Gli impianti di incenerimento dei rifiuti, secondo il governo di Matteo Renzi, “concorrono allo  sviluppo  della raccolta  differenziata  e  al  riciclaggio   mentre   deprimono   il fabbisogno  di  discariche”. Inoltre, specifica l’articolo 35 comma 1 dello “Sblocca Italia”, “tali impianti di   termotrattamento costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di  preminente interesse  nazionale ai fini della tutela della salute e dell’ambiente”. Dal numero di settembre di “Altreconomia” un approfondimento su quelli che vengono definiti  “termoutilizzatori”, a partire dal “caso Brescia”.   


Il monumento più visto della città di Brescia è un simbolo della modernità, il cui nome -nella neolingua della società dei consumi- è “Termoutilizzatore”. Sorge accanto all’autostrada A4, ed è -tornando a parlare italiano- l’inceneritore di rifiuti di A2a, il più grande d’Italia. 
Utilizzando al massimo delle sue capacità le tre linee di combustione, può arrivare a smaltire fino a 800mila tonnellate di rifiuti all’anno, anche se il suo bacino, qualora la raccolta differenziata raggiungesse davvero il 65%, ovvero il limite previsto per legge, ne produrrebbe circa un quarto. 
La nota integrativa al bilancio 2013 di A2a -società quotata in Borsa che vede il Comune di Brescia e quello di Milano come primi azionisti, con il 27,45% a testa- segnala che ad ottobre 2013 l’impianto ha superato “la quota di 10 milioni di tonnellate di rifiuti conferiti”. Un risultato ottenuto consegnando -in senso figurato- le chiavi della città a chi dei rifiuti fa mercato, un mercato di cui la città di Brescia è il vero epicentro nel Nord Italia, forte di una sorta di vocazione naturale, che si è sviluppata negli anni Trenta del secolo scorso ed è “sbocciata” nel Secondo dopoguerra: l’epopea industriale bresciana è fondata sulla metallurgia -quella del “tondino”, utilizzato nel settore delle costruzioni, ma anche la meccanica di precisione-, e costruita a partire dai rottami. Hanno iniziato così, tra gli altri, i fratelli Riva, che sono poi arrivati a possedere l’ILVA di Taranto, e Luigi Lucchini, il cui gruppo siderurgico prima di finire in amministrazione straordinaria nel 2012 comprendeva gli altoforni di Livorno e Trieste (vedi Ae 161). 

È un circolo vizioso, ricostruito nel lavoro di Giovanni Lonati, che nell’ambito di un dottorato di ricerca in pianificazione territoriale e politiche pubbliche del territorio allo IUAV di Venezia ha dedicato la tesi ad analizzare “conflitti ambientali e forme di ecologismo popolare nel territorio bresciano”, arrivando a censire per 64 conflitti ambientali, 23 dei quali legati al ciclo dei rifiuti. Il più macroscopico è senz’altro quello -tutt’ora in corso- legato all’inceneritore. A metà giugno il Coordinamento dei comitati ambientalisti della Lombardia, l’Associazione cittadini per il riciclaggio e il Comitato per la salute, la rinascita e la salvaguardia del centro storico hanno diffidato formalmente il Comune di Brescia, chiedendo all’amministrazione di cancellare la delibera del marzo di quest’anno con cui A2a è autorizzata ad “importare” 260mila tonnellate, “essenzialmente combustibile derivato dai rifiuti” come si legge nel documento.Marino Ruzzenenti, storico dell’ambiente e curatore del sitowww.ambientebrescia.it, spiega che “probabilmente la diffida verrà tradotta in un esposto in Procura, sfruttando il lavoro dei magistrati sui casi della centrale termoelettriche a carbone di Porto Tolle e Vado Ligure: “In quel caso, i due impianti sono stati fermati a causa dell’utilizzo di combustibile inquinante, che produce un ‘sovrappiù di emissioni’ rispetto a combustibili alternativi. Anche l’inceneritore di Brescia è, in pratica, una centrale termoelettrica, ed è situata al centro di una città, e chiederemo di valutare se sia corretto, o meno, utilizzare un combustibile inquinante come i rifiuti”. 

Nella diffida, i comitati si rivolgono anche a Regione Lombardia, che sta discutendo il nuovo Piano regionale di gestione dei rifiuti, che definisce quello di Brescia come “impianto di piano”, destinato a “sottostare agli obiettivi della pianificazione regionale”. A fine 2013Legambiente Lombardia ha presentato un dossier, chiedendo di avviare una exit strategy dal “trentennio di incenerimento”, che ha trasformato la Lombardia nella “culla” dell’incenerimento in Italia: qui sono concentrati oltre un quarto degli impianti presenti in Italia, ben 27 (14 dei quali, però, dedicati ai soli rifiuti speciali) su 103. Secondo Legambiente, così, sono i numeri ad evidenziare che “tra il 35 e il 70% della potenzialità degli impianti […] lombardi non potrà venire utilizzata, se ci si baserà sulla produzione di rifiuto indifferenziato prodotto da utenze civili e assimilate della Lombardia”. La chiave di volta è quel se, nell’apertura dei forni a rifiuti senza nemmeno sapere -è quanto accade a Brescia- da dove essi provengano. “È un dato che non viene fornito -spiega Ruzzenenti-. Il Comune di Brescia si limiterà ad incassare un contributo straordinario di 10,5 euro per tonnellate di rifiuti importati”, pari ogni anno a “circa 2 milioni e 800mila euro” si legge nella diffida. Contro la delibera del Comune di Brescia che autorizza l’import e “accetta” il contributo di A2a, i cittadini bresciani preparano un referendum consultivo: “Abbiamo raccolto l’adesione della Rete antinocività -www.antinocivitabs.org-, del Comitato ambiente Brescia Sud, della Pastorale del creato della Diocesi -spiega Ruzzenenti-. Raccoglieremo mille firme perché la nostra proposta venga discussa. 
Poi -se la commissione municipale valuterà positivamente il testo- ne serviranno 10mila per realizzare il referendum vero e proprio”.  

Nel frattempo, le istituzioni bresciane e lombarde potrebbero superare il confine del Garda e del fiume Mincio e spingersi fino a Verona, nella prima città veneta oltre confine. Secondo quanto riporta il quotidiano l’Arena il 12 luglio, il presidente di AGSM -la municipalizzata che gestisce il ciclo dei rifiuti- Paolo Paternoster avrebbe parlato dell’inceneritore di Ca’ del Bue, attualmente “spento”, come di un “problema di trent’anni fa”, di un impianto “non più strategico per noi”. Un documento redatto da SEL in occasione dell’ultima campagna elettorale, a partire dai dati dell’Osservatorio regionale rifiuti dell’ARPAV, spiega che il Veneto oggi potenzialmente può incenerire 971 tonnelate al giorno, ma ne brucia solo 560, ovvero quanti ve ne sono disponibili nel territorio regionale. “Con Cà del Bue in funzione -aggiunge il documento- la potenzialità salirebbe a 1.464 ton/g. A cosa serve una potenzialità simile se già oggi [ne] viene bruciato un terzo?”. 
La risposta retorica alla domanda retorica è “per bruciare sempre di più”. Un’analisi pubblicata nei mesi scorsi da Cassa depositi e prestiti (CDP), evidenzia un fabbisogno di 97 nuovi impianti, per un investimento stimato di 12-13 miliardi di euro. Secondo Filippo Brandolini, presidente di Federambiente, la federazione delle aziende che si occupano di igiene urbana (lui viene da Herambiente, una controllata di Hera, che opera principalmente in Emilia-Romagna), la stima di CDP è eccessiva, perché “i nuovi impianti, per essere efficienti dal punto di vista economico, e anche dal punto di vista ambientale, dovranno prevedere taglie medie maggiori rispetto alla concezione attuale”, con il 57% del “parco macchine” dotati di una capacità inferiore alle 300 tonnellate al giorno. L’inceneritore del ventunesimo secolo, cioè, “non dovrà più rispondere a logiche di pianificazione del passato, quando ogni bacino provinciale doveva essere autosufficiente”.  

L’ultima fotografia del settore scattata dall’ISPRA -il rapporto relativo al 2013 è stato presentato a fine luglio- spiega che il volume dei rifiuti solidi urbani prodotti in Italia scende per il secondo anno consecutivo sotto i 30 milioni di tonnellate, a fronte di una capacità installata di incenerimento di circa 8 milioni di tonnellate: ciò significa che già oggi quasi il 30% del totale dei rifiuti prodotti potrebbe essere bruciato. “Ipotizzando un tasso di riciclaggio al 70% nel 2030”, come spiega Brandolini, la parte restante può essere inviata a incenerimento. 
Nonostante i numeri, però, la smania di costruire forni non si ferma: è in dirittura d’arrivo  l’impianto di Cerignola (FG), mentre quello di Case Passerini a Firenze -osteggiato dai comitati “Rifiuti zero”, zerowasteitaly.blogspot.it- è in attesa di autorizzazione integrata ambientale. Se realizzato, verrà costruito e gestito da una newco partecipata al 60% da Quadrifoglio e al 40% dal gruppo Hera, la società nel cui consiglio d’amministrazione siede Brandolini. Eppure, dopo la grande corsa degli anni Novanta e Duemila, che ha visto avviare 37 nuovi impianti, oggi la corsa all’incenerimento pare rallentata. Solo due i forni avviati negli ultimi anni -quelli di Parma e Torino-, molti i progetti in stallo. 

Anche perché l’esperienza insegna che la scusa di “incenerire per non sottrarre”, in discarica, è priva di fondamento. Per rendersene conto basta passare un quarto d’ora a Montichiari, a un ventina di chilometri da Brescia: qui il territorio, ricco di ghiaia, è stato a lungo messo alla prova. Oggi quelle voragini sono diventate discariche, arrivando a cambiare lo skyline della Pianura Padana, dove sono comparse colline inesistenti. Giovanni Lonati nella sua tesi descrive la cittadina come la “capitale del distretto bresciano del rifiuto”, dato che presenta “un ‘carico’ pro-capite di oltre 500 metri cubi di rifiuti” per ognuno dei 24mila cittadini. Cave attive, il cui futuro si può immaginare, e discariche stanno le une accanto alle altre, e il via vai di camion è continuo: c’è chi entra carico (di rifiuti), e chi esce carico (di ghiaia).  
A pochi chilometri da Montichiari, a Est del capoluogo, c’è Rezzato: qui Italcementi sta realizzando -con un finanziamento della Banca europea degli investimenti- il revamping di un cementificio. Diventerà un co-inceneritore di rifiuti.

 

FONTE: Altreconomia (www.altreconomia.it)

AUTORE: Luca Martinelli

 

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