Nel racconto delle alluvioni di questi giorni i mezzi di comunicazione hanno giustamente sottolineato il ruolo delle migliaia di giovani che sono scesi in strada a spalare il fango. La novità è che finalmente se ne parla, ma il fenomeno non è nuovo.  E’ successo ogni volta in presenza di eventi catastrofici. Non a caso l’appellativo di “angeli del fango” è datato 1966, quando l’esondazione dell’Arno a Firenze mobilitò le migliori giovani risorse di quella città impegnate per giorni a salvarne libri e opere d’arte.

E’ come se attorno alle alluvioni si risvegliassero le coscienze di migliaia di giovani che si suppongono altrimenti sempre sopite o impegnate a preoccuparsi di aggiornare i propri profili facebook.  E’ come se il fango, che tradizionalmente copre, in questo caso facesse invece emergere lo straordinario legame, l’affetto profondo che lega questi ragazzi con le loro città, con il loro territorio, con il Paese tutto.

Non c’è solo solidarietà e voglia di dare una mano a chi è stato colpito dal disastro, ma c’è anche la percezione di sentirsi finalmente utili, anzi indispensabili, in un mondo che li emargina e, forse, soprattutto il desiderio di occuparsi di quei luoghi che si riscoprono finalmente propri.

In questi anni Legambiente ha incontrato decine di migliaia di volte questi ragazzi, durante i terremoti, le frane, le alluvioni, in situazioni d’emergenza, ma anche nei campi di volontariato estivi. Sappiamo bene quanto forte sia quel sentimento d’amore per il Paese che chiede solo di essere accompagnato, accudito e coltivato. Ed è su questi affetti che bisogna fare leva per costruire un’idea di comunità coesa, un senso d’identità, quel sentimento che era ben presente nelle parole del celebre carteggio fra Pietro Pancrazi e Piero Calamandrei, quando parlavano di “voler bene all’Italia”, una frase che è diventata più di uno slogan per l’attività della nostra associazione.

Quello che vorremmo ora è che quest’amore per l’Italia che sta in questi ragazzi non venga riposto via con le pale e i guanti al termine dell’emergenza, non venga dimenticato nei magazzini e spolverato alla prossima alluvione, ma venga alimentato permanentemente. Pensare insomma a un servizio civile volontario breve (tre mesi?) che proponga ai nostri giovani di prendersi cura del proprio territorio, che formi una generazione consapevole e in grado di affrontare i rischi di un Paese fragile ed esposto al dissesto idrogeologico, che si faccia carico magari di pulire i corsi dei fiumi, di individuare e censire le emergenze, di collaborare con la Protezione Civile in una grande opera di cura e manutenzione del Paese. Ecco, diamo un senso a quest’affetto, diamogli un luogo perché diventi occasione di crescita individuale e collettiva. Tra le riforme cui si sta mettendo mano in questi mesi ci piacerebbe che si pensasse anche a una riforma di questo tipo, perché chi è sceso in strada in questi giorni a sudare e a sporcarsi di fango trovi sempre più occasioni per “voler bene all’Italia”.

 

 

FONTE: Legambiente

AUTORE: Vittorio Cogliati Dezza

 

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