L’Avv. Maurizio Lucca esamina, per lentepubblica, una recente sentenza ancora inedita riguardante l’abuso del diritto e la mancata collaborazione nelle PA.
La sez. I Milano del TAR Lombardia, con la sentenza 26 agosto 2022 n. 1945, interviene per descrivere l’abuso del diritto, ove il soggetto privato altera il rapporto di correttezza partecipativa con la PA, ex comma 2 bis dell’art. 1 della legge 241/1990, seguendo la strada processuale di impugnazione dell’atto endoprocedimentale, atto interlocutorio proiettato a garantire all’interessato il proprio diritto di accesso partecipativo nel procedimento, ex comma 1, dell’art. 10 della cit. legge sul procedimento.
Fatto
Una società che opera nei servizi pubblici impugna una nota della PA con cui si dispone la sospensione della pratica relativa alla richiesta di autorizzazione per la posa di un cavo in fibra ottica lungo una strada, invitando la stessa società ad adeguarsi alla disciplina Regolamentare interna (nel concreto: produrre ulteriore documentazione, apportare talune modifiche tecniche alla localizzazione dell’impianto, avvalersi dei nuovi moduli predisposti dall’Amministrazione).
Sembra una richiesta ragionevole e immediata.
Viene, altresì impugnato il Regolamento, le tariffe e la modulistica.
In sintesi, viene impugnata tutta la procedura per il rilascio dell’autorizzazione e la sua concreta applicazione, specie la parte interlocutoria procedimentale di integrazione e regolarizzazione della domanda, ritenuta quale “provvedimento di sospensione”, in quanto asseritamente determinante un arresto procedimentale a tempo indeterminato, subordinato all’adeguamento e all’integrazione indicata dalla stessa Amministrazione.
Il pronunciamento
Il Tribunale dichiara il ricorso inammissibile (con condanna alle spese), essendo l’atto impugnato privo di una qualche valenza provvedimentale.
Simile conclusione si dovrebbe formulare nel caso del c.d. preavviso di rigetto, atto che non ha portata lesiva nei confronti delle parti private coinvolte, in quanto avente chiara connotazione endoprocedimentale, con la funzione di preannunciare le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza formulata [1].
Ciò posto, viene chiarito che la nota formulata dall’Amministrazione:
- assume il carattere di mero atto interlocutorio/notiziale, volto alla integrazione/regolarizzazione della domanda di autorizzazione in presenza di circostanza autonomamente impedienti il conseguimento dell’agognato titolo;
- la comunicazione impugnata assolve, in definitiva, una funzione collaborativa, in ossequio ai principi di buona fede e correttezza che devono sempre e comunque informare i rapporti tra la Amministrazione e i consociati;
- si tratta di un tipico atto endoprocedimentale, rientrante nel c.d. soccorso procedimentale, ex 6, comma 1, lett. b), della legge n. 241/90, funzionale a consentire alla parte istante di provvedere a “sanare/integrare/regolarizzare” la domanda, al fine di superare la soglia di “ammissibilità” e di consentire, indi, il pieno dispiegarsi dell’obbligo di provvedere, ex art. 2, comma 1, della cit. legge sul procedimento.
Una volta definita la natura di atto endoprocedimentale, diventa conseguente l’affermazione che è impugnabile solo unitamente all’atto conclusivo del procedimento amministrativo e non autonomamente, ad eccezione dei casi in cui assuma carattere di vincolatività, determinando in via inderogabile il contenuto dell’atto conclusivo del procedimento, ovvero comporti un arresto procedimentale.
In termini diversi, l’impugnazione dell’atto endoprocedimentale:
- riveste carattere eccezionale ed è riconosciuto solo in rapporto a fattispecie particolari, ossia ad atti di natura vincolata idonei a conformare in maniera netta la determinazione conclusiva, oppure in ragione di atti interlocutori che comportino un arresto procedimentale [2];
- il requisito dell’attualità dell’interesse non è rilevabile allorché il pregiudizio derivante dall’atto amministrativo impugnato è meramente eventuale, ovvero quando l’emanazione del provvedimento non ha arrecato alcuna lesione diretta nella sfera giuridica del soggetto ricorrente né è certo che una siffatta lesione comunque si realizzerà in un secondo tempo [3].
Si deve concludere che in fase istruttoria, volta alla integrazione e alla regolarizzazione della domanda, non vi può essere valenza lesiva tale da produrre un arresto procedimentale (autonomamente) impugnabile.
Una condotta inusuale
Formulata l’inammissibilità dell’impugnazione, il Giudice annota che pur in presenza di una comunicazione con valenza procedimentale in funzione collaborativa, ossia con lo scopo di rilasciare il c.d. bene della vita, la parte ricorrente, «senza intraprendere veruna effettiva e concreta iniziativa volta a far valere le proprie ragioni, anche di dissenso, in sede procedimentale, di contro provvedeva in guisa repentina ed inusitata ad intraprendere la iniziativa giurisdizionale che ne occupa».
Tale condotta serbata in sede procedimentale e processuale non corrisponde a quel genere di rapporto che, anche sotto il profilo civilistico nelle trattative precontrattuali, dovrebbe essere incentrato sul canone della buona fede e della correttezza, che rileva «non solo sul piano sostanziale e/o procedimentale, ma anche su quello processuale, allorquando la iniziativa processuale si appalesi logicamente inconciliabile con il contegno tenuto in sede procedimentale» [4].
Siamo in presenza di un modus operandi del privato in tutte le fasi del procedimento in piena antitesi delle regole generali di condotta, in violazione dei principi generali di lealtà e solidarietà nei rapporti intersoggettivi, sancito dall’art. 2 della Costituzione e dalla Carta di Nizza, aspetti che rilevano anche con la Amministrazione Pubblica: manca quella minima collaborazione che è insita nel procedimento amministrativo, quando il privato entra in contatto con la PA e che costituisce l’anima del contradittorio, peraltro insita nel “giusto procedimento”, analogamente al “giusto processo”, tutelato dalla Costituzione (ex art. 111): quel diritto di essere ascoltato (recepito dal Trattato di Lisbona, ratificato con la legge n. 130/2008) che anima la buona e sana amministrazione (ex art. 97 Cost.) al servizio del cittadino (ex art. 2 della legge n. 241/1990).
Questa forma di inerzia collaborativa del privato in sede procedimentale, «contrasta in guisa irrefragabile con la successiva iniziativa giurisdizionale, concretante una forma di inammissibile venire contra factum proprium, con connotazioni emulative e abusive» [5].
L’abuso del diritto
Si comprende che nel rapporto procedimentale (e, più in generale, in ogni rapporto giuridico) non possono venire meno gli obblighi di buona fede e correttezza, di cui agli artt. 1175, 1337, 1366 e 1375 del cod. civ., dispiegandosi con continuità anche nella (eventuale) successiva fase giurisdizionale, costituente il segmento finale del rapporto e del contatto inter partes.
La ricaduta inevitabile si riflette nelle iniziative processuali, nella loro meritevolezza e ammissibilità dell’interesse che le sostiene, aspetti che vanno valutati anche in forza dell’apprezzamento degli antecedenti comportamenti e/o manifestazioni di volontà posti in essere dalle parti: nell’ordinamento positivo vige «un principio generale di divieto di abuso del diritto, inteso come categoria diffusa nella quale rientra ogni ipotesi in cui un diritto cessa di ricevere tutela, poiché esercitato al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge» [6].
Viene circoscritto l’artificiosa attivazione del rimedio giurisdizionale, id est alla proposizione di una domanda giudiziale:
- senza una obiettiva, valida, giustificazione, meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico;
- in situazioni in cui il rimedio giurisdizionale, che pur sempre costituisce la extrema ratio, ben potrebbe agevolmente essere evitato dal soggetto titolare della pretesa, senza sforzi eccessivi, irragionevoli o non proporzionati [7].
L’abuso del diritto, arreca un oggettivo nocumento:
- al buon andamento dell’azione amministrativa, determinando, altresì, aggravi procedimentali e finanziari, legati anche alle necessità defensionali dell’Autorità;
- ai principi generali di buona fede e correttezza, da ultimo reiterati anche nella lex generalis che governa il procedimento amministrativo, per cui «I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede», ex 1, comma 2 bis, della legge n. 241/90;
- al principio del rispetto della non illimitatezza della risorsa-giustizia [8];
- al principio di lealtà e probità processuale, valore cui andrebbe costantemente improntata la condotta delle parti nel processo;
- al principio di effettività della tutela;
- al principio di economia (anche extra) processuale, declinazione del giusto processo inteso (anche) come esigenza di evitare la eventualità di moltiplicazione dei processi.
Note
[1] TAR Lazio, Roma, sez. III, 14 febbraio 2022, n. 1728.
[2] Cons. Stato, sez. IV, 16 maggio 2011, n. 2961 e sez. III, 2 novembre 2019, n. 7476.
[3] Cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26 aprile 2021, n. 1039 e 10 febbraio 2017, n. 343; TAR Lazio, Roma, sez. I, 17 aprile 2015, n. 5711; Cons. Stato, sez. VI, 19 giugno 2009, n. 4125 e 14 gennaio 2009, n. 111.
[4] È noto che in tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase, Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106.
[5] Divieto che s’inscrive nella più ampia figura dell’abuso del diritto derivato dall’operatività, nell’ordinamento giuridico, di un generale principio di condizionamento della tutela del diritto alla sua concreta socialità, cui consegue la valutazione di abusività dell’esercizio dello stesso per finalità che appaiano contrarie a quelle per le quali la posizione di vantaggio viene riconosciuta al titolare, TAR Sicilia, Catania, sez. I, 24 aprile 2012, n. 1124.
[6] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 marzo 2015, n. 1605 e 27 aprile 2015, n. 2064; Cass., 7 maggio 2013, n. 10568; TAR Lombardia, sez. I, 19 novembre 2018, n. 2603; TAR Campania, sez. III, 10 gennaio 2018, n. 154. Il dovere di buona fede e correttezza si pone non più solo come criterio per valutare la condotta delle parti nell’ambito dei rapporti obbligatori e/o procedimentali, ma anche come canone per individuare un limite alle richieste e ai poteri dei titolari di diritti, anche sul piano della loro tutela processuale, TAR Lombardia, Milano, sez. I, 24 marzo 2020, n. 546; 28 agosto 2019, n. 1929; 14 giugno 2019, n. 1376; 2810/2018.
[7] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 7 febbraio 2012, n. 656, ove vengono descritti gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto: la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.
[8] Cass. civ., SS.UU., sentenze nn. 26242/2014 e 26243/2014.
Fonte: articolo dell'Avv. Maurizio Lucca - Segretario Generale Enti Locali e Development Manager