Nell’approfondimento odierno l’Avv. Maurizio Lucca presenta alcune interessanti osservazioni in merito all’assegnazione di beni pubblici alle associazioni.
L’assegnazione di beni pubblici alle associazioni, in generale, costituisce un’attività primaria nell’ambito socio-culturale, dove le Amministrazioni Pubbliche, specie quelle Locali, incentrano una molteplicità di interessi, ruotando nell’esigenza di consentire di individuare uno spazio idoneo per lo svolgimento delle attività (la c.d. sede), all’effettuazione di iniziative utili per la popolazione, rientrando in una estesa nozione di “sussidiarietà”, ex art. 108 Cost., «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà» (orizzontale), rinunciando al perseguimento di una finalità lucrativa (in senso soggettivo) e non ultime, anche, valutazioni strettamente politiche di opportunità, essendo un “bacino” di potenziale “consenso” elettorale (c.d. vicinanza elettiva).
Qualche fonte di riferimento
LA LEGGE GENERALE DEL PROCEDIMENTO
L’art. 12, Provvedimenti attributivi di vantaggi economici, della legge n. 241/1990, nella sua specchiata linearità e di riferimento prevede che «l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati», a cui rientrano a pieno titolo le associazioni, «sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi», manifestando un dovere di agire della PA con trasparenza, senza la possibilità di assegnare direttamente le utilità, alias gli spazi o sedi per le associazioni, caratterizzate dalla partecipazione degli associati ad una comunanza di interessi e di risorse, finalizzati al raggiungimento degli scopi previsti dall’atto costitutivo, in funzione dei quali sono utilizzati tutti i mezzi disponibili [1].
A rafforzare l’onere motivazionale nell’individuazione, con una condotta vincolata, il comma secondo impone che «l’effettiva osservanza dei criteri e delle modalità» cui è pervenuta l’Amministrazione nell’assegnare lo spazio «deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi».
Al riguardo giova evidenziare che sia la predeterminazione dei criteri, quanto la dimostrazione del loro rispetto da parte delle singole Amministrazioni, in sede di concessione dei relativi benefici, sono rivolte ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l’attività di erogazione della PA deve in ogni caso rispondere a referenti oggettivi, e, quindi, definiti prima della adozione di ogni singolo provvedimento: la predeterminazione e pubblicazione dei criteri e modalità cui le Amministrazioni devono attenersi soddisfa, peraltro, l’esigenza di imparzialità dell’azione amministrativa, principio di valenza costituzionale (ex art. 97 Cost.).
L’erogazione dei benefici è un’attività discrezionale ma non libera, essendo vincolata a criteri e modalità predeterminati/e: l’individuazione dei soggetti richiede una comparazione tra tutti gli interessati, preceduta da un avviso pubblico per raccogliere le manifestazioni di interesse, sì da valutare, anche mediante l’intervento di una commissione di esperti appositamente nominata, la maggiore rispondenza delle diverse proposte ai criteri precedentemente determinati e definire così chi sia maggiormente meritevole di ricevere il pubblico denaro [2].
Ne consegue che ogni spazio assegnato alle associazioni deve corrispondere una procedura aperta e un provvedimento di assegnazione, con indicato il bene e il soggetto titolare del diritto, in assenza del quale potremo affermare da una parte, illegittimità della procedura, dall’altra parte, l’occupazione priva di titolo, rectius abusiva.
IL CODICE DEL TERZO SETTORE
Nel Codice del Terzo Settore (CTS), l’art. 71, Locali utilizzati, del d.lgs. n. 117/2017, si occupa di individuare gli spazi associativi:
- IL COMMA 2, attribuisce allo Stato, alle Regioni e alle Province autonome e agli Enti locali la facoltà di «concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, agli enti del Terzo settore, ad eccezione delle imprese sociali, per lo svolgimento delle loro attività istituzionali», sicché il venire meno della destinazione può consentirne una valorizzazione per altri fini meritevoli di tutela, piuttosto che il loro inserimento nei piani di alienazione.
Viene stabilito ex lege un limite inderogabile di durata non superiore a trent’anni, «nel corso dei quali l’ente concessionario ha l’onere di effettuare sull’immobile, a proprie cura e spese, gli interventi di manutenzione e gli altri interventi necessari a mantenere la funzionalità dell’immobile», ribaltando la sola manutenzione ordinaria ai soggetti assegnatari, compresi i costi di gestione dei servizi (le c.d. utenze).
Le modalità di assegnazione devono rispettare i principi dell’evidenza pubblica, ossia i principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della PA, di obiettivi criteri di assegnazione, con modalità di natura comparativa (i richiami sistematici con gli artt. 55 ss.).
- IL COMMA 3, aggiunge ai soggetti del comma precedente, «gli altri enti pubblici», la possibilità di concedere (dare in concessione) i beni culturali (immobili di proprietà) «per l’uso dei quali attualmente non è corrisposto alcun canone e che richiedono interventi di restauro», alle condizioni che i beneficiari svolgono attività di interesse generale, indicate espressamente all’articolo 5, comma 1, lettere f) «interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del d.lgs. n. 42/2024», i) «organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività di interesse generale», k) «organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso», o z) «riqualificazione di beni pubblici inutilizzati o di beni confiscati alla criminalità organizzata»).
L’assegnazione in concessione prevede il «pagamento di un canone agevolato, determinato dalle amministrazioni interessate, ai fini della riqualificazione e riconversione dei medesimi beni tramite interventi di recupero, restauro, ristrutturazione a spese del concessionario, anche con l’introduzione di nuove destinazioni d’uso finalizzate allo svolgimento delle attività indicate, ferme restando le disposizioni contenute nel decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42».
Nella determinazione del “canone di concessione” l’Amministrazione deve detrarre le spese sostenute dal concessionario per gli interventi effettuati nel periodo di vigenza della concessione, rilevando che l’assegnatario dovrà documentare gli interventi e il loro costo, nel pieno rispetto delle norme edilizie/urbanistiche e di sicurezza/agibilità.
Risulta evidente che si tratta di un’assegnazione che ha lo scopo di porre a carico dei beneficiari la loro funzionalità (utilizzo) a scopi di interesse generale, ovvero quelli propri ritenuti dall’ordinamento di valenza collettiva, che altrimenti impedirebbe – ai citati beni – un loro efficace utilizzo in termini di fruibilità e accesso da parte della popolazione.
In questo senso, il successivo periodo dispone che «la concessione d’uso è finalizzata alla realizzazione di un progetto di gestione del bene che ne assicuri la corretta conservazione, nonché l’apertura alla pubblica fruizione e la migliore valorizzazione».
Tale condizione si riflette inevitabilmente nel termine massimo di durata delle concessioni dove l’intervento può essere ammortizzato, ossia, «per un periodo di tempo commisurato al raggiungimento dell’equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa e comunque non eccedente i 50 anni».
Termina il comma con le modalità di individuazioni del soggetto, mediante procedure semplificate di individuazione del partenariato, nel rispetto dei principi di libertà di partecipazione, pluralità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione.
In questo contesto, pare giusto osservare, per rafforzare lo spirito della norma a beneficio degli spazi utilizzati per gli scopi in cui è intriso il Codice del Terzo Settore (nel senso di attribuire un trattamento speciale in favore di certe categorie di soggetti, ETS) [3], IL COMMA 1, dell’art. 71, analogamente a quanto stabiliva il precedente art. 32, comma 4, della legge n. 383/2000, prevede che «le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica», proprio in considerazione della meritevolezza delle finalità perseguite dalle associazioni di promozione sociale, consentendo, dunque, che le relative sedi e i locali adibiti all’attività delle associazioni siano localizzabili in tutte le parti del territorio urbano e in qualunque fabbricato a prescindere dalla destinazione d’uso edilizio ad esso impressa specificamente e funzionalmente dal titolo abilitativo [4].
LE INDICAZIONI MINISTERIALI
Il Decreto Ministeriale (del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali) n. 72 del 31 marzo 2021, Adozione delle Linee guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed Enti del Terzo Settore negli articoli 55 – 57 del decreto legislativo n. 117 del 2017, individua diversi percorsi da seguire per le attività di “partenariato” (co-programmazione/progettazione), soffermandosi nei casi in cui l’ente conferisca l’utilizzo, anche parziale, di un proprio bene immobile, puntualizzando (da subito) che il bene, «oltre a non essere utilizzato al momento di pubblicazione dell’avviso per fini istituzionali e non rientrare fra i beni oggetto di alienazione o valorizzazione, ai sensi della relativa disciplina», dovrebbe essere oggetto di un’apposita relazione amministrativa ed estimativa, tale da definire il c.d. valore d’uso del bene, «da tenere distinto rispetto al suo valore dominicale, il quale viene utilizzato, invece, per la determinazione del prezzo di vendita, in caso di cessione, del canone di locazione o del canone di concessione nella relativa ipotesi».
Le indicazioni ministeriali sul “valore d’uso”, si allineano nel far rientrare l’assegnazione tra i benefici (c.d. utilità economica) indiretta per gli ETS partner, «i quali vengono sollevati da un esborso, laddove questi ultimi avessero dovuto reperire sul mercato un immobile analogo per tipologia e ubicazione. In ogni caso, occorrerà indicare anche gli oneri dovuti per il pagamento delle utenze attive, al di là di chi sia il soggetto che ne sostenga effettivamente il costo», dimostrando la piena legittimità di un uso gratuito del patrimonio pubblico se finalizzato agli scopi previsti dalla disciplina speciale del CTS.
Le diverse fonti esprimono un dovere di “procedimentalizzare” l’iter di assegnazione e la subordinazione a precisi criteri prestabiliti (ex ante), anche in adesione ad un principio comunitario e nazionale di sussidiarietà orizzontale [5]: in tema di concessioni su beni pubblici economicamente contendibili possono essere affidati a privati solo all’esito di una procedura ad evidenza pubblica [6] e all’esito di una comparazione tra più soggetti potenzialmente interessati all’utilizzo del bene si provvederà all’assegnazione [7].
Il patrimonio pubblico
L’Amministrazione, in generale, è titolare di beni che si distinguono in due grandi categorie, la prima, beni demaniali secondo la loro classificazione (ex artt. 822 c.c., e seguenti), in quanto preordinati a favorire l’erogazione di un servizio pubblico; la seconda, beni patrimoniali secondo il criterio funzionale di destinazione (ex art. 826 c.c.), rilevando che i beni demaniali e del patrimonio indisponibile possono essere concessi attraverso lo strumento del provvedimento amministrativo della concessione, mentre se appartenenti al patrimonio disponibile mediante locazione (con un contratto civilistico), venendo meno l’aspetto autoritativo della PA.
In termini diversi:
- nel patrimonio demaniale e indisponibile (non possono essere sottratti alla loro destinazione naturale al servizio della Comunità, se non attraverso una specifica procedura) l’Amministrazione esercita un potere primario (c.d. autoritativo) e il privato gode di un interesse legittimo, con cognizione del GA in caso di contestazione, non sussistendo la giurisdizione del giudice amministrativo in relazione ai contratti stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni iure privatorum;
- nel patrimonio disponibile l’Amministrazione si trova, viceversa, in una posizione paritaria, e le parti godono entrambe di diritti soggettivi in caso di controversie si rivolgono al Giudice Ordinario.
I beni immobili di proprietà pubblica sono oggetto di concessione quando rientrano tra i beni indisponibili in quanto destinati ad una funzione pubblica, di contro, la categoria dei beni patrimoniali disponibili sono una categoria residuale, nel senso che i beni appartenenti ad un ente pubblico, non riservati per loro stessa natura alla proprietà pubblica e non destinati a funzioni o servizi pubblici, si ascrivono al patrimonio disponibile.
Dunque, in ragione della natura non disponibile del bene, il rapporto intercorrente tra PA e privato deve necessariamente essere qualificato quale concessione di un bene appartenente al patrimonio indisponibile, essendo pacifico che i beni destinati ad una funzione o ad un servizio pubblico possono essere attribuiti in godimento a privati esclusivamente nella forma della “concessione amministrativa”, mentre solo i beni non destinati, rientranti nel demanio disponibile, sono assoggettati alla capacità negoziale di diritto comune spettante all’Amministrazione e possono formare oggetto di diritti di godimento da parte di terzi sulla base di contratti privatistici [8].
L’evidenza pubblica
L’affidamento dei beni oggetto della concessione avviene mediante lo strumento concessorio, previo esperimento di una procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento a terzi (nei termini già individuati), cosicché da detta qualificazione come “concessione amministrativa”, discende la non applicabilità della disciplina di cui alla legge n. 392/1978, compreso il rinnovo tacito previsto per le locazioni commerciali [9].
Va aggiunto, un generale divieto di rinnovo dei contratti scaduti, anche se sancito dalla legge nazionale con espresso riferimento agli appalti di lavori, servizi e forniture, esprimendo, infatti, un principio generale, estensibile anche alle concessioni di beni pubblici, siccome attuativo di un vincolo euro-unitario, il quale considera il rinnovo dei contratti pubblici scaduti come un contratto originario, necessitante della sottoposizione ai canoni dell’evidenza pubblica, atteso che la procrastinazione meccanica del termine originario di durata di un contratto ha l’effetto di sottrarre in maniera intollerabilmente lunga un bene economicamente contendibile alle dinamiche fisiologiche del mercato [10].
Invero, l’art. 12 della Direttiva 2016/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein), pacificamente applicabile anche al settore della concessione dei beni demaniali o appartenenti al patrimonio indisponibile, al primo comma, prevede che «Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento», mentre al comma secondo stabilisce chiaramente che «Nei casi di cui al paragrafo 1 l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico».
Nessuna legittima aspettativa
L’approdo porta a ritenere che il concessionario di un bene appartenente al patrimonio indisponibile del Comune non può vantare alcuna aspettativa al rinnovo del rapporto, il cui diniego, nei limiti ordinari della ragionevolezza e della logicità dell’agire amministrativo, non necessita di ulteriore motivazione; viceversa, l’Amministrazione concedente è obbligata ad assoggettare a procedura comparativa il rinnovo di una concessione demaniale, solo in tal modo risultando soddisfatto, oltre all’interesse concorrenziale, anche l’interesse alla individuazione del soggetto contraente che offra migliori garanzie di positiva utilizzazione del bene per finalità di pubblico interesse [11].
Questo aspetto legato alla tipologia del bene impone di osservare che il provvedimento di rilascio, alla scadenza del termine massimo della assegnazione/concessione, costituisce esercizio necessitato di un potere autoritativo che la demanialità del bene assegna all’Autorità pubblica, trattandosi di atto di autotutela esecutiva che la PA deve adottare per rientrare nel possesso di un bene pubblico appartenente al patrimonio indisponibile: dall’art. 823, comma 2, c.c. al Comune è concesso di procedere in via di autotutela amministrativa per la tutela dei beni demaniali e, per costante orientamento giurisprudenziale, anche del proprio patrimonio indisponibile.
Poteri di autotutela amministrativa
In questo senso, l’art. 823, comma 2, c.c. soddisfa un’esigenza di tutela non connessa al possesso, né alla mera proprietà pubblica, ma dipendente dagli interessi pubblici che il bene può soddisfare; tali poteri possono essere esercitati non soltanto in relazione ai beni del demanio (necessario ed eventuale), avendo la giurisprudenza costantemente affermato che l’autotutela amministrativa contemplata dalla disposizione indicata riguarda anche i beni del patrimonio indisponibile [12], al fine di impedire più efficacemente l’illecita sottrazione degli stessi alla loro destinazione, posto che i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione «se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano».
Tale circostanza postula che resta alla Pubblica Amministrazione il potere di controllo e di intervento di imperio, sia per proteggere il bene da turbative, sia per eliminare ogni situazione di contrasto riguardo alle esigenze del pubblico interesse che devono ispirare l’utilizzazione dei beni destinati a pubblico servizio [13].
Pertanto, il potere di autotutela esecutiva presuppone il previo accertamento della natura di bene patrimoniale indisponibile oggetto di tutela recuperatoria pubblicistica, poiché, diversamente, il bene pubblico ricompreso nel patrimonio disponibile dell’ente può costituire oggetto di tutela soltanto mediante l’esperimento delle azioni civilistiche possessorie o della rei vindicatio [14].
Affinché una res pubblica, non appartenente al demanio necessario, assuma il regime giuridico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, in quanto destinati ad un pubblico servizio, occorrono tre condizioni:
- la proprietà del bene (requisito soggettivo) da parte della Pubblica Amministrazione;
- la presenza della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio (requisito oggettivo formale);
- nonché (congiuntamente) l’effettiva ed attuale destinazione del bene (requisito oggettivo sostanziale) al pubblico servizio.
Una volta, dunque, dimostrata la sussistenza delle predette condizioni l’Amministrazione è legittimata a tutelare il bene in via amministrativa, potendo adottare un’ordinanza di rilascio nei confronti di chi lo occupi abusivamente, senza dover provare la ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 1168 c.c., o all’art. 1170 c.c., o all’art. 948 c.c., costituendo un istituto giuridico del tutto autonomo dalle richiamate azioni civilistiche a tutela del possesso o della proprietà.
Di conseguenza, la tutela amministrativa, di cui all’art. 823 c.c., non richiede, né la prova del possesso anteriore, né la prova di un diritto di proprietà ininterrotto per oltre venti anni, non essendo i beni demaniali e quelli del patrimonio indisponibile suscettibili di usucapione [15].
La giurisdizione
In materia di giurisdizione di beni di appartenenza pubblica, la natura del bene assume rilevanza dirimente, posto che:
- nel caso dei beni demaniali e indisponibili, l’Amministrazione titolare gode di poteri amministrativi, a fronte dei quali la situazione soggettiva dei privati assume i contorni dell’interesse legittimo, con conseguente rimessione alla cognizione del giudice amministrativo;
- nel caso dei beni disponibili, i rapporti tra le parti, analoghi a quelli interprivati, prefigurano la mera esistenza di diritti soggettivi in conflitto, come tali rimessi alla giurisdizione ordinaria [16].
Ne deriva, affinché un bene non appartenente al demanio necessario possa rivestire il carattere pubblico proprio dei beni patrimoniali indisponibili, in quanto destinati a un pubblico servizio. ai sensi dell’art. 826, comma 3, c.c., deve sussistere il doppio requisito (soggettivo e oggettivo) della manifestazione di volontà dell’ente titolare del diritto reale pubblico (e, perciò, un atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’ente di destinare quel determinato bene a un pubblico servizio) e dell’effettiva e attuale destinazione del bene al pubblico servizio [17].
Ne deriva, altresì, che l’Amministrazione pubblica non può disporre lo sgombero di un bene in via amministrativa, nell’esercizio del potere di autotutela, ex art. 823, comma secondo, c.c., volto a tutelare (solo) i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile dello Stato o degli altri enti pubblici territoriali, quando i beni rientrano nel patrimonio disponibili: gli unici strumenti di tutela sono rappresentati dai “mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso” previsti dal codice civile (che, per i beni pubblici propriamente detti, restano mere alternative allo strumentario autoritativo pubblicistico [18].
La controversia relativa ad un ordine di sgombero di un locale di proprietà comunale, facente parte del patrimonio disponibile dell’ente territoriale, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un rapporto di matrice negoziale, da cui derivano in capo ai contraenti posizioni giuridiche paritetiche qualificabili in termini di diritto soggettivo, nel cui ambito l’Amministrazione agisce “iure privatorum” – al di fuori cioè dell’esplicazione di qualsivoglia potestà pubblicistica – non soltanto nella fase genetica e funzionale del rapporto, ma anche nella fase patologica, il che, più specificamente, si traduce nell’assenza di poteri autoritativi, sia sul versante della chiusura del rapporto stesso, sia su quello connesso del rilascio del bene [19].
Lo sgombero
Ciò comporta che in capo al Comune non sussiste alcun obbligo di motivazione nel disporre il provvedimento di sgombero dell’immobile appartenente al patrimonio indisponibile, né di svolgere valutazioni comparative di interessi, prima di procedere all’adozione dello stesso, neppure con riferimento alla tempistica per la sua esecuzione, e che, venendo in rilievo un provvedimento vincolato, non residua spazio alcuno per momenti partecipativi del destinatario, il quale non potrebbe modificare l’esito del procedimento, rilevando che una volta scaduto il termine per la concessione il privato se non libera il bene non è soggetto allo sfratto ma al rilascio a cura diretta della PA (di converso, l’Amministrazione non può consentire un’occupazione abusiva) [20].
Al riguardo dunque, per stabilire se si sia in presenza di concessione di bene pubblico ovvero di atto paritetico riconducibile alla locazione, non è sufficiente che l’amministrazione pubblica abbia concesso in godimento il bene al privato, ma è necessario indagare la natura del bene stesso, per cui solo se il bene appartiene al novero dei beni demaniali è possibile qualificare il provvedimento come concessione demaniale, e non è possibile invece qualora appartenga al patrimonio disponibile dell’Amministrazione [21].
Più puntualmente, l’attribuzione a privati dell’utilizzazione di beni pubblici in senso stretto, ossia appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile di un ente pubblico, è sempre riconducibile (ove non risulti diversamente) alla figura della concessione-contratto, quale che sia la terminologia adottata dalle parti, in quanto il godimento dei beni pubblici, stante la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall’ente titolare del diritto solo mediante concessione amministrativa, mentre laddove si tratti di beni del patrimonio disponibile viene a realizzarsi lo schema privatistico della locazione, con conseguente attribuzione delle relative controversie, nel primo caso, al giudice amministrativo e, nel secondo caso, al giudice ordinario.
Sintesi
Una volta identificata la natura del bene (demaniale – patrimonio indisponibile/disponibile), l’assegnazione alle associazioni, specie quelle iscritte al RUNTS, costituisce una forma legittima e compiuta di collaborazione e valorizzazione del principio di sussidiarietà e di libertà di associazionismo (ex art. 18 Cost.), dove la PA può esercitare una funziona trainante (primaria), consentendo di ridare contenuto attivo alle proprie risorse, a volte abbandonate, dimenticate, o con usi non compatibili con il buon andamento: le associazioni, i volontari, possono ridare (nuova)vita agli spazi, assolvendo con le loro attività un servizio sicuramente a vantaggio non solo dei propri soci, ma dell’intera Comunità, avendo cura di individuare l’atto amministrativo o il negozio corrispondente all’inquadramento giuridico del bene.
Note
[1] L’associazione non riconosciuta (ex art. 36 c.c.), ancorché sfornita di personalità giuridica, è considerata dall’ordinamento come centro di imputazione di situazioni giuridiche distinto dagli associati, cui sono analogicamente applicabili, in mancanza di diversa previsione di legge o degli accordi associativi, le norme stabilite in materia di associazioni riconosciute o di società, Cass. civ., sez. I, 23 gennaio 2007, n. 1476.
[2] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 novembre 2020, n. 6945.
[3] Una agevolazione soggettiva a beneficio degli Enti del Terzo Settore e della loro attività, rientrante nel quadro delle finalità di sostegno e incentivo perseguite dalla legge a norma degli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 117 del 2017: la norma del primo comma dell’art. 71, no è ascrivibile a disposizione di natura urbanistica vera e propria, non investendo essa il governo del territorio come tale (cfr., al riguardo, Cons. Stato, comm. spec., parere 14 giugno 2017, n. 1405, in cui si pone in risalto che l’articolo «detta numerose disposizioni di favore per assicurare agli enti del terzo settore la disponibilità di idonei locali per lo svolgimento delle attività istituzionali. Si tratta di previsione opportuna perché garantisce a tali enti un supporto per il perseguimento dei loro scopi permettendo di utilizzare in modo proficuo beni pubblici che non sempre sono adeguatamente valorizzati)», Cons. Stato, sez. V, 1° marzo 2021, n. 1737.
[4] Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2020, n. 3803.
[5] Cfr. Corte Conti, sez. contr. Veneto, Delibera 27 novembre 2019, n. 339 e sez. contr. Lombardia, Deliberazione 17 aprile 2019, n. 146.
[6] Cons. Stato, Ad. plen., 25 febbraio 2013, n. 5; Cons. Stato, sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; 23 luglio 2008, n. 3642; 21 maggio 2009, n. 3145; 31 gennaio 2017, n. 394 e Cons. Stato, sez. V, 23 novembre 2016, n. 4911.
[7] T.A.R. Lombardia, Milano, 17 ottobre 2017, n. 1871. Idem per le proroghe automatiche delle concessioni demaniali, Corte Giustizia UE, sez. V, 14 luglio 2016, in Cause riunite C- 458/2014 e C67/2015.
[8] TAR Sardegna, sez. I, 23 gennaio 2023, n. 42.
[9] La rinnovabilità negoziale tacita ed automatica del rapporto concessorio è da ritenersi nulla, in quanto predisposta in violazione di norme imperative (art. 1418, comma 1, c.c.) non potendosi configurare un rinnovo tacito (o una previsione di silenzio assenso “convenzionale”) della concessione pubblicistica, cfr. TAR Sardegna, sez. I, 10 dicembre 2018, n. 1012.
[10] Cfr., TAR Abruzzo, Pescara, 28 novembre 2013, n. 568; L’Aquila, 12 marzo 2015, n. 150; 9 febbraio 2018, n. 54; TAR Lazio, Roma, sez. II, 9 maggio 2017, n. 5573.
[11] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10 luglio 2017, n. 3377; 12 febbraio 2018, n. 873; 2 maggio 2018, n. 2622.
[12] Cass. civ., sez. Un., ord. 20 luglio 2015, n. 15155; Cons. Stato, sez. III, sentenze n. 6386/2020; sez. VI, n. 5934/2019.
[13] Cons. Stato, sez. VII, 19 maggio 2023, n. 4987.
[14] Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934.
[15] Cass. civ., sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3465.
[16] Cass. civ., sez. Un., 3 dicembre 2010, n. 24563.
[17] TAR Campania, Napoli, sez. VII, 10 luglio 2023, n. 4107.
[18] Cons. Stato, sez. V, 24 gennaio 2019, n. 596.
[19] TAR Campania, Napoli, sez. VII, 20 marzo 2017, n. 01531 e 24 settembre 2020, n. 4002.
[20] Cfr. TAR Puglia, Lecce, sez. III 5 luglio 2021, n. 1072.
[21] Cons. Stato, sez. V, 3 giugno 2021, n. 4216; 8 luglio 2019, n. 4783; Cass. civ., sez. Un., 25 marzo 2016, n. 6019.
Fonte: articolo dell'Avv. Maurizio Lucca - Segretario Generale Enti Locali e Development Manager