La storia del genere umano potrebbe essere trattata secondo tappe tracciate dagli stili alimentari. La prima tappa potrebbe essere il passaggio da una alimentazione “da cacciatori” a una “da coltivatori”. Per l’importanza che ancora hanno sulle nostre tavole, non si può, con un grosso salto temporale che ci invitiamo a riempire, non segnalare i cambiamenti portati sulle tavole dagli alimenti arrivati a seguito delle grandi scoperte geografiche: patata, mais, pomodoro, solo per citarne alcuni.  Da qui in poi, si potrebbe dire che le differenze sono notevoli solo da un punto di vista sociale.

I ceti agiati possono mangiare la carne più frequentemente e non hanno problemi di accesso ad una soglia minima di cibo, la maggior parte della popolazione é spesso al limite della sopravvivenza alimentare e le carestie che spesso si susseguono hanno effetti devastanti. Paradossalmente, proprio la patata, importata in Europa nel XVI secolo, diventerà l’alimento base dei più poveri, come testimoniano anche molti dipinti. Nei secoli a seguire, fino a tempi molto recenti, questa ” divisione in classi alimentari” della società permane e solo chi non ha problemi economici, oltre a avere una disponibilità di cibo superiore alle proprie esigenze, può godere anche di una certa varietà dei piatti, sebbene la maggior parte delle pietanze siano quasi sempre realizzate con ingredienti di provenienza locale.

Queste considerazioni possono essere fatte alla luce dell’analisi di opere d’arte nelle quali sono riprodotti banchetti o momenti di vita quotidiana, come scene di mercato e dalla attenta lettura di testi letterari in chiave gastronomica. Spesso, molti romanzieri indugiano nella descrizione di ricette e di abitudini legate alla consumazione dei pasti. Esemplare, in questo senso, da tutti i punti di vista, i promessi sposi di Alessandro Manzoni. Lettura che a qualunque studente viene proposta, che ha nel cibo una costante. Pensiamo alla scena della divisione della polenta tra il capofamiglia e coloro che “ancora non producono” a casa di Tonio, alle osterie nelle quali si fermano i protagonisti, all’assalto al forno del pane. Tutti indicatori di cosa e di come si mangiava. Senza dimenticare che la polenta gialla, realizzata con il mais, era (sotto la dominazione spagnola) diventata un piatto locale, a discapito di altri cereali tipici della Lombardia.

La cesura più forte, però, è quella segnata dalla fine della Seconda guerra mondiale, in quanto apre la strada a un nuovo modo di alimentarsi, che non tiene più conto dei cicli naturali, che annulla le distanze tra luogo di produzione e luogo di consumazione, che permette di conservare i cibi a lungo con l’invenzione di nuove tecniche e con l’introduzione di frigoriferi e altre apparecchiature, che, con l’apertura di catene di vendita molto grandi, muta anche il modo di procurarsi il cibo.

Possiamo dire che tra il 1950 e il 2000 tutta la tradizione precedente cede il passo alla globalizzazione anche alimentare, tendenza, però, che almeno dal punto di vista della nutrizione, mostra presto segni di cedimento e che oggi, con movimenti come Sloow Food é decisamente sulla via dell’abbandono. Il processo alimentare in atto oggi potrebbe essere riassunto nello slogan ” mangiare locale”. La globalizzazione alimentare, che é possibile affrontare da un punto di vista storico, letterario, sociale, commerciale, economico, religioso, geografico, tecnico, si scontra, nel nostro Paese, con una realtà particolare.

La fine della Seconda guerra mondiale e il conseguente boom economico, sono il contraltare della realtà alimentare e sociale imposta dal regime fascista che aveva caratterizzato l’Italia dal 1925 almeno: una realtà autarchica sul piano della produzione e dei consumi alimentari, che andava già alla riscoperta di alcuni prodotti tipici del nostro paese per ragioni molto diverse da quelle odierne, che verrà arrestata, prima che dalla globalizzazione dei consumi e delle abitudini a tavola, dalla penuria di cibo che contraddistingue tutte le guerre.

Quindi, come si mangiava prima della globalizzazione? In modo diverso da oggi sotto tanti aspetti: la caratteristica di Nutriziopoli è quella di comprendere eroi, indagarli e spiegarli tutti, senza cadere nelle facili trappole di una globalizzazione di ritorno, senza seguire le mode, ma prendendo in considerazione gli aspetti storico geografici, nutrizionali e psicologici del rapporto degli esseri umani con il cibo.

Albert Howard (1873-1947) agronomo inglese diede basi filosofiche all’agricoltura biologica, redigendo un testo (Organic Gardening and Farming), che spiegava molto bene il concetto di terra e salute. La sua idea era quella che si dovesse trattare il problema della salute del suolo, delle piante, degli animali e dell’uomo come un unico grande argomento.

Se una volta i cacciatori raccoglitori si curavano che il manto erboso fosse in buona salute per attirare e far ingrassare le prede nel modo giusto, oggi questo antico legame per certi versi ci sfugge. Oramai nutriamo gli animali da carne con granaglie, in luoghi appartati. In America lo scrittore Michael Pollan, ne Il Dilemma dell’Onnivoro  provocatoriamente scrive «Mentre la Bibbia nell’Antico Testamento scriveva, “ogni carne è come l’erba, oggi bisognerebbe dire, ogni carne è come il mais!”»

E’ quanto mai urgente una versione di tendenza dove il rispetto dell’ambiente prevede azioni civili concrete e reale da parte di tutti a partire dai bambini, persone del futuro sociale.

FONTE: Green Report (www.greenreport.it)

AUTORE: Barbara Camilli

alimentazione