Il testo della settima salvaguardia contenuto nella legge di stabilità apre alla possibilità di sospendere l’indennità di mobilità per ampliare la platea dei beneficiari della tutela. L’attivazione di contratti a tempo determinato non comporta la perdita del diritto alla salvaguardia. I lavoratori che, pertanto, intendano lavorare o che lo abbiano già fatto dopo la cessazione del rapporto a tempo indeterminato possono farlo senza rischiare di vedersi negata la pensione. Ovviamente resta inteso che, al momento della presentazione della domanda di pensionamento, il rapporto di lavoro subordinato (anche determinato) deve essere cessato. Lo precisa questa volta in modo esplicito il secondo capoverso dell’articolo 1, comma 265, lettera a) della legge 208/2015 mettendo fine una volta per tutte ad interpretazioni non aderenti alla logica delle salvaguardie, oltre che alla legge, talvolta giunte in passato da alcuni uffici Inps.
Il citato passaggio mette, infatti, nero su bianco che “eventuali periodi di sospensione dell’indennità di mobilità, ai sensi dell’articolo 8, commi 6 e 7, della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, e all’articolo 3 del decreto-legge 16 maggio 1994, n. 299, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1994, n. 451, per svolgere attività di lavoro subordinato, a tempo parziale, a tempo determinato, ovvero di lavoro parasubordinato mantenendo l’iscrizione nella lista, si considerano rilevanti ai fini del prolungamento del periodo di fruizione dell’indennità stessa e non comportano l’esclusione dall’accesso alle salvaguardie di cui alla presente legge“.
Il passaggio citato si riferisce al profilo relativo ai lavoratori in mobilità ai sensi della legge 223/1991, e si aggiunge a quanto già stabilito dalla legge 147/2013 (a cui la settima salvaguardia rimanda) per quanto riguarda gli altri profili di tutela come gli autorizzati ai volontari, i cessati dal servizio a seguito di accordi individuali o collettivi di incentivo all’esodo, i lavoratori il cui contratto sia stato risolto unilateralmente, i lavoratori a tempo determinato, che già aveva sancito l’irrilevanza, ai fini dell’accesso alla salvaguardia, di una eventuale rioccupazione a tempo determinato dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Ora questa ulteriore precisazione, riguardo al profilo mobilità, fa giustizia di una serie di interpretazioni non conformi alla legge 223/1991. Come noto, infatti, nei casi in cui il lavoratore percettore dell’indennità di mobilità trova un reimpiego a tempo determinato o parziale l’indennità di mobilità può essere sospesa, mantenendo comunque il lavoratore l’iscrizione alle liste di mobilità, e poi riprendere al termine del contratto. Ad esempio, se un lavoratore ha diritto a due anni di indennità di mobilità, e dopo due mesi di permanenza in mobilità, si rioccupa con un contratto a tempo determinato di sei mesi, avrà al termine del contratto diritto ai restanti ventidue mesi di mobilità. In questa circostanza dunque il termine dell’indennità di mobilità viene in sostanza ampliatodi sei mesi rispetto alla data originaria di scadenza della mobilità. Con ovvie conseguenze anche sulla possibilità di entrare nella salvaguardia in quanto, ampliandosi la durata della mobilità, si aggiungono altri sei mesi al termine ultimo entro il quale maturare il diritto a pensione.
La precisazione apportata dalla legge dunque conferma la possibilità per il lavoratore di poter sempre rioccuparsi per un breve periodo di tempo in attesa della conferma della salvaguardia o dell’apertura della finestra mobile per l’accesso alla pensione (una volta ricevuta la conferma dall’inps). Se così non fosse, del resto, il soggetto avrebbe dovuto subire forzatamente un periodo di vuoto economico fino alla pensione, una limitazione inaccettabile. Si ricorda che, a differenza del passato, non ci sono più limiti di reddito da rispettare. Quindi dal contratto a tempo determinato il lavoratore può trarre qualsiasi stipendio senza perdere il diritto alla salvaguardia.