale o, più precisamente, una scrivania nel domicilio del dipendente, con un correlato meccanismo semplificato di assegnazione di obiettivi e di monitoraggio periodico degli stessi (coerentemente all’opportunità, aperta dalla generalizzata sospensione fino al 15 maggio 2020 dei termini dei vari procedimenti amministrativi e tributari, di recuperare l’arretrato [6]: pare utile sottolineare che il rispetto dei termini dei procedimenti costituisce uno degli obiettivi delle politiche di prevenzione della corruzione), prima di valutare –esaurite le ferie pregresse non godute entro il 31 dicembre 2020, goduti eventuali permessi o aspettative anche introdotti dalla legislazione emergenziale, recuperato eventuale credito orario, e goduto il congedo ordinario maturato senza intaccare le due settimane di cui il dipendente potrà beneficiare tra il 1° giugno e il 30 settembre [7] – di assegnare il dipendente ad altre attività anche presso altre strutture, prima di disporre l’esonero.

In buona sostanza, nell’emergenza il legislatore chiede ai dirigenti pubblici di essere manager, cioè di mettere in capo tutta la capacità organizzativa necessaria a recuperare, con interpretazioni non formalistiche, le inefficienze accumulate sul piano della gestione delle risorse umane (mesi e mesi di ferie arretrate) e della modernizzazione del comune sul piano digitale, dando finalmente attuazione al codice dell’amministrazione digitale che non solo consentirebbe una organizzazione smart ma eviterebbe al cittadino di doversi recare in ufficio anche solo per un certificato. Non si tratta di una riforma recente, il CAD esiste dal 2005.

Note

[1] La correttezza di tale opzione interpretativa si evince dal fatto che in sede di conversione del D.L. 18/2020, il Senato ( si veda A.C. 2463) ha apportato modifiche ed integrazioni all’art. 87 in commento ed ha aggiunto l’art. 87-bis all’interno dei quali vengono fatte confluire alcune disposizioni del d.l. 9 /2020 che non verrà, dunque, convertito e verrà fatto decadere.

In particolare, l’art. 87-bis riproduce le disposizioni dell’art. 18 del d.l. 9/2020 sulle misure finalizzate a velocizzare gli acquisti di strumentazioni informatiche per attivare lo smart working e chiudere la fase di sperimentazione di tale modalità di organizzazione della prestazione lavorativa introdotta dall’art. 14 della legge 124/2015; mentre, le modifiche al comma 3 dell’art. 87 introducono tra le cause di esenzione dalla prestazione lavorativa già contemplate dalla norma anche “i periodi di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, imposti dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19, adottati nella vigenza dell’articolo 3, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, e dell’articolo 2, comma 1, del decreto legge 25 marzo 2020, n. 19”.

E’, dunque, evidente che durante l’emergenza Coronavirus esistono due tipologie di esenzione dal servizio per i dipendenti pubblici dall’attività lavorativa: una “imposta” da misure assunte dalle Autorità nel quadro delle tipologie di cui ai richiamati decreti legge ( es. dichiarazione di zone rosse di alcuni comuni con impossibilità di dipendenti in essi residenti di recarsi al lavoro) e una “disposta” dal datore di lavoro come misura residuale.

[2] Tale disposizione confluisce nel comma 1 dell’art. 87 del testo del decreto legge n. 18/2020 in fase di conversione.

[3] E oggi anche dei provvedimenti attuativi dell’art. 3 del d.l. 19/2020, che ha abrogato il d.l. 6/2020 già convertito dalla legge 13/2020.

[4] Tale norma, come chiarito nella nota 2, confluisce nell’art. 87-bis del testo del decreto legge 18/2020 in fase di conversione alla Camera, in quanto il Governo ha deciso di far decadere il d.l. 9/2020 .

[5] Si ripete, confluita nel comma 3 dell’art. 87 del d.l. 18/2020 in fase di conversione.

[6] L’art. 37 del d.l. 23/2020 ha differito al 15 maggio 2020 il termine originariamente fissato al 15 aprile 2020 dall’art. 103 del d.l.18/2020.

[7] In materia di ferie i più recenti provvedimenti hanno introdotto alcune modifiche degne di segnalazioni.  Il comma 4 –bis dell’art. 87 del d.l. 18/2020 aggiunto in fase di conversione al Senato prevede che per tutta la durata del periodo emergenziale i dipendenti “possono cedere, in tutto o in parte, i riposi e le ferie maturati fino al 31 dicembre 2019 ad altro dipendente della medesima amministrazione di appartenenza, senza distinzione tra le diverse categorie di inquadramento o i diversi profili posseduti. La cessione avviene in forma scritta ed è comunicata al dirigente del dipendente cedente e a quello del dipendente ricevente, è a titolo gratuito, non può essere sottoposta a condizione o a termine e non è revocabile”. La norma, che entrerà in vigore con la legge di conversione, deroga all’art. 30 del CCNL 21 maggio 2018 che introduce l’istituto delle ferie solidali in via sperimentale, entro tetti massimi e per finalità tipizzate.

L’unico vincolo alla cessione delle ferie previsto dalla norma in fase di conversione è quello dell’attualità del diritto ceduto posto che la norma dispone che “restano fermi i termini temporali previsti per la fruizione delle ferie pregresse dalla disciplina vigente e dalla contrattazione collettiva”. Sul punto si richiama l’art. 28 del CCNL il quale prevede che le ferie, pianificate dal dirigente, debbono essere fruite entro l’anno di maturazione o, in presenza di motivate esigenze personali o organizzative entro, rispettivamente, il 30 aprile o il 30 giugno dell’anno successivo; il diverso termine di 18 mesi di cui all’art. 10 del d.lgs 66/2003 riguarda esclusivamente la sanzionabilità della condotta del datore di lavoro che non consente la fruizione delle ferie entro i termini previsti dai ccnl.

Sotto altro profilo, esplicitando un principio già insito nella disciplina sulle ferie, l’art. 1, lett. hh) del Dpcm 10.4.2020 ( GURI  11.4.2020, n. 97) dispone che, ferma restando la disciplina di cui all’art. 87 del d.l. 18/2020, “ si raccomanda in ogni caso ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere la fruizione del periodo di congedo ordinario e di ferie”; l’assenza dell’aggettivo “pregresse”, invece previsto dall’art. 87 del dl. 18/2020, rende evidente che il datore di lavoro pubblico –ferma la previsione dell’art. 28, comma 12, del CCNL 21.5.2018- deve pianificare anche le ferie dell’anno 2020 prima di disporre la dispensa dal servizio; il legislatore dell’emergenza “raccomanda” di far ricorso anche a tale fattispecie; si tratta, pertanto, di una decisione datoriale basata sul contesto organizzativo e sulla situazione dei singoli lavoratori.

 


Fonte: articolo di Vito Antonio Bonanno, segretario generale del comune di Alcamo