Il meccanico e la sua officina sono vicini ma non coinquilini? Nessun dubbio sulla legittimità della verifica effettuata presso il locale adibito allo svolgimento dell’attività.
La Corte suprema, con l’ordinanza 28068 del 16 dicembre, ha ribadito che “in tema di accertamento dell’IVA, l’autorizzazione del procuratore della Repubblica, prescritta dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, commi 1 e 2, ai fini dell’accesso degli impiegati dell’Amministrazione finanziaria (o della Guardia di finanza, nell’esercizio dei compiti di collaborazione con gli uffici finanziari ad essa demandati) a locali adibiti anche ad abitazione del contribuente o a locali diversi (cioè adibiti esclusivamente ad abitazione), è subordinata alla presenza di gravi indizi di violazioni soltanto in quest’ultimo caso, e non anche quando si tratti di locali ad uso promiscuo”.
Tale destinazione, peraltro, secondo i giudici di legittimità, sussiste non soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma ogni qual volta “l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi (Cfr. anche Cass. Sentenze n. 2444 del 05/02/2007, n. 10664 del 1998)”.
Nel caso all’esame della Corte, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione, affidato a un unico motivo, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, la quale aveva rigettato l’appello della medesima Agenzia contro la decisione di quella provinciale.
In particolare, il giudice di secondo grado aveva ritenuto che tutti gli elementi acquisiti dalla Guardia di finanza nel corso della verifica non potevano essere utilizzati, giacché l’accesso non era stato previamente autorizzato dal procuratore della Repubblica.
Con il motivo presentato a sostegno del ricorso, l’ufficio deduceva il vizio di insufficiente motivazione, in quanto la Ctr non aveva compiutamente enunciato gli elementi in virtù dei quali riteneva che l’autorizzazione del procuratore fosse necessaria per l’effettuazione dell’operazione da parte della Gdf e, questo, nonostante le due unità immobiliari si trovassero in un unico fabbricato, ai numeri civici 2 e 4, e l’abitazione avesse un solo ingresso al civico 2, mentre l’autofficina, luogo dell’impresa (attività formalmente cessata nel 1995, ma di fatto proseguita “in nero”), era accessibile attraverso la rampa del civico 4, indipendente dalla prima.
Secondo la Corte suprema, il motivo di ricorso era fondato, dal momento che il giudice di appello aveva ritenuto non utilizzabili gli atti ed elementi acquisiti dalla Guardia di finanza nel corso della verifica svolta presso l’officina, senza però specificare “le ragioni del suo assunto, posto che occorreva stabilire invece se, nonostante l’unicità del fabbricato, l’unità adibita alla riparazione dei veicoli fosse da ritenere anche collegata all’abitazione, o piuttosto essa ne fosse invece separata, non operando il principio applicato in tale seconda ipotesi”.
La conclusione dei giudici di legittimità è chiara e puntuale.
L’eccezione per cui l’atto impugnato sarebbe illegittimo, in quanto fondato su elementi probatori rinvenuti nel corso di accessi eseguiti presso locali adibiti ad abitazione, ma non correttamente autorizzati ai sensi dell’articolo 52, secondo comma, del Dpr 633/1972, richiamato dall’articolo 33, primo comma, del Dpr 600/1973, in virtù del quale l’accesso domiciliare è consentito esclusivamente allorché sussistano due presupposti necessari, quali l’autorizzazione del procuratore della Repubblica e la sussistenza di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie, è, infatti, ammissibile solo in presenza di determinate condizioni, di fatto e di diritto.
E questo tanto nel caso in cui l’autorizzazione non ci sia quanto nell’ipotesi in cui la motivazione della medesima autorizzazione ci sia, ma venga espressa con formule di stile.
Quanto a questo secondo caso, la giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione ammette, infatti, che la motivazione dell’autorizzazione possa essere costituita da formule implicite, che rinviano al contenuto della richiesta della Gdf.
Né, d’altronde, è possibile sostenere l’illegittimità del provvedimento di autorizzazione laddove non sia stata resa conoscibile la richiesta formulata dalla Guardia di finanza, alla quale la motivazione dell’atto fa rinvio.
Al riguardo, onde fugare ogni dubbio, giova infatti porre particolare attenzione all’indirizzo ormai “avito” espresso dalla Cassazione (sezione unite, sentenza 8062/1990) in merito alla natura del provvedimento autorizzativo della perquisizione domiciliare e alla relativa motivazione.
Con riguardo a quest’ultima, la Corte suprema ha sentenziato che l’autorizzazione di cui al secondo comma dell’articolo 52 non è “un atto dovuto che si limita a prendere atto della ricorrenza dei presupposti richiesti dalla norma ai fini dell’accesso domiciliare (nel qual caso il controllo giudiziario sarebbe meramente nominale e apparente), ma un atto tipicamente discrezionale che si risolve in un controllo di carattere sostanziale in quanto la legge riconosce alla AGO il potere di valutare l’esistenza in concreto dei gravi indizi di violazione delle leggi tributarie segnalati dall’autorità competente per stabilire se essi sussistano attivamente e siano o meno gravi. E la motivazione del provvedimento, proprio per quella esigenza di segretezza che attiene alla stessa funzione della procedura, potrà anche esaurirsi in espressioni sintetiche di significato implicito e risolversi nel richiamo della nota della Guardia di finanza che a quegli indizi abbia fatto riferimento”.
Quanto precede, ad avviso della Cassazione, è conforme ai principi costituzionali che attengono alla inviolabilità del domicilio e, in particolare, all’articolo 14, terzo comma, della Costituzione, che consente alla legge ordinaria di disporre accertamenti o ispezioni domiciliari per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali e ciò – aggiunge la Corte – anche senza l’intervento del giudice.
E invero, comunque, la disponibilità dell’atto, nel senso di conoscibilità dello stesso, viene sicuramente garantita laddove siano stati indicati gli estremi della richiesta della Guardia di finanza, riconoscendo, pertanto, agli interessati la possibilità di avviare il procedimento di accesso ai documenti e di prenderne visione, su loro specifica richiesta.
Quanto, invece, al caso oggetto della sentenza, laddove il contribuente risulti svolgere attività commerciale nel luogo oggetto di accesso, le modalità di controllo attuabili sono in realtà quelle previste dal comma 1 dell’articolo 52 del Dpr 633/1972, e non quelle del comma.
La verifica era stata, quindi, correttamente eseguita, in quanto la norma in questione prevede che gli uffici e la Guardia di finanza possano disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria per procedere a: ispezioni documentali; verificazioni; ricerche; ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni.
I funzionari che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono.
Solo per accedere nei locali che siano adibiti anche ad abitazione (e non era il caso di specie) è invece necessario anche il via libera del procuratore della Repubblica.
In sintesi:
- la procedura ordinaria (comma 1) riguarda le modalità per accedere nei locali dove si esercitano attività d’impresa, artistiche e professionali (esclusive o promiscue)
- la procedura eccezionale (comma 2) tratta invece il caso in cui sia ritenuto necessario accedere in locali diversi da quelli precedenti, come i locali adibiti ad abitazione o degli enti non commerciali che non svolgono affatto attività imprenditoriali.
Il potere di accesso, ispezioni e verifiche risulta, quindi, chiaramente applicabile nei confronti di tutti i potenziali soggetti passivi, senza distinzione alcuna, poiché i poteri elencati dall’articolo 51 del Dpr 633/1972 e dall’articolo 32 del Dpr 600/1973, sono diretti indistintamente ai “contribuenti” in genere, per acquisire dati, notizie ed elementi “ai fini dell’accertamento nei loro confronti”.
Sicché, il potere di accesso riguarderà ogni soggetto, ivi compresi gli evasori totali, nei cui confronti sono indispensabili azioni penetranti come le ricerche in loco, onde verbalizzare fatti, circostanze ed elementi concreti per la rettifica dei redditi dichiarati o per l’accertamento d’ufficio nei casi di omessa dichiarazione ed eventualmente come prove di violazioni sanzionabili penalmente da allegare al rapporto all’Autorità giudiziaria.
In altre parole: se l’interesse costituzionale tutelato dalla norma dell’articolo 52 è quello dell’inviolabilità del domicilio, sancita dall’articolo 14 della Costituzione, è poco comprensibile leggere la norma medesima nel senso di ricomprendere tra i detti locali anche quelli costituenti ambienti dove si svolge attività di impresa e in alcun modo collegati all’abitazione.
L’articolo 14 della Costituzione, salvaguardando le “garanzie prescritte per la tutela della libertà personale”, chiarisce, infatti, che l’inviolabilità del domicilio è posta a tutela della persona e non del luogo.
FONTE: www.fiscooggi.it (giornale on line dell’Agenzia delle Entrate)
AUTORE: Giovambattista Palumbo